“Certo bisogna farne di strada, da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.
Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà
È un cinema, quello a cui appartiene Sbatti il mostro in prima pagina, di cui oggi si sente la mancanza. Un cinema maleducato, che non ha paura di essere parziale, di raccontare le sue verità contro quelle costruite da chi detiene il domino sull’immaginario. Non si può infatti essere civili e politici con la buona maniere di tanti film contemporanei che si dicono impegnati, dove, nel retorico e appiccicoso rispetto delle vittime, si canonizza ogni morto, i buoni sono ovunque e i cattivi da nessuna parte, e nel mezzo non rimane niente, niente di fianco, niente sopra. Narrazioni ”pulite” che, a differenza di quello che dovrebbe fare un racconto civile, non liberano e scuotono lo sguardo ma lo rassicurano nelle sue certezze preconfezionate.
Sbatti il mostro in prima pagina è, al contrario, proprio un film “sporco”. È “sporca” la sua vicenda produttiva: inizialmente destinato alla regia di Roberto Donati (collaboratore abituale di Sergio Leone), autore anche della sceneggiatura, passa poi nelle mani di Bellocchio, il quale chiama a riscriverlo in breve tempo Goffredo Fofi. È “sporca”, scarna, ruvida, la sua immagine, che cerca di restituire senza patine il cielo e i muri grigi di quella Milano, capitale dell’ipocrita moralità d’Italia. È “sporco” il suo stile, insicuro, a cavallo tra documentario e fiction, ostinato nel tentativo di raccontare una realtà che fuori, oltre la macchina da presa, urlava implorando di essere ascoltata. “Un film degli anni Settanta”, che non appartiene tanto ai suo autori quanto alla temperie culturale e sociale di quegli anni. La sua impurità, la sua “sporcizia”, testimoniano le urgenze comunicative di due decenni cruciali nella Storia recente di questo paese, che oggi più che mai si vogliono edulcorare, dimenticare, cancellare.
Sbatti il mostro in prima pagina mette in scena l’orrore del Potere e lo smaschera, mostrandoci la recita che questo imbastisce ogni giorno. Una finzione orchestrata su scala di massa, che rende ogni cittadino attore sul palcoscenico di una Stato controllato - come una marionetta - da uomini al riparo nei loro interni alto-borghesi. Quello di Bellocchio è infatti, prima di ogni altra cosa, un film civile e politico. È un film civile nel senso etimologico più puro del termine, ovvero “riguarda gli uomini in quanto cittadini di uno Stato”, li riguarda perché programmaticamente vuole mettere in crisi il loro modo di percepire la quotidianità, rivelando qualcosa di nascosto, permettendo così di osservare il mondo attraverso altri occhi e situarvisi con una consapevolezza diversa. È un film politico perché si sbilancia, sceglie, milita, ha il coraggio di prendere parte a una battaglia di idee; ri-conosce un nemico e vi oppone resistenza.
Perché il Potere raccontato da Bellochio e Fofi è circoscritto e definito con precisione, è il potere di una parte politica che, facendosi portavoce della sicurezza e della disciplina, impone silenziosa e nascosta l’ordine del buon senso; buono solo a favorire gli interessi di una minoranza a scapito della collettività che deve rimanere ignara di tutto. Un potere tecnico e osceno - ideologico nella misura in cui la tecnica è l’ideologia debole, invisibile e subdola di chi controlla senza volerne dare l’idea - che trova un’espressione perfetta nel volto luciferino eppure lucidissimo di Gian Maria Volonté; il volto di un uomo che con spietata precisione agisce per perpetrare lo status quo più conveniente alla sua classe. Consapevole di servire una menzogna che autoalimenta il migliore dei sistemi possibili - il migliore per lui -, capace con orrenda razionalità di passare sopra ogni cosa per farlo, anche sopra le macerie umane della vita che resta a quelli che dal Sistema sono esclusi.
Titolo originale: Sbatti il mostro in prima pagina; Regia: Marco Bellocchio; Sceneggiatura: Sergio Donati, Goffredo Fofi; Fotografia: Luigi Kuveiller, Erico Menczer; Montaggio: Ruggero Mastroianni; Scenografia: Dante Ferretti; Costumi: Franco Carretti; Musiche: Ennio Morricone, Nicola Piovani; Produzione: Jupiter Generale Cinematografica, UTI Produzioni Associate, Labrador Films; Distribuzione: Euro Film; Durata: 90 min.; Origine: Italia/Francia, 1972
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