Nella polacca Leopoli, occupata dai tedeschi nel 1943, Leopold Socha si occupa di ispezionare le reti fognarie, destreggiandosi tra un furto e l’altro nelle case di ricchi possidenti e di quelle ebree ormai svuotate. Un giorno trova nei cunicoli degli ebrei che cercano riparo dalla Gestapo e accetta di aiutare alcuni di loro per denaro. Quando incontra un vecchio compagno ucraino di prigione, ormai ufficiale e al servizio dei nazisti, avverte il pericolo che sta correndo e sembra titubante di fronte alla scelta di consegnarli per ricevere la ricompensa o continuare a proteggerli rischiando la vita. Con l’aiuto del suo secondo, Szczepek, continua ad accettare vilmente il denaro degli ebrei portando loro le provviste, fino a quando l’arrivo dei russi permette agli undici rifugiati nelle fogne di uscire alla luce, dopo oltre tredici mesi di buio.
Attraverso una precisa e attenta ricostruzione dei fatti, realmente accaduti e qui mostrati con tanto rigore, la Holland mette in scena una parte della Storia ancora in ombra tra gli eventi più tragici della storia europea del XX secolo, tanto vicina al nostro presente da non poter prescindere dalle sue barbarie: la Shoa. Permeato da un ombra continua, In Darkness, attraverso la narrazione serrata tra gli antri bui e angusti, tra topi e liquami putrescenti di una fogna, riflette l’intima natura dell’uomo, restituendolo nella sua ambivalenza e costruendo da qui personaggi a tutto tondo, tanto densi da restituire, oltre alle semplici distinzioni di razza e religione, le peculiarità più bieche, vili e folli che contraddistinguono ogni uomo. Così la storia diventa una parabola, l’allegoria del ricco e colto padre di famiglia, del giovane diffidente e impetuoso Mundek, del vigliacco che non resiste e preferisce scappare trovando la morte per mano dei nazisti, dell’ebreo che confida nelle sue preghiere, di Leopold, salvatore polacco un po’ goffo e razzista, che tentenna, poi torna sui suoi passi scegliendo di abbandonarli e poi ancora si mette a loro disposizione, anche quando i soldi sono finiti e per lui non vi è più ricompensa se non quella di uscirne con la coscienza pulita. All’oscurità della città nelle sue fondamenta si contrappone la luce accecante del cielo sulla strada di Leopoli. Ne nasce una fotografia alterata nei suoi bianchi, quasi bruciata, come se la macchina da presa stessa si umanizzasse e dovesse riabituarsi in ogni istante alla luce, dopo tanto buio. Nessun ricco industriale tedesco si prodiga per degli ebrei fuggiti al rastrellamento, nessun cambiamento catartico porta la storia alla salvezza come nello Schindler's List di Spielberg, ma qui la regista polacca si inchina alla verità, lasciando che sia la storia stessa a raccontarsi, senza temere che i suoi ebrei non siano angeli e che il suo protagonista somigli tanto a un eroe mancato, vile e folle nella sua noncuranza.
Pare invece che la Holland voglia seguirne gli impalpabili cambiamenti, sfumature che si disegnano su un volto contratto, intenso, vigoroso eppure labile da lasciare spiazzati, interdetti anche quando li porta in salvo, uno ad uno, attraverso un labirintico buio fino alla luce accecante, gridando alla città liberata “sono i miei ebrei”. Così non vi è ombra di nessun pietismo, perché questi undici ebrei non sono perfetti, sempre pronti come animali braccati nel sottosuolo ad attaccarsi, abbandonarsi, ricattarsi e sopravvivere a dispetto di ogni cosa. Nessun sentimentalismo ma solo un ostinato rigore di volere mostrare la storia di uomini imperfetti.
|