Anche quest’anno, tra vincitori e vinti, si è conclusa la Mostra del Cinema di Venezia. Molte sono state le sorprese, ancora di più le critiche che hanno accompagnato, forse ingiustamente, una rassegna che si ricorderà soprattutto per la variegata mappatura di immagini che hanno condensato luoghi e voci di più continenti, sguardi non solo sul presente, ma anche rivolti al passato, in una felice unione di ricerca introspettiva e sociologica. Ma dopo un mese qual è la sensazione finale?
Sicuramente la 67esima edizione si è fatta notare per un atteggiamento decisamente low profile, senza grandi star a padroneggiare sul tappeto rosso, con il direttore artistico Marco Müller, sempre più focalizzato sugli aspetti più intimi della comunicazione cinematografica, che ha radunato pellicole che raccontano, ognuna a suo modo, il disagio esistenziale e la ricerca di sé. Forse sono stati proprio i film che hanno fatto più parlare a rappresentare al meglio questa commistione d’intenti, come ad esempio il film di apertura Black Swan di Darren Aronofsky e il Leone d’Oro Somewhere di Sofia Coppola. Due film intensi che hanno saputo ricreare, il primo con una ricerca formale quasi perfetta, il secondo con un minimalismo esasperante, quel senso di inquietudine non sempre decodificabile al cinema, ma in questi casi riproposto con una forza viscerale davvero efficace. Stesso discorso per un altro film premiato, Essential Killing di Jerzy Skolimowski, dove Vincent Gallo mette in scena l’istinto di sopravvivenza in due ore in cui la macchina da presa è totalmente fissa su di lui. Oppure uno dei migliori film della Mostra, passato quasi in sordina, ma apprezzato dagli spettatori più attenti: Incendies di Denis Villeneuve, storia di due fratelli alla ricerca delle proprie origini in un Libano sconvolto dalla guerra. Un film che richiama alla memoria un’altra pellicola, Miral di Julian Schnabel, opera vicina nelle tematiche alla precedente, ma diametralmente opposta quanto a scelte registiche, quando si tratta, ad esempio, di descrivere la storia di paese attraverso la vicenda umana di una donna, in un ritratto purtroppo didascalico e piatto.
La Storia, protagonista occulta di questa edizione, passa anche attraverso delle opere come Post Mortem di Pablo Larraín, che ha messo in scena l’implosione di un uomo comune come proiezione di un Cile annichilito dal golpe di Pinochet, oppure la commedia di François Ozon con Catherine Deneuve, eroina simbolo di un femminismo sessantottino andato perduto nel rutilante Potiche, o ancora Venus Noire di Abdellatif Kechiche, racconto straziante sul razzismo nei confronti di una schiava dell’Ottocento. Capitolo a parte meritano poi i film italiani, in concorso e fuori concorso. Molti quest’anno i registi presenti: Mario Martone ha ricordato gli aspetti meno fortunati del risorgimento italiano con il fluviale Noi credevamo, Saverio Costanzo la patologia con La solitudine dei numeri primi, Carlo Mazzacurati ha dato vita ad una commedia all’italiana in stile anni Sessanta con La Passione, mentre Ascanio Celestini, con La pecora nera, ha fatto un resoconto tragicomico sui manicomi. Opera prima, invece, per Aureliano Amadei che con Venti sigarette e la sua strage di Nassirya ha vinto il Premio Controcampo italiano, mentre Stefano Incerti con Gorbaciof ripropone un Toni Servillo in splendida forma. Senza dimenticare Antonio Capuano, che con L’amore buio e la storia dei “suoi ragazzi di vita” in una Napoli violenta firma una pellicola davvero emozionante, forse la migliore tra quelle italiane, nonché Michele Placido e il suo criticato Vallanzasca. L’aspetto più riuscito di queste opere è stata sicuramente la scelta degli attori, come dimostrano proprio Vallanzasca e La solitudine dei numeri primi, che si fanno apprezzare più per le capacità espressive dei loro attori – rispettivamente Kim Rossi Stuart e Alba Rohrwacher – che per una perfetta sintesi drammaturgica.
Rimane un po’ l’amaro in bocca per le scelte di Quentin Tarantino, che ha premiato due film discutibili come il visionario, burlesco e sovraccarico di immagini Balada triste de trompeta di Álex de la Iglesia, e Road To Nowhere del suo primo produttore Monte Hellman, forse più un regalo fatto ad un amico che un premio meritato. In ultimo vogliamo ricordare un grande regista, forse Il grande regista, ovvero Martin Scorsese, che ha portato al lido A letter to Elia, un film documentario su Elia Kazan, il cineasta greco-americano a cui Scorsese indirizza una lettera celebrativa frutto di un amore fraterno e di un’ammirazione inossidabile.
Dunque, questa 67esima edizione della Mostra si conclude con la sensazione di aver partecipato ad una rassegna ricca di tematiche e appagante per lo sguardo, nonostante la solita scia di polemiche tutta italiana per una presunta incompiutezza delle opere in concorso. Ma non siamo sicuri che questo gran parlare della stampa più blasonata italiana possa scalfire i giudizi entusiastici espressi fuori dal Belpaese, se è vero che ben tredici titoli tra i ventiquattro in gara per il Leone d’Oro hanno ricevuto dalla stampa estera una media voto molto positiva. Attendiamo l’anno prossimo, un 2011 che si spera possa dar vita ancora una volta alla fortunata antologia di volti, persone, immagini e poetiche di una Mostra sempre attenta alle svolte del presente e alle dinamiche umane di sempre.
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