Columbine tra realtà e rappresentazione PDF 
di Fulvio Montano   

Una mattina d'autunno in una qualunque cittadina americana: un padre ancora ubriaco dà un passaggio al figlio tra ultrareferenziali stereotipi della provincia americana. Villette unifamiliari ordinatamente allineate ai lati della strada, giardini ben curati e adolescenti anonimi che entrano a scuola cartella in spalla si alternano sotto un cielo incupito che ha il gusto (pur non essendolo) del 16 millimetri: sporco, un po' squadrato e quella strana sensazione di pellicola low budget.

 

Elephant di Gus Van Sant inizia quasi in sordina, con un ritmo lento e a tratti abnorme, che ha il grande pregio di non esser finalizzato alla costruzione immediata di alcun climax, ma appare interamente sacrificato alla continuità spazio-temporale della narrazione e alla totale aderenza a una realtà già di per sé così aberrante da non richiedere alcun valore emotivo aggiunto.Una semplice, ma tutt'altro che semplicistica giustapposizione di situazioni più o meno didascaliche (è la descrizione del luogo o della storia che preme al regista?), svelate con glaciale rigore al limite del documentario e sostenute dalla sconcertante irruzione della violenza nella monotona e prevedibile quotidianità scolastica. Un'unità di luogo e di tempo condensata nello spazio per eccellenza deputato ai soprusi, agli sfottò ed alla solitudine di chi, vuoi perché troppo maturo o troppo timido per socializzare in maniera corretta, non riesce a integrarsi.

La Columbine High School di Littleton, in Colorado, si riduce così a semplice pretesto e assume le sembianze di un vero e proprio archetipo, di un purgatorio/limbo abitato da spettri angosciosamente sospesi tra la vita e la morte, da non-morti lungodegenti che si aggirano tra le corsie di un ospedale per pazienti in coma profondo.

L'estremo minimalismo che caratterizza la cifra stilistica del film sublima la narrazione in una successione di iperboli che insistono sulla metafora e sulla distanza tra la realtà e la sua rappresentazione. Le relazioni artefatte e senza enfasi tra i ragazzi, l'afasia che rende superflua qualsiasi comunicazione, il silenzio di musica, di parole e di suoni, che pervengono a noi così ovattati e distanti, narrano la follia di un mondo che guarda oltre il bordo, cinicamente rassegnato alla fine. Disabituato a questa mancanza e costretto a lunghe peregrinazioni senza scopo apparente, lo spettatore percepisce con un misto di angoscia e fastidio l'essere in bilico tra il dentro e il fuori, colpevole testimone di una rappresentazione predeterminata dall'autore che seziona una realtà incomprensibile e tutt'altro che deterministica, affidata ai sussulti aleatori e alla sovversione di menti che hanno abbandonato la retta via.

In un presente difficile da decifrare perché colmo di digressioni, di scene reiterate da diverse prospettive e dilatato da interminabili pedinamenti in steadycam dei personaggi/feticcio del dramma, si ha come la sensazione di essere i protagonisti di un arcade incredibilmente realistico, di uno spara-spara in 3D dalla grafica sensazionale giocato a livello uno, quello che usa il principiante per impratichirsi di comandi e dinamiche della sfida. La macchina da presa rifiuta insomma qualsiasi timidezza e, perfettamente a suo agio nell'universo giovanile della scuola, si fa partecipe degli ansimi e dei sospiri che ne abitano i corridoi, le stanze, i cortili. Risonanze nuove e insolite, che tessono la colonna sonora perfetta per un'unica, intensa e spregiudicata soggettiva ad altezza uomo.

 

Accompagnata da un ossessivo diteggio di Beethoven sul pianoforte, quest'indagine così rigorosa riesce ad essere insieme distaccata e partecipe, sposando un atteggiamento che da subito addita al colpevole, individuando nella società degenerata il mandante e negli sballati ragazzini in mimetica gli esecutori implacabili dello spietato massacro. Ecco perché introdurre uno scarto tra realtà e rappresentazione, montando in parallelo le quotidiane angherie subite dall'introverso e dotato suonatore di pianoforte Alex con la bruttina e incolpevole Michelle (non a caso la prima vittima della mattanza), sottraendo contemporaneamente ispirazioni sataniche e naziste alle personalità dei due assassini, ridotti a cloni di quegli odiosi Beavis and Butthead che passano i pomeriggi a commentare quel che passa in TV.

"Forte questo Hitler, eh?"
"No, era un cretino."
"E' successo in Germania, vero? Un sacco di tempo fa, no?"

Referenziale all'estremo, dalle ragazzine bulimiche ai due assassini che entrano a scuola armati fino ai denti come in una scena di Matrix, Van Sant decontestualizza l'evento in una non meglio precisata location e sovraccarica i suoi personaggi di simboli e rimandi all'immaginario collettivo contemporaneo.

 

Un discorso a parte va fatto per il personaggio di Bennie, vero e proprio ombelico del film, punto di congiunzione con il nulla (o il tutto, che dir si voglia), unico attante che di sua iniziativa va incontro alla morte. Benny appare come la personificazione del regista e insieme del pubblico, della curiosità voyeristica che stimola chi ancora è dotato di raziocinio atto ad analizzare, spiegare, comprendere il senso di un crimine così efferato.
Fedele al paradigma di Columbine, Van Sant ci ammonisce che il senso di quella tragedia va cercato altrove e che non tutti i disadattati devono necessariamente trasformarsi in assassini, mettendo in scena la sua personale valutazione sulla violenza nella società contemporanea, che si presenta sempre più inspiegabile, incomprensibile e inevitabile. Per Van Sant non ci sono motivi, non ci sono vittime e in qualche modo non ci sono nemmeno i carnefici, i quali si trasformano in semplici figure indefinite che si perdono sullo sfondo in campo lungo e spesso fuori fuoco.

 

Echi di riflessioni che ritroviamo identiche negli illuminanti scritti del sociologo tedesco Wolfgang Sofsky, studioso disincantato delle dinamiche sociali della violenza nella società contemporanea.
"I casi di furia omicida sono così rari, che risulta impossibile spiegarli in base a fattori tanto comuni in una società. Depressi, psicotici, maniaci delle armi, appassionati di film horror, disoccupati o divorziati si contano a milioni, tuttavia gli individui in preda a una furia omicida sono una specie piuttosto rara" (1). Patrimonio collettivo fin dagli albori della civiltà, prima confinate in macchinosi rituali religiosi e oggi lasciate all'iniziativa individuale, le esplosioni di violenza omicida sono per Sofsky parte integrante della natura umana, strettamente connesse a quel senso di paura e insicurezza che comporta il vivere tra i propri simili.

"Dunque la paura e la violenza non scaturiscono, come spesso si sente dire, da un fondo di bestialità. Non bisogna offendere gli animali, nemmeno i predatori. Al contrario: la violenza nasce proprio dalla natura specifica dell'uomo. Dato che è sempre all'esterno di sé è capace delle più atroci bestialità. Dal momento che non è guidato da istinti provenienti dal suo centro, ma è un essere dotato di intelletto che ha un rapporto con se stesso, è in grado di comportarsi peggio di qualsiasi bestia. Poiché non ha freni è capace di compiere qualunque misfatto." (2)

(1) Wolfgang Sofsky, Il paradiso della crudeltà, Einaudi, Torino 2001, pag. 39
(2) Idem, pag. 27

 


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