Pinocchio PDF 
di Fulvio Montano   

Fenomeno che segnerà (volente o nolente, ma soprattutto volente) la stagione cinematografica 2002, il Pinocchio di Roberto Benigni me lo sono da subito figurato come un film inutile da evitare con tranquillità (e con la giusta dose di arroganza) per rispondere alle caratteristiche di (citando Riccardo Freda) "cinematografaro incallito".

Fatto sta che un lunedì sera di ottobre il destino ha allungato una zampa, forzandomi a confondere le sale del Charlie Chaplin di via Garibaldi per farmi imboccare sbadatamente quella strada targata Miramax-Medusa.
Sinceramente (credetemi!) al cinema ero andato per quel Bowling for Columbine di Micheal Moore, premiato a Cannes e distribuito negli USA con il dovuto ritardo, che probabilmente rimarrà in sala ben poco, soppiantato da qualcosa di più politically correct e maggiormente in sintonia con le Cronache da dopo-bomba che dominano la realtà Americana dall'undici settembre in poi.
Tutto sembrava andare per il meglio, pubblicità patinate in pellicola, trailer di film in programmazione (compresa l'ennesima menata adolescenziale di Muccino) e buio in sala prima dell'inizio.
Ma ecco che, come un campanello d'allarme che suona in silenzio, il nero dura più del dovuto, mentre io, ignaro e felice nella mia confortevole poltrona, cambio di posto per togliermi dalla visuale i due testoni nella fila davanti.
Dopo la sbobinata del Medusone, il logo della Melampo Film di Nicoletta Braschi (casa di produzione curiosamente omonima dell'unico cane che vedremo nel film) ed un'orda di topini bianchi che invadono la scena trascinando un carro fatato (in)degno del miglior Fellini, finalmente realizzo che qualcosa non va.
"Cazzo, ma questo è Pinocchio!"

Senza troppo entusiasmo decido comunque di accettare l'ennesimo scherzo del destino in una giornata iniziata male (per la precisione con La Stampa che pubblica in prima pagina la sordida apologia al film vergata di getto dal suo stesso sceneggiatore, tal Vincenzo Cerami) e rimango seduto, non prima di essermi sincerato che il biglietto battuto alla cassa destinasse i miei sei euri e cinquanta a quel Bowling for Columbine che avevo in mente quando sono uscito di casa.

Dopo il prologo, che sfrutta (am)abilmente il volo di una farfalla come ellisse per dare il via alla narrazione, ecco un tronco di pino sfilarsi da un carro, gettare nel panico la monotona tranquillità di una piazza di paese e terminare la sua corsa sull'uscio di un falegname, introducendo un Geppetto vecchio e claudicante che si affaccia all'uscio con una curiosa parrucca post-punk, il primo di una serie di biechi espedienti che giustificheranno il ciak in molte delle scene successive.

Il resto della vicenda ve lo risparmio, tanto avete già capito e soprattutto avete già letto. Certo però, se tutti hanno capito (il Pinocchio di Collodi è quasi d'obbligo a scuola), tutti hanno letto (memorabile la versione illustrata di Jacovitti) e tutti hanno visto (indimenticabile il Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), che senso può mai avere rispiegare, rileggere e rivedere?
Tornato a casa leggo sconvolto il tributo quasi unanime che la critica in rete (e non solo stando ai paginoni del Manifesto) rivolge al comico toscano, ma anche le rincuoranti riflessioni delle poche riviste (Close-up, Falso Movimento) che timidamente rimangono fuori dal mucchio, e decido di scrivere comunque qualcosa.

Di un film di un'oretta e mezza si salva un battage pubblicitario senza eguali nella storia della cinematografia commerciale Italiana, l'invasione-monopolio delle quasi mille copie distribuite e un paio di scene divertenti (la mirabolante corsa del tronco all'inizio e il lecca-sketch-lecca tra Benigni e Lucignolo in prigione, che chissà perché mi ricorda la pluricelebrata banana di Johnny Stecchino), ma nulla più. Per il resto, semplicemente, il vuoto.
Nessun coinvolgimento, nessuno sforzo nella caratterizzazione dei personaggi (giustificata dalla più volte professata fedeltà di Benigni a Collodi), tanta pedanteria e squallido didascalismo dei dialoghi quanto delle inquadrature, ma soprattutto la scelta di liquidare in toto l'intento sovversivo e critico dello scrittore toscano, che proponeva il viaggio dell'eroe burattino, anarchico e appena abbozzato nella sua umanità, verso la normalità cui la società forza ogni bambino, come metafora dell'Italia Unita in cerca di identità.

Se nel film Tv di Luigi Comencini era la tristezza sovversiva (tutt'altro che rassegnata) del rifiuto all'omologazione a riempirti il cuore di sana malinconia, in quello di Benigni di triste non c'è che il cinquantenne (mai burattino) protagonista che parla in un odioso falsetto, una Fata Turchina con le rughe che non sa recitare e l'eco di battute per lo più previste e prevedibili, che, in un impeto di metacinema, rimbombano in quel Paese dei Balocchi che sono gli studi ternani dove è stato girato il film, degno contraltare di esterni dominati da un clima più che nordico, che nello spazio di un'inquadratura passa senza scuse dall'inverno all'estate piena.
La critica da subito si è scagliata sul budget stratosferico, sulla distribuzione targata Silvio nazionale, sul soggetto, ma probabilmente il film non lo aveva ancora visto, perché basta questo, ve l'assicuro.
Quanto buonismo e soprattutto quanta enfasi nel riaffermare ad ogni sequenza la necessità che per entrare a scuola occorre essere dei bravi bambini, trasformarsi insomma da burattini di se stessi in burattini del sistema, sacrificando senza guadagno la propria individualità.

Vedere Benigni impiccarsi in controluce alla luna e poi entrare a scuola lasciando fuori la sua ombra comunque libera di scorrazzare per i prati della vita, sembrano essere alla fine le uniche scene oneste, metafore impietose del percorso stesso del comico toscano, sempre più affetto da una senilità precoce quanto impietosa.

Povero cinema italiano.

 


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