Chris Marker, immagine e memoria PDF 
Gaetano Maiorino   

La conseguenza che devo trarne
è che il tempo ritornerà sui suoi passi,
che la catena dei minuti si srotolerà in senso inverso,
fino a quando non si arriverà di nuovo al principio,
per poi ricominciare,
tutto questo infinite volte,
e non è detto, allora, che abbia avuto un inizio

(Italo Calvino, Ti con zero)

Cineasta dimenticato Marker. Talento immaginifico che supera le convenzioni di generi, tematiche, narrazione e che dedica la sua attività artistica all’immagine e a tutte le varie forme in cui essa si può combinare con il senso. Nella sua filmografia, dedicata come sottolinea Ivelise Perniola (1) alla pratica del film-saggismo, Marker traccia un percorso, è autore vero in quanto indipendente dagli schemi e focalizzato sulla ricerca. Come un antropologo studia popoli esotici fino a conoscerne ogni singolo rituale, egli conosce l’immagine, e ne apprende ogni singola potenzialità per poi raccontarla al pubblico formando e de-formando il suo rapporto con il tempo e con la linearità della narrazione.

Il filo rosso che guida Marker nel suo lavoro mezzo secolo, è però ben identificabile con l’ossessione del regista per la memoria. Collaboratore di Alain Resnais all’inizio della sua carriera per il documentario Les statues meurent aussi (1953), Marker elabora il suo percorso registico dedicandosi soprattutto a documentari e rielaborazioni della storia attraverso personaggi emblematici (film/reportage di viaggio come Cuba sì e Sans soleil ne sono un palese esempio) fino ad approdare nel 1998 all’allora nuova tecnologia del cd-rom, grazie al quale raggiunge il giusto equilibrio tra la sua necessità narrativa e la sua tendenza saggistica, producendo Immemory. L’approdo all’ipertesto è solo l’ultimo passo di un ragionato cammino attraverso la memoria che ha come due più significativi punti di riferimento due opere molto lontane tra loro nel tempo ma proprio per questo emblematiche della coerenza autoriale del regista francese: si tratta del cortometraggio La Jetée (1962) e del film Level 5 (1997). Della durata di circa 26 minuti, La Jetée, inizia nei sotterranei di una Parigi completamente distrutta dalla terza guerra mondiale dove un gruppo di sopravvissuti cerca di trovare una fonte di energia che riesca a salvarli da una morte certa.  Degli scienziati conducono esperimenti su cavie umane tentando di inviarle nel passato alla ricerca di questa energia salvifica. Viene scelto un uomo per la persistenza nella sua mente, di un’immagine del suo passato, il volto di una donna ferma su una banchina (la jetée del titolo) di un aeroporto, che guarda la morte di un uomo.

Il “viaggiatore” mandato indietro nel tempo, riesce a incontrare la donna nel passato, si integra con quel periodo storico per lui nuovo man mano che gli esperimenti proseguono, ma l’unica cosa che riesce a trovare in quel mondo sereno e pacifico è l’amore. Nessuna fonte di energia utile ai suoi padroni, nessun sistema per risollevare le sorti dei sopravvissuti del presente. Gli scienziati cercano un’altra strada allora, il viaggio nel futuro. Gli abitanti del futuro accolgono in maniera fredda il loro visitatore, ma gli concedono una quantità di energia sufficiente a far progredire il suo mondo. Consapevoli però, del destino che attende il viaggiatore, essi gli propongono di unirsi a loro nella loro epoca una volta consegnata l’energia. L’uomo chiede invece di poter tornare nel passato, per incontrare ancora la donna che ama. La richiesta viene esaudita, ma una volta sulla jetée dell’aeroporto, il viaggiatore verrà ucciso. È il momento in cui si ricostruisce l’immagine che lo ossessionava da sempre: è l’immagine della propria morte vista dagli occhi di quella donna. Non solo un film di fantascienza come potrebbe sembrare a prima vista. Il viaggio nel tempo, attorno al quale ruota il significato primario della trama de La Jetée, è infatti un topos privilegiato di questo genere di narrazione, reiterato, a volte abusato, identificabile e ascrivibile soltanto al genere fantascientifico. Ma considerare questo film come una semplice opera di genere è decisamente riduttivo.

In realtà nel corto di Marker, la fantascienza è solo un pretesto narrativo per affrontare discorso ben più profondo sotto molteplici punti di vista. Il tentativo di (r)aggirare il tempo è giustificato da un fine pratico, ma il continuo rincorrersi di immagini del passato, del presente, del futuro, e il definitivo (eterno) ritorno al passato, da parte del protagonista fanno capire che Marker sfrutta il viaggio per parlare in realtà del tempo, elemento considerato assolutamente come non lineare, probabilmente neppure circolare, di certo estremamente connesso con la memoria. Un meccanismo dal quale non si può uscire, come afferma la voce del narratore al termine del film: non si scappa dal tempo. La Jetée, però, prima ancora che sul tempo, dà il via fin da subito una riflessione sull’immagine in movimento. Punto fondamentale su cui soffermarsi, soprattutto perché riguarda la particolarità più evidente del cortometraggio: nel film di Marker, in realtà, le immagini non si muovono affatto. Tutta la pellicola è composta da pose fisse, fotografie, legate l’una all’altra dal montaggio e connesse per mezzo della voce off di un narratore onnisciente e distaccato del quale non conosciamo l’identità né il tempo e il luogo in cui si trova. J. G. Ballard riferendosi al susseguirsi di queste pose fisse, afferma che “questa successione di immagini sconnesse è il mezzo perfetto per proiettare i ricordi quantificati e i movimenti nel tempo che sono il tema del film ”(2).

Dalla prima frase del narratore si comprende che l’utilizzo di immagini fisse non è solo un espediente stilistico, ma fa parte di un più ampio progetto per comunicare significato. “Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine dell’infanzia” egli afferma. L’immagine diventa subito protagonista, non solo perché strumento narrativo (come per ogni tipo di film), ma soprattutto perché è la scintilla che avvia il motore della narrazione stessa. Senza l’immagine fissa nella mente dell’uomo non ci sarebbe stata alcuna storia da raccontare. La scelta da parte di Marker di una serie di fotografie al posto dei classici 24 fotogrammi al secondo, permette di elaborare un’analisi privilegiata su ciascuna immagine, cosa che non accadrebbe nel continuo e indefinibile (perché non frammentabile dall’occhio umano) flusso cinematografico. Sembra che in ogni foto ci sia la possibilità di individuare il punctum barthesiano (3), quel particolare a prima vista insignificante che investe l’immagine di quella qualità affettiva, soggettiva e “pungente” che rende unica l’immagine stessa. Si tratta di una qualità definita in maniera individuale dall’occhio dello spettatore, che oltrepassa il semplice concetto di studium, l’investimento culturale che ciascuno compie nel momento della comprensione di una immagine, lavoro richiesto secondo Barthes dall’immagine stessa nell’atto della sua visione, e investe direttamente la sfera emozionale dello spettatore.

Quello che si può individuare in ogni fotografia di La Jetée è quel dettaglio che modifica la percezione che si ha dell’immagine, un qualcosa grazie al quale la foto non è più una foto qualunque. Se attraverso lo studium una fotografia può informare, sorprendere, significare, invogliare, il punctum s’impone proprio come oggetto parziale e involontario; se lo studium appartiene all’ordine del to like, il punctum è assimilabile al to love (4). E del punctum è sicuramente dotata l’immagine di quella donna, che torna con insistenza nella mente del protagonista. Di quale particolare si tratti, se lo chiedono di certo gli scienziati che cercano di utilizzare quell’immagine per i propri scopi, ma se lo chiede soprattutto l’uomo, che nel volto di lei cerca inconsapevolmente la salvezza. Solo alla fine della storia sapremo che il particolare investito di qualità emotiva di questa lunghissima posa fissa (26”, la più lunga del film), è il suo fuori campo, ciò che la donna sta guardando, l’immagine della morte dell’uomo stesso. Utilizzando le fotografie, Marker, così come riesce a creare un rapporto unico con le immagini, ottiene nel suo film un altrettanto privilegiato rapporto con il tempo. Il flusso del tempo è per sua natura non studiabile per frammenti. Tuttavia come interrompere questo continuo scorrere per analizzarlo? Con le fotografie di La Jetée questo fermare il tempo diviene possibile. La fotografia è la cristallizzazione del tempo stesso, il momento in cui si può osservare da vicino un attimo bloccato per sempre. Secondo Gilles Jacob, ricordare qualcosa significa operare un fermo-immagine sul tempo e La Jetée è il simbolo di questa teoria. Marker sceglie di analizzare l’immagine e per questo deve fermarla e così facendo analizza la memoria. Bloccare le immagini è necessario quindi a individuare i momenti in cui in lo studium non è più sufficiente e guardando le foto entra in gioco il processo memoriale e emotivo, il punctum. Grazie a esso è possibile connettere il ricordo puro con l’immagine-ricordo.

Il punctum come qualità affettiva e irrazionale, qualcosa di molto simile all’intuizione (soggettiva e spesso involontaria), vero motore, secondo Bergson, del rapporto che l’uomo instaura fra percezione e sensazione, fra memoria e corpo, fra passato e presente. Marker con le sue pose fisse apre le porte alla filosofia e prosegue il lavoro sulla relatività del tempo che aveva intrapreso pochi anni prima Alain Resnais con L’anno scorso a Marienbad. Ma mentre Resnais prosegue il suo percorso registico sviluppando altre tematiche e stili, Marker sceglie di andare più a fondo possibile sul rapporto tra tempo, immagine e memoria. È testimonianza di questa vera e propria ossessione, un film di trentacinque anni successivo a La Jetée ma che sembra la sua necessaria prosecuzione, Level 5. Laura riceve in eredità dal suo compagno, un videogioco il cui scopo è ricostruire la battaglia di Okinawa, misconosciuta tragedia della seconda guerra mondiale citata pochissimo nei libri di storia. Mentre cerca di portare a termine il videogame, attraverso testimonianze, immagini, notizie trovate grazie a internet, si ricostruisce la vicenda di questo dramma e allo stesso tempo emerge il dolore della protagonista per la scomparsa del suo uomo. I due dolori si mischiano, le due memorie, quella collettiva e quella individuale si confondono in uno stesso patire, finché Laura non decide di abbandonare il gioco irrisolvibile e scompare dalla scena. Level Five si colloca sulla linea di confine tra il cinema e l’ipertesto: è fruibile sul grande schermo, ma si divide, si allarga e rimanda a altri luoghi, altre letture, altre vicende, come fanno i link di una pagina web. Si biforca come i sentieri di Borges (5) e ancora una volta scompone il tempo, lo annulla, rendendo il passato della battaglia nuovamente attuale, il presente della protagonista incerto e indefinito, il futuro della tecnologia custode della nostra memoria. Il livello 5 a cui fa riferimento il titolo riguarda un gioco che la donna e il suo compagno facevano per “classificare” le persone che incontravano: un tipo poco interessante, banale, era di livello 1; uno po’ più simpatico, livello 2.

La metafora ben si adatta alla progressione usuale di un videogame, in cui man mano che si sale di livello, le difficoltà aumentano e qualità e abilità del giocatore (e dell’avversario) crescono. Mai nessuno per Laura e il suo compagno, ha raggiunto un livello più alto del secondo. L’obiettivo di Laura è dunque quello di ricostruire la battaglia di Okinawa. A differenza dei comuni giochi di strategia in cui sovvertire la realtà dell’evento è necessario per giungere alla vittoria, nel gioco in questione, cambiare le carte in tavola, però, non è possibile. Lo svolgimento dei fatti deve essere rispettato, pena l’errore del sistema e il blocco del programma. Finire il gioco consiste solamente nel ripetere la storia così come è avvenuta, farla accadere di nuovo uguale a se stessa, non modificarla. Non si tratta quindi di creare un punto di vista, ma semplicemente di raccontare, e di testimoniare, principali processi per conservarne la memoria. Per raccontare Okinawa, il gioco concede a Laura di scegliere tra le immagini e i testimoni. Entrambi gli espedienti saranno utilizzati e sullo schermo si alterneranno infatti filmati, fotografie, interviste, tutto il necessario per la ricostruzione della memoria storica. È probabile che Okinawa, se Marker non l’avesse riesumata non esisterebbe neanche adesso. La riproposizione dell’evento passa attraverso differenti stili visivi. Il regista ha raggiunto una capacità combinatoria e di manipolazione del supporto audiovisivo, che gli consente di ibridare video, pellicola in bianco e nero o a colori, sequenze trattate al computer e immagini di repertorio, in maniera perfetta e funzionale al messaggio che vuole veicolare.  L’utilizzo di ognuna delle differenti qualità di immagine in movimento non è difatti assolutamente casuale. Il video, quello che realizza Laura autonomamente regolando le inquadrature con il telecomando della propria videocamera, dà la dimensione dell’intimità, della personalità, dell’individualità della narrazione che si sta mostrando sullo schermo. Di contro, le immagini di repertorio (come l’intervista a Nagisa Oshima), oppure quelle in bianco e nero che mostrano le sequenze di guerra, sono significative per alternare il livello privato con quello pubblico, con la storia. Il significato delle sequenze manipolate al computer, o da esso veicolate, sono simbolo di una nuova qualità che si vuol affidare al mezzo tecnologico: attraverso la rete si recuperano ricordi scomparsi e allo stesso tempo si immagazzina una quantità di informazioni che la mente umana da sola non potrebbe contenere. Internet diventa fondamentale perché sostituisce e crea la nostra memoria, Marker lo profetizza in questo film circa dieci anni fa e non si può negare che adesso tutto ciò non si sia avverato. Internet diventa il mezzo per esplorare il tempo, permette di collegarsi con “ogni rete possibile presente passata e futura” come il gioco stesso afferma, è la vera macchina del tempo che da Verne a Wells è stata sempre fantasticata. Con un click si raggiunge Okinawa, con un altro si torna nella Francia di fine millennio, si viaggia dal presente al passato senza barriere. È evidente, per come è manipolato il tempo, l’effetto postmoderno della rete informatica, frontiera tecnologica del viaggio virtuale: Laura è una nomade viaggiatrice, figura cara a Marker (e alle teorie postmoderne di Michel Maffesoli (6)), ma viaggia senza muoversi grazie alla rete, le è possibile viaggiare e riportare in vita i morti. I morti di Okinawa e il suo compagno morto. La donna, raccogliendo i pezzi della tragedia attraverso il gioco, si rende conto che essa incomincia a interferire pesantemente sulla propria vita.

Il confine tra memoria storica e individuale è un filo sottile e Marker danza in equilibrio su questo filo citando apertamente Alain Resnais e il suo Hiroshima mon amour: come il film di Nevers si confonde con il film di Hiroshima, così il film-gioco di Okinawa si confonde con il film-gioco di Laura. In una sequenza è la stessa protagonista a confermarlo: “posso riconoscermi in questa piccola isola” la sua sofferenza, la più unica la più intima è anche quella di un intero popolo. Il critico francese Thierry Jousse individua delle analogie invece tra Level Five e La Jetée: Level Five come La Jetée è senza dubbio un film di fantascienza nel quale il passato è la sola condizione di possibilità dell’avvenire, all’opposto di una concezione amnesica che vorrebbe che tutto l’avvenire cancellasse, come altrettante ossessioni, le tracce del suo passato (7). Ma il passato non sparisce nel nulla. Si riconfigura in immagini e ritorna davanti ai nostri occhi sebbene possa essere allo stesso tempo testimone della realtà e sua contraffazione. “Nell’era dell’immagine è ormai un dato di fatto che la storia si costruisce sulle immagini ”, (8) ne è chiaro esempio la foto della bandiera americana issata sul monte di Iwo Jima e al centro del recente dittico di Clint Eastwood (Flags of our Fathers, 2006, Letters From Iwo Jima, 2007). Lo afferma lo stesso Marker: “non siamo perseguitati dalla storia, ma dalle sue immagini. La rimozione storica procede di pari passo con la rimozione delle immagini della storia”(9) (come accade per le raffigurazioni indigene in Les Statues Meurent Aussi): “per cancellare un evento è sufficiente cancellare le prove visive della sua esistenza o falsificarle”(10). Eloquente quello che afferma Laurent Roth: di fronte a questo determinismo iconologico, non c’è che un modo per cambiare la storia: bisogna cambiare le sue immagini (11). La presenza dell’immagine come memoria e la sua assenza come abbandono all’oblio. Sembra volerci dire questo Marker con l’ultima sequenza del suo film: Laura con il telecomando della videocamera zooma in avanti e l’immagine del suo viso prima si riduce appena alle sue labbra, poi lentamente si sfoca. È il ricordo sta sparendo con l’immagine? È la realtà che sta sparendo con essa? Forse.

Level 5 si chiude con Laura che ringrazia il suo uomo per essere scomparso, per avergli donato il loro tempo insieme senza aver dovuto affrontare i “demoni del quotidiano” e lascia lo studio immerso tra i libri dove è rimasta tutto il tempo del film.  Lascia il computer acceso passando ora a lui il testimone della storia, gravoso lascito che racchiude in sé anche il passaggio dal cinema alle nuove tecnologie da parte di Marker stesso.

Note:
(1) Perniola I., 2003, Chris Marker o del film-saggio, Torino, Lindau.
(2) Bernard Eisenschitz, a cura di, Chris Marker, XXXII Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Dino Audino Editore, Roma, 1996, p. 95.
(3) Con riferimento a Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 2003.
(4) Luisa Scalabroni, Per una semiotica della fotografia, in “Arcojournal e-journal del dipartimento di arti e comunicazioni dell’Università di Palermo”, 19/06/03, www.arcojournal.unipa.it
(5) Con rif., Borges J. L., trad. Franco Lucentini 1995, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Torino, Einaudi.
(6) Per approfondimenti, Maffesoli M., 2000, Del Nomadismo, per una sociologia dell’erranza, Milano, Franco Angeli Editore.
(7) I. Perniola, op. cit. p.194
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ivi, p. 195.

 


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