Future Film Festival 2010: Future reloaded PDF 
Francesca Druidi   

La crisi economica non risparmia neppure le rassegne cinematografiche. La dodicesima edizione del Future Film Festival, annuale appuntamento dedicato all’animazione e all’evoluzione degli effetti speciali applicati al cinema che si è svolto dal 26 al 31 gennaio a Bologna, ha infatti quest’anno sofferto in maniera particolare del taglio dei fondi delle istituzioni, in particolare del Comune e di alcune fondazioni, tanto da restare in forse sino al 30 dicembre. “Questo festival – hanno sottolineato Oscar Cosulich e Giulietta Fara, i direttori della manifestazione – temevamo di non poterlo fare e alla fine abbiamo deciso di andare comunque avanti solo per rispetto nei confronti del pubblico e dei nostri collaboratori. Il budget drasticamente ridimensionato ci ha costretto a rinunciare a prestigiosi appuntamenti, ospiti e anteprime. Ciò nonostante siamo riusciti a mantenere alto il livello della programmazione”.

In un’edizione dunque ridotta, ma comunque ricca di spunti, sono state tre le linee guida del programma: una prima traiettoria è stata la riflessione sullo stato dell’arte dell’animazione in stop motion attraverso proiezioni di film, masterclass e incontri, ai quali hanno partecipato Allison Abbate, produttrice di film quali Il gigante di ferro, La sposa cadavere e del recente lungometraggio a passo uno Fantastic Mr Fox, dell’eclettico e talentuoso Wes Anderson, l’artista Osbert Parker e David Sproxton, cofondatore di Aardman Animation, la casa di produzione specializzata nell'animazione in stop-motion di plastilina (Galline in fuga, Wallace&Gromit). Un secondo filone ha riguardato la motion graphics, partendo dall’approfondimento dell’opera del pioniere di quest’arte, il grande autore di titoli di testa e di manifesti Saul Bass. I suoi lavori, tra cui autentici capolavori quali i titoli di testa di La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock e Anatomia di un omicidio di Otto Preminger, senza dimenticare Quei bravi ragazzi, Casinò, L’età dell’innocenza di Scorsese e il poster per Shining, hanno fatto epoca, e scuola, in virtù dell’eccezionale abilità grafica e della mirabile sintesi nell’utilizzo di forme e colori. Terzo leitmotiv è stato il 3D stereoscopico, attualmente un vero e proprio motore propulsivo per il cinema, sia dal punto di vista degli incassi che dell’avanzamento tecnologico e linguistico. È stato ripetuto anche quest’anno il 3dDAY: una due giorni di proiezioni di film in stereoscopia – The Hole di Joe Dante, l’anteprima dei primi 56 minuti di Dragon Trainer, il nuovo lungometraggio d’animazione della Universal, e un'anticipazione di Toy Story 3 3D della Pixar Animation Studios, oltre alla riproposizione dei primi due capitoli di Toy Story sempre in versione stereoscopica – alla quale è stato affiancato un panel con i player del settore (distributori, esercenti, produttori).

Il 3D avanza, ma a dominare il festival è stata ancora una volta l’animazione tradizionale. La giuria composta dall’illustratrice Francesca Ghermandi, dal musicista e scrittore Emidio Clementi e dal giornalista Nick Vivarelli, ha infatti assegnato il Platinum Grand Prize, premio del Future Film Festival per il miglior lungometraggio d’animazione o con effetti speciali, a Panique au village dei belgi Stéphane Aubier e Vincent Patar "per aver creato un film fresco che è un’esplosione di energia creativa dal punto di vista visivo, drammaturgico e anche musicale. Con gran coraggio, convinzione e una cura appassionata nell’uso della stop-motion animation, i registi hanno saputo dimostrare che non servono sofisticate, e talvolta meccaniche, tecniche al computer per creare un mondo fantastico capace di sorprenderci, di stupire, e di farci riscoprire l’immaginario sconfinato, l’innocenza, la crudeltà, e sopratutto l’irriverenza dell’infanzia". Una menzione speciale è stata assegnata a Edison & Leo di Neil Burns, primo film in stop motion canadese, che ha proposto una stravagante incursione nella famiglia di George T. Edison (l’inventore Thomas Edison) affrontando tematiche piuttosto adulte. Oltre alle anticipazioni sulle prossime opere in 3D di Pixar e Dreamworks, il festival si è chiuso con l'anteprima italiana di Gamer di Marc Neveldine e Brian Taylor, con la nuova icona del genere action Gerald Butler e il protagonista della serie Dexter Michael C. Hall nelle vesti del cattivo.

Tra le altre proposte del festival, va citato innanzitutto Oblivion Island: Haruka and the Magic Mirror di Shinsuke Sato, il primo film completamente in computer grafica del pluripremiato studio Production I.G (Ghost in the Shell). Ispirato ad Alice nel paese delle meraviglie, il lungometraggio vede come protagonista Haruka, un’adolescente che soffre della mancanza della madre, scomparsa quando era ancora piccola, e dell’assenza del padre, sempre troppo preso dagli impegni di lavoro. Rifugiatasi nei luoghi della sua infanzia, Haruka scorge una strana creatura simile a una volpe e per seguirla raggiunge il mondo parallelo di Oblivion, dove gli esseri umani non sono ammessi. La particolarità di questo luogo è che i suoi abitanti sono specializzati nella raccolta degli oggetti che vengono persi per incuria o disattenzione dagli uomini. Haruka decide allora di recuperare lo specchio perduto che le aveva regalato la madre, con l’aiuto del suo nuovo amico Teo e del ritrovato Cotton, il pupazzo compagno di giochi nell’infanzia e dimenticato dalla ragazza una volta cresciuta. Ma la protagonista dovrà vedersela con il Barone, governatore di quel mondo, ben deciso a seguire gli eventi per piegarli ai propri voleri e alla propria ambizione. Se la computer grafica, per quanto riguarda la resa dei personaggi umani, dimostra in questo film ancora molti limiti tecnici sul fronte della diversificazione e della gamma espressiva, meglio riuscita, e più suggestiva, risulta la caratterizzazione scenografica dell’isola di Oblivion. Interessante è, inoltre, la riflessione dall’anime innescata sulla memoria e sui ricordi, e di come questi ultimi spesso si sedimentino in oggetti di cui è importante avere cura per conservarne immutato il valore, soprattutto in prospettiva futura.

Dal Giappone sono arrivati anche Goemon di Kazuaki Kiriya, dal regista del blockbuster visionario Casshern, un film videogame ipercinetico e ricco di effetti visivi incentrato sul personaggio eponimo, realmente esistito e conosciuto come il "Robin Hood giapponese"; Yona Yona Penguin (in coproduzione con la Francia), il ritorno alla regia del veterano Rintaro (Metropolis, Capitan Harlock); King of Thorn di Kazuyoshi Katayama (in concorso) nuovo film cinematografico dello studio d'animazione Sunrise (Gundam), un fanta-horror ispirato all’omonimo manga di culto ideato da Yuji Iwahara e ambientato in un prossimo futuro minacciato da un pericolosissimo virus; Eureka Seven - Good Night, Sleep Tight, Young Lovers di Tomoki Kyoda (Giappone), tratto dalla serie robotica più apprezzata degli ultimi anni, traboccante di romanticismo e di epica. L’anime, complesso nell’intreccio e spettacolare nelle sequenze di combattimento aereo, si presenta come un progetto di recupero della serie tv con vecchie sequenze ridefinite e nuove sequenze che hanno dato vita a un lungometraggio inedito, incentrato ancora una volta sulla battaglia dell’umanità contro EIZO, misterioso organismo alieno che minaccia la Terra, e sulla travagliata storia d’amore tra il giovane pilota Renton, che guida un Nirvash evolutosi in robot, e l’amica d’infanzia rapita Eureka, che si scoprirà essere qualcosa di diverso da un essere umano. Infine, Mai Mai Miracle di Sunao Katabuchi che segna il ritorno al festival dello Studio MadHouse, uno dei più importanti studi di animazione nipponici che ha prodotto tra gli altri i lavori di Satoshi Kon, tra cui Tokyo Godfathers e Paprika, portando al FFF uno dei lungometraggi più belli degli ultimi anni, La ragazza che saltava nel tempo. Ambientato nel 1955, il film si ispira liberamente alla storia di Heidi ed è tratto dal romanzo autobiografico di Nobuko Takagi. L’intreccio segue le avventure di Shinko, una bambina di nove anni che abita nella cittadina di Hofu, provincia campagnola nel Giappone meridionale, dotata di una straordinaria immaginazione che le consente di visualizzare – come un sogno a occhi aperti – la vita così come si svolgeva nel paese cento anni prima, quando era l’antica capitale. La sua quotidianità è interrotta dall’arrivo da Tokyo di una nuova bambina, Kiiko, figlia di un uomo importante.  La loro amicizia si rinsalderà sempre di più e segnerà per entrambe una tappa fondamentale nel loro personale percorso di crescita. Crescita che non risparmia dolori, delusioni e scogli da affrontare e superare. Tecnicamente ineccepibile, Mai Mai Miracle è un film introspettivo che esalta lo scenario bucolico e il potere dell’amicizia così come della fantasia.

Under the Mountain, del regista neozelandese Jonathan King, può dirsi invece un’occasione mancata. I gemelli Rachel e Theo Matheson sono da sempre in stretta connessione fra loro con una forma di comunicazione privilegiata ed esclusiva. Ma tutto questo è destinato a interrompersi con la morte improvvisa della madre. Spediti dal padre a casa degli zii e del cugino Ricky, ad Auckland, i due gemelli iniziano a indagare sulla tetra e lugubre casa vicino alla loro, scoprendo che i proprietari, i Wilberforce, sono in realtà creature cambia-forma che si nascondono sotto i vulcani spenti attorno ai quali è costruita Auckland, custodi di una potenza maligna, quella dei Gargantua, pronta – una volta risvegliatasi – a distruggere il mondo. Grazie all’aiuto di un misterioso personaggio, Mr Jones (Sam Neill), i due gemelli scopriranno che solo la forza del loro legame può contruibire in maniera decisiva a salvare la Terra. Ibrido non troppo convincente tra fantasy e horror, King pare eccessivamente preoccupato del target di adolescenti a cui il film è rivolto per premere davvero l’acceleratore e sviluppare a fondo tematiche, personaggi e spunti fantasy oppure horrorifici. L’incipit è interessante, qualche sequenza è ben riuscita, ma tutto si conclude in maniera frettolosa, senza coinvolgere. Resta un discreto senso dell’umorismo, unito a un suggestivo impiego delle inedite ambientazioni neozelandesi. 

Making Avatar
Far convivere sul grande schermo il reale e il fantastico in maniera viva e organica, generando un “nuovo cinema” fondato sull’abbattimento dei confini tra live action e computer grafica, raggiungendo livelli di resa fotorealistica e di dettaglio mai toccati fino ad ora. È l’obiettivo, oggi possiamo dire pienamente raggiunto, che si è prefisso James Cameron nei lunghi anni di preparazione di Avatar, proprio di recente salito al vertice della classifica dei maggiori incassi cinematografici di tutti i tempi. Dietro a questo successo mondiale di pubblico, riconosciuto però anche dalla critica e dagli addetti ai lavori, è fondamentale riconoscere la centralità del contributo tecnico e artistico della Weta Digital sugli effetti speciali, i quali hanno permesso di restituire agli occhi dello spettatore l’immaginario concepito dal regista di Terminator e Titanic. Da anni fedele ospite del Future Film Festival, la Weta ha quest’anno presentato in anteprima mondiale un keynote speech su alcuni dei punti chiave della lavorazione della spettacolare opera 3D. Protagonista dell’appuntamento è stato Joe Letteri, senior visual effects supervisor di Avatar, già tre volte premio Oscar e favoritissimo contendente alla conquista della quarta statuetta il prossimo 7 marzo.

Grande elemento innovativo sul quale ha focalizzato l’attenzione Letteri, nonché cuore del processo realizzativo, è stato il performance capture stage, un sistema che rivoluziona la motion capture, impiegando un set innovativo e macchine da presa virtuali che permettono di registrare le performance dei singoli attori trasferendole ai corrispondenti personaggi di sintesi. Questa nuova tecnica ha inoltre consentito al regista di integrare costantemente live action e CG, ossia di dirigere gli attori potendo al contempo visualizzare, in una sorta di set virtuale, una simulazione a bassa definizione della loro recitazione e dei loro movimenti all’interno degli ambienti, avendo quindi sempre sotto controllo la resa delle diverse sequenze. Per catturare in maniera efficace le emozioni, i movimenti dei muscoli e degli occhi (oltre che dello sbattimento delle ciglia), gli attori hanno indossato non solo la tuta del motion capture, ma anche un dispositivo creato da Cameron, un “casco” dotato di una piccola telecamera tesa a registrare le più salienti espressioni dei protagonisti. Espressioni poi trasferite sui rispettivi personaggi virtuali. In un filmato assolutamente esemplificativo portato al festival da Letteri, Zoe Saldana e Sam Worthington agiscono come se si muovessero nella giungla, identificata sul set da alcuni elementi che servono a offrire un semplice punto di riferimento fisico agli attori. Sono state poi mostrate le immagini elaborate in tempo reale dalla virtual camera e i successivi step di affinamento delle stesse, realizzati dalle troupe di animatori e artisti della Weta. Vengono, infine, affiancati le immagini digitali e le riprese degli attori per verificare l’accuratezza e soprattutto la corrispondenza dei movimenti facciali degli avatar con quelli degli attori in carne e ossa. Il risultato finale abbandona la staticità del corpo, così come si riscontrava nel vecchio sistema di motion capture, per raggiungere esiti di grande fluidità e realismo nei movimenti. Una delle accuse mosse al film è stata quella di aver elaborato una tecnica capace di far rimpiazzare gli interpreti in carne e ossa. Un’accusa rispedita al mittente da Joe Letteri: “Gli attori in Avatar non perdono di importanza, anzi senza di loro non sarebbe mai stato possibile ottenere un simile risultato: è grazie al talento di Zoe Saldana se il personaggio di Neytiri compie un’evoluzione durante la pellicola. Abbiamo discusso con lei del suo punto di vista sul personaggio e ne abbiamo tenuto conto. Per noi la priorità è stata fare in modo che i personaggi fossero in relazione con  l’ambiente, che ne facessero parte e ne fossero coinvolti”. Il team di Letteri – quasi 900 persone distribuite in 46 stati diversi – ha inoltre sviluppato un complesso set di texture per la definizione di vene e imperfezioni della pelle: uno degli effetti più stupefacenti ottenuti nel film di Cameron è la reazione assolutamente realistica degli occhi e della pelle blu dei Na’vi alla luce, del fuoco così come dei raggi solari. Il nuovo sistema prende il nome di subsurface scattering, che gestisce il colore della luce e cambia i colori a seconda dell’illuminazione della pelle.

Altrettanto complesso e straordinario è stato il lavoro sperimentale necessario agli uomini della Weta Digital per creare l’universo alieno di Pandora, dove la dimensione naturale dell’ambiente è strettamente connessa a quella spirituale della popolazione Na’vi. Alcune delle piante che compongono la lussureggiante giungla del film sono state disegnate dallo stesso Cameron, mentre altre specie sono nate dall’effettiva osservazione degli ambienti tropicali. Letteri, durante l’incontro, ha scherzosamente ricordato di come a James Cameron fossero state presentate diverse proposte tra le quali scegliere per la vegetazione e di come il pluripremiato cineasta le abbia, invece, selezionate tutte. La particolarità della foresta di Pandora è che se di giorno è rigogliosa e ricca di colore, di notte brilla di una bioluminescenza unica che Cameron, influenzato dagli scenari sottomarini che ha avuto modo di conoscere nelle sue esplorazioni subacquee, ha voluto applicare. Le montagne fluttuanti sono il frutto di un riferimento realmente esistente, ossia le alture di Zhangjiajie, in Cina, riprese con una videocamera. Il materiale registrato ha costituito la base sulla quale hanno lavorato gli animatori. Da una concept art di partenza sono stati poi assemblati gli asset digitali nei quali si muovevano i personaggi e le creature di Pandora. Il tutto rispettando requisiti di precisione, accuratezza e realismo. Per quanto riguarda i veicoli, alcuni di essi sono stati in parte costruiti fisicamente, ma le riprese dei modelli sono state in ogni caso integrate digitalmente. Anche per i banshee si è proceduto con un concept art di partenza che ne ha stabilito il design per poi passare ai test di movimento al computer. Per creare il thanatos, invece, è stato necessario ideare e realizzare la struttura ossea e muscolare. Se per la saga de Il Signore degli anelli la Weta Digital era riuscita a riprodurre i movimenti muscolari dei personaggi e delle creature che abitavano la Terra di mezzo, in Avatar avviene lo step successivo: la creazione della muscolatura, con la riproduzione della contrazione e del rilascio muscolare, resa possibile dallo sviluppo di algoritmi in grado di calcolare il comportamento e l’interazione di muscoli, tendini, grasso, pelle e degli altri tessuti molli mentre i personaggi si muovono nel loro ambiente.

Due sono le tecniche particolarmente all’avanguardia messe a punto dalla Weta Digital: la stochastic pruning, che permette di renderizzare ciascun dettaglio di una scena in relazione alla propria dimensione all’interno del fotogramma; e poi la tecnica di global illumination, che consente il raggiungimento di un nuovo approccio per quanto riguarda l’illuminazione generata al computer, un sistema di illuminazione efficiente, coerente e naturale teso a fornire un grado superiore di credibilità a scenari e protagonisti. Nello specifico, la spherical harmonics è stata impiegata per stabilire l’interazione e, quindi, il comportamento della luce proveniente da differenti angolazioni sulla superficie degli oggetti. L’analisi e la resa dell’illuminazione costituiscono, del resto, elementi cruciali per rendere il meno artificioso possibile il contesto nel quale si svolgono le vicende del film. Infine, una delle sfide tecniche più impegnative da affrontare per la Weta è stata quella di replicare l’acqua, il suo comportamento, la sua velocità di scorrimento e la sua interazione con gli oggetti, che siano vestiti bagnati oppure rocce su cui infrangersi. Un compito proibitivo se si considera che effetti come l’acqua e la polvere possono essere “ritoccati” in un film in 2D, ma non in un’opera 3D.

 


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