Io non sono qui: l’identità e altri enigmi PDF 
Enrico Maria Artale   
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Io non sono qui: l’identità e altri enigmi
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ImageÈ la caratteristica del film più affine alla letteratura beat, che ispirava direttamente lo stesso Dylan (l’incontro con Allen Ginsberg è uno dei momenti più divertenti del film). Mentre per il resto la struttura del film risulta maggiormente legata alla scrittura postmoderna, ad un filone esplicitamente decostruttivo. Certo, non sempre gli inserti o le parentesi immaginarie si rivelano del tutto efficaci, né tantomeno originali, mantenendosi in ogni caso al di sotto dell’andamento figurativo così ispirato che caratterizza le canzoni; tuttavia la sensazione complessiva è quella di un procedere effettivamente dylaniano, narrativo ma al tempo stesso svincolato dalle leggi della narrazione, descrittivo, ma al di fuori dei canoni della descrizione. In questa direzione contribuisce la notevole libertà stilistica, capace di operare commistioni, con chiara padronanza, tra scelte fotografiche o di montaggio molto eterogenee tra loro, emancipandosi leggermente dal gusto raffinato per la citazione tecnica che Haynes possedeva già in Velvet Goldmine (con le zoomate rapide tipiche degli anni’70, prima che venissero riesumate da Tarantino) e in Lontani dal Paradiso (2002, qui un po’ ovunque cita Douglas Sirk e gli anni ‘50, ma vanno ricordate le riprese con dolly, che vanno dalla strada alle foglie degli alberi, e viceversa). Il bianco e nero e i diversi usi del colore si combinano in un flusso ininterrotto di cambiamenti, al punto da non farci più caso; il montaggio si adegua e determina il taglio delle sequenze, generando interazioni tra il reportage, il western, il film sperimentale e il film realista. Tutto ciò, non solo trova conferma nello stile linguistico di Dylan, ma registra una più profonda affinità con il sogno cui il cantautore aveva dato voce profetizzando le aspirazioni di un’intera generazione. È il sogno di libertà, una libertà vera, rinnovata e arricchita rispetto a quella illusoria proposta dagli stati democratici del dopoguerra, che certo poteva sembrare molto rispetto alla situazione dei totalitarismi, ma che invece si era rivelata del tutto insufficiente. Un sogno, ci fa capire Haynes, nato anche di fronte alle profonde ingiustizie che affliggevano l’America, ma destinato a diventare sempre più estremo e incondizionato: avrebbe fatto i conti con le proprie contraddizioni successivamente e forse solo alcuni personaggi, artisti e rockstar, si sono potuti permettere di realizzarlo fino in fondo, non senza le inevitabili conseguenze o ambiguità. Come recitano le ultime battute di Velvet Goldmine: “è una libertà che ci si può concedere, oppure no”. Anche questo film, evidentemente, trattava questioni affini; eppure è altrettanto lampante che tra i due lavori emergono differenze sostanziali sul piano del contenuto, tutte adeguatamente rispecchiate dalle scelte del regista.

Innanzitutto il confronto mette in risalto la distanza tra due mondi; l’America degli anni Sessanta e Settanta da una lato, l’Inghilterra degli anni Settanta dall’altro. L’indagine è per così dire svolta sui miti giovanili di questi due mondi, il cui differente carattere di novità fa comprendere l’abisso esistente tra la realtà americana e quella inglese, o anche, a fronte delle date d’esordio degli artisti in questione, tra l’innovazione del decennio dei Sessanta e quella non meno radicale del successivo. È certamente anche il confronto tra due star, Bob Dylan e David Bowie (il riferimento è meno esplicito che in Io non sono qui a causa dell’assenza delle musiche originali di Bowie, negate da questi al regista, ma è ad ogni modo innegabile), ma più per quello che la vita di queste star ha significato nella società dell’epoca, che per un semplice motivo biografico, o di interesse psicologico. Così se una certa androginia può costituire un emblematico punto in comune tra i due artisti, per altri aspetti rasentano gli antipodi: dove Dylan è un eterosessuale non del tutto privo di sfumature maschiliste, la bisessualità provocatoriamente ostentata da Bowie segna uno scarto fondamentale; tale scarto è arricchito visivamente dal look tendenzialmente semplice, easy e in seguito moderatamente modaiolo dell’americano, contrapposto al fasto e al perfezionismo estetico del glam. Ma il tutto è ricompreso nella contrapposizione ideologica tra la rivoluzione politica auspicata da Dylan e la rivoluzione di costume promossa da Bowie: da una parte una rivoluzione dei contenuti, dell’etica della società, con la volontà di mandare messaggi alle nuove generazioni; dall’altra una rivoluzione delle forme, dell’estetica della società, che coglie, con una intuizione geniale dal sapore dichiaratamente warholiano, come in queste forme esteriori consista ciò che vi è di più essenziale nella modernità. Lo annuncia chiaramente il protagonista di Velvet Goldmine, spiegando ad un giornalista che la musica è un mezzo, un mezzo per comunicare o per trasmettere un messaggio, ma il messaggio è il vestito sgargiante che si porta addosso. E in questo senso prende forma la differenza stilistica tra i due film, più violento e provocatorio quello ispirato a Bowie, tendenzialmente barocco, con uno spiccato gusto per gli eccessi ed una costruzione configurata come una continua citazione di Quarto potere (dalla struttura alle inquadrature stesse); maggiormente libertario e straripante Io non sono qui, con più forti richiami sociali, nonché un procedere da vagabondo fatto di commistioni e divagazioni, pur entro un nucleo visivo più realista e meno estetizzato.

La forza di entrambi i film risiede, tuttavia, nell’acume del paradigma conoscitivo che li sostiene: Haynes compie un’indagine sugli anni Sessanta e Settanta a partire dai suoi miti, nell’intelligente convinzione che si può capire la vita dell’epoca e degli individui, diciamo così, comuni, osservando proprio questi miti, e non gli individui stessi. È una prospettiva di livello senza dubbio superiore rispetto alla tendenza, così cara anche al cinema italiano, di guardare a quegli anni cercandone nostalgicamente la verità nella vita di tutti i giorni. Proprio perché ci si riferisce ad anni in cui si è affermato oltremodo il meccanismo di proiezione dell’individuo sulla base dei contenuti fornitigli dall’industria culturale, proprio perché i simulacri e gli idoli hanno raggiunto allora il potere che ancora oggi possiedono, un’indagine su questi stessi idoli con cui le generazioni cercavano disperatamente di identificarsi rappresenta la chiave più acuta per leggere quelle situazioni storiche. Senza che il regista abbia bisogno di allargare granchè il proprio orizzonte oltre quello biografico, il film raccoglie tuttavia intrinsecamente tutte le tensioni, le frustrazioni e le implicazioni sociali del momento. Tutto ciò avviene non operando una semplice demitizzazione, che impedirebbe di fatto di cogliere la verità stessa e il potere del mito, ma, nel caso di Dylan, procedendo ad una “scomposizione in fattori”, suddividendo il mito nei suoi elementi costitutivi. I diversi personaggi rappresentano istanze compresenti nel cantautore, non soltanto i diversi periodi della sua vita. Ma nel modus operandi di Haynes non bisogna tralasciare una questione fondamentale. Ossia la scelta esplicita di non utilizzare i nomi reali: le star e chi sta loro intorno sono perfettamente riconoscibili ma portano nomi originali e vagamente simbolici (come Kurt Wild in Velvet Goldime, che pur richiamando Iggy Pop, porta nel nome il riferimento anacronistico a Kurt Cobain, cui ruba anche lo stile del vestiario, nonché l’adeguato attributo wild, selvaggio). Si delinea una sorta di parallelismo finzionale, come se il regista volesse creare un mondo che rispecchia fedelmente la realtà, ma che al tempo stesso se ne distingue esplicitamente. Lo spettatore è maggiormente incentivato a riposizionare il proprio punto di vista, a riconsiderare il soggetto, dal momento che gli viene negato il riferimento stabile costituito dal nome. In fondo, potrebbe voler dirci l’autore, il nome del cantautore andrebbe scritto in corsivo, Bob Dylan, un titolo, qualcosa che ormai è fissato nel tempo, e per voler ritornare produttivamente su quella figura la si deve scardinare, modificare, sezionare, conferendole al tempo stesso un altro nome, o meglio, tanti altri nomi. Ciò non intacca minimamente il realismo, anzi, ne eleva le possibilità critiche. Pur sostenendosi su un dedalo inestricabile di riferimenti alla società e alle persone dell’epoca, l’alterazione dei nomi apre lo spazio per una narrazione più libera di mettere in discussione la realtà stessa, anche mediante elementi di fantasia. Può ricordare in piccolo il metodo di Balzac e il suo famoso obiettivo: elaborare un sistema di personaggi e di realtà così ampio da “far concorrenza allo stato civile”. Il ruolo dell’attore, da parte sua, si modifica dal momento che si viene ad instaurare un rapporto triplice, oltre il dualismo tipico tra interprete e personaggio, sia questo reale o meno. Qui l’attore compone un triangolo assieme al personaggio reale e al suo doppio filmico, che non possono essere considerati coincidenti. L’attore è dunque una terza figura necessaria che equilibra e concretizza il legame tra l’individuo della finzione e quello della realtà, in una struttura di rimandi che guadagnando un passaggio ulteriore aggira il problema della mancata verosimiglianza, sempre dietro l’angolo quando si ha a che fare con le star, ed emancipa la recitazione dal confronto con il reale, rendendola più indipendente, valevole di per sé: l’interprete vale in quanto interprete, liberato dagli oneri della rappresentazione (il che non esclude che nel caso in cui sembrerebbe del tutto impossibile, e cioè Cate Blanchett, si vada a ricercare il più possibile un’adeguazione all’originale). Lo si osserva chiaramente in Julianne Moore/Alice/Joan Baez, o in Michelle Williams/Coco/Edie Sedgwick : tra interprete, personaggio della finzione e figura reale c’è una comunione che non porta all’identificazione, mantenendo per così dire scoperto agli occhi dello spettatore il meccanismo della recitazione e della personificazione .

ImageQuesta sorta di parallelismo che si viene a creare tra il film e la realtà è sottolineato dalla scelta registica di seguire, nei casi in cui ciò è stato possibile, i documenti filmati dell’epoca. Alcune situazioni famose, come concerti o interviste, sono ripercorse dall’autore con assoluta fedeltà, anche nella scelta delle luci o delle inquadrature. Viene da chiedersi perché a quel punto non usare i video originali, ma ciò fa logicamente parte del gioco di Haynes, mantenendo aperta la possibilità di una reinterpretazione visiva del materiale, relazionando il più possibile la propria prospettiva con la realtà documentata. Un accorgimento che aveva seguito anche Michael Mann quando in Alì si era dovuto confrontare con le immagini di Quando eravamo re. Lo spazio per il documento tuttavia c’è: si trova alla fine del film, ed è un’immagine sporca di Dylan impegnato in un assolo di armonica, quasi a riconsegnare, dopo più di due ore di una messa in scena labirintica, il testimone alla realtà stessa, che resta pur sempre unica e imperscrutabile, ben più enigmatica di quell’enigma cui il film ha giustamente dato vita. Ma al di là di questa consegna del finale, un utilizzo più ampio del materiale documentario durante il film sarebbe stato controproducente, in questo caso. Haynes infatti vuole mostrare, attraverso un’opera di ricostruzione, il decisivo margine di costruzione della realtà mediatica, che non è più in grado di sfuggire ad una configurazione impostata dall’alto. D’altra parte questa realtà, essendo l’unica cui ci si può rapportare, non può essere condannata, ma deve essere fino in fondo vissuta e immaginata, nel senso che le sue immagini devono essere riprodotte. In questo il cinema di Haynes è molto vicino alla Pop Art e a Andy Warhol, in cui la riproducibilità tecnica di discendenza benjaminiana assurge ad unica ragion d’essere dell’opera e dell’artista. La notevole sensazione di disorientamento che si può provare nella visione del film è dovuta innanzitutto alla volontà di mettere a nudo il meccanismo culturale in tutta la sua complessità intrinseca. Il labirinto è formato dalle molteplici interazioni dei differenti piani di realtà, dei differenti livelli: c’è un livello mediatico da reportage ed uno pubblicitario, un livello metacinemaografico e uno da evento live, e poi c’è un livello pubblico, un livello privato, un punto di fuga dal pubblico ed un punto di fuga dal privato, c’è un livello propriamente culturale ed uno storico, un livello della leggenda e un livello del quotidiano, e nessuno di questi piani o livelli è del tutto indipendente dagli altri, e soprattutto, nessuno è immaginario, bensì sono tutti immaginifici, cioè, letteralmente, produttori di immagini, di immagini assolutamente reali. Per questo li definiamo piani di realtà e non, ad esempio, di fantasia. Non solo: tutti questi piani di realtà, messi in relazione con la vita di Dylan, e quindi considerati in una prospettiva soggettiva e temporale, costituiscono, per l’appunto, altrettanti piani temporali. Anche qui possiamo infatti parlare di un tempo proprio dell’esistenza privata, un tempo emozionale, o di un tempo dell’esistenza pubblica, un tempo della maschera, e poi vi è un tempo dell’infanzia e un tempo della vecchiaia, un tempo dell’io ed un tempo dell’altro. L’errore sarebbe considerare questi piani temporali come periodi disposti consecutivamente lungo la medesima linea. Si tratta invece di una co-presenza continua di passato e futuro, in cui elementi appartenenti a diverse fasi della vita di Dylan, o anche a diverse epoche lontane nel tempo, vengono a costituire un circuito per cui si richiamano a vicenda e in base alle proprie affinità o contraddizioni si chiarificano, anche se questa chiarificazione può voler dire rendersi assolutamente enigmatiche, e cioè, mostrare il proprio enigma. È un procedimento che in letteratura trova il proprio equivalente, ad esempio, nei romanzi di Thomas Pynchon, e che più in generale è caro a tanta letteratura postmoderna americana, per il suo andamento digressivo e non lineare. Difficile poter parlare di una struttura tanto complessa senza essere contorti. Ma non ci sono spiegazioni o interpretazioni possibili: il film parla per sé. È quel che è e racconta quel che racconta.


 


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