L’esordio al lungometraggio di Jafar Panahi stregò il Festival di Cannes, che nel 1995 gli assegnò la Camera d’Or per la migliore opera prima. Già assistente di Abbas Kiarostami, che in questo film figura nel ruolo di sceneggiatore, Panahi muoveva i primi passi alla direzione di un’opera tutta sua scegliendo di raccontare una storia minimale che odora di strada. Con evidenti allusioni al (nostro) Neorealismo, Panahi pedina una bimba a poche ore dal Capodanno, alle prese con una città irta di pericoli e, al contempo, di benevolenza. Un po’ romanzo di formazione, un po’ ritratto ruvido di una vicenda che in ogni istante sembra ribadire la precisa discendenza da una realtà tangibile, il film è un piccolo gioiello. Panahi dimostra fin da subito di padroneggiare la messa in scena confezionando con sicurezza piani sequenza e incorniciando i visi dei suoi protagonisti, facendo delle espressioni dei suoi attori (non professionisti) le cartine di tornasole delle azioni che vanno dipanandosi lungo il film. Il punto di vista prescelto è a misura di bambina, ma capace di dire molto sul mondo degli adulti.
Tutto inizia da un desiderio irrefrenabile della piccola protagonista. Sembra solo un capriccio, ma presto il pesce rosso voluto dalla bimba diventerà proposito irrinunciabile. Convinta la mamma a darle i soldi necessari per l’acquisto tanto agognato, la fanciulla si addentrerà in una Teheran che decisamente fa tutt’altro che girare intorno a lei. Nonostante la grazia del suo vestitino e le lacrime che facilmente versa, gli adulti non si comportano come forse ci si aspetterebbe. Diffidenti, scostanti, refrattari a prendersi responsabilità, i grandi non aiutano la nostra bimba a raggiungere il suo obiettivo. Comprarsi un pesce può essere molto difficile se un (finto) incantatore di serpenti ti sottrae i soldi che, una volta restituiti, finiranno sul fondo di un tombino che nessuno vuole aprire. È su questo terreno, forse più che in altri, che Il palloncino bianco dimostra di aver compreso e fatta sua la lezione di un film come Ladri di biciclette. La capacità di alimentare e modulare la tensione emotiva non passa attraverso scarti e scelte sul piano del montaggio, sul dialogo tra campo/controcampo, bensì sulla possibilità che questa si sprigioni direttamente dalla grana grossa di una messa in scena che sa di quotidiano e di possibile, che affonda le mani nel piccolo e nell’universale.
Il film racconta la storia minimale di una piccola disavventura, ma non senza narrare un’umanità riconoscibile. In fondo, la pellicola è una parabola sul “mai arrendersi” e sulla ricerca di una solidarietà che tarda a presentarsi, o di fronte la quale spesso siamo diffidenti. Gli incantatori di serpenti, il venditore di pesci, il negoziante di camicie in polemica con un suo cliente sono i rappresentanti di un’umanità insensibile, seppur mai crudele. Di contro, il soldato, il ragazzino dei palloncini e l’anziana signora sono personaggi positivi che, tuttavia, soprattutto nel caso del venditore di palloncini, non hanno le risposte che si aspetterebbero. Il palloncino bianco allora mette in scena la presa di coscienza di una bimba che di fronte alla perdita dei soldi della mamma dimentica o quasi il suo capriccio. Ma le lezioni più importanti di questo film sono altrove, quando la bimba si rende conto che in realtà il pesce di cui si è innamorata ha le stesse dimensioni di quelli che già possedeva. E nell’ultimo fotogramma. Il ragazzino afghano lasciato a sé stesso, appena dopo la condivisione di un momento di gioia comune, è l’epigone del lieto fine mancato che tradisce ciò di cui tacitamente il film si nutre fin dal primo momento. Dietro le fattezze di una favola di strada, infatti, Il palloncino bianco cela tutto il gusto dolceamaro del disincanto.
TITOLO ORIGINALE: Badkonake Sefid; REGIA: Jafar Panahi; SCENEGGIATURA: Abbas Kiarostami; FOTOGRAFIA: Farzad Jowdat; MONTAGGIO: Jafar Panahi; MUSICA: Said Ahmadiy, Majtaba Mortazavi; PRODUZIONE: Iran; ANNO: 1995; DURATA: 85 min.
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