Con Gomorra Matteo Garrone si mantiene fedele al suo stile fatto di crudo realismo; il suo sguardo è spietato e implacabile, estremamente rigoroso e mai patetico né compiaciuto. È un bene che il celeberrimo libro di Roberto Saviano sia stato portato sullo schermo da un autore dalla poetica così nitida ed emotivamente bruciante, piuttosto che essere banalizzato da una qualche produzione televisiva o cinematografica semplicemente “di denuncia”. Gomorra non è ricattatorio né pedante: sceglie le storie da raccontare, ne annoda i fili con mano ferma, e con occhio apparentemente distaccato dà vita ai suoi personaggi prendendo spunto dalle parti maggiormente romanzate dell’inchiesta di Saviano. In questo senso Gomorra si presenta come un adattamento particolarmente riuscito ed intelligente: nessun timore di tagliare, cambiare, aggiungere, nella consapevolezza che il film avrebbe potuto prendere tante strade diverse ma anche con il coraggio di prendere in mano il materiale letterario per farne un’opera che sia cinema a tutti gli effetti, e non inchiesta filmata. Quel senso di disperazione lancinante che Saviano provocava con le parole nei suoi lettori, Garrone lo ricrea con immagini dal taglio personale, traslate su un piano artistico differente ma non per questo meno forti ed efficaci. L’impressione più forte che si ricava dalla visione è un senso soffocante di chiusura: Garrone mette in scena i quartieri di Napoli dove si svolgono i fatti narrati come un mondo a parte, anche e soprattutto da un punto di vista strettamente figurativo, caratterizzato da consuetudini aberranti che si fanno normalità. Un microcosmo strettissimo la cui chiusura è però solo apparenza, perché chi è davvero condannato a vivere sprofondato in un inferno umano e morale da cui è impossibile uscire sono unicamente determinate categorie di persone: gli operai sfruttati non solo italiani, i ragazzi, i bambini, le donne, i criminali senza potere. Persone come Franco (Toni Servillo) hanno invece ben chiara l’estensione del “sistema”: la criminalità organizzata di Secondigliano e Scampia è solo una delle tante rotelle che mandano avanti l’ingranaggio dell’economia mondiale, un’economia che a qualsiasi latitudine ha bisogno di lavoratori da sfruttare, territori da inquinare, esseri umani da sacrificare. Le cave campane dove stoccare illegalmente rifiuti tossici sono una grande risorsa per le aziende di ogni parte d’Italia e d’Europa. La regia di Garrone è precisa, spesso insostenibile nella durata implacabile delle inquadrature, nel vuoto carico di panico in cui sembrano muoversi i personaggi, tanto negli spazi aperti, come le cave, tanto all’interno dei quartieri o delle case. La violenza in Gomorra è secca, mai eccessiva, crudelmente semplice: nessuna morte è tragica o grandiosa, i corpi dei morti hanno la stessa fragile inconsistenza di quelli dei vivi. Non c’è una vera e propria colonna sonora nel film, qualsiasi brano di commento su quelle immagini sarebbe suonato fasullo, e del resto il silenzio è particolarmente efficace nel rendere l’atmosfera alienata e alienante di certi luoghi. L’uso dei pezzi neomelodici napoletani amplifica, per contrasto, l’orrore di certe sequenze: la serena banalità delle canzoni si scontra con la banalità agghiacciante delle esplosioni di violenza (l’incipit nel solarium), del vuoto morale dei personaggi (i due ragazzi ansiosi di impugnare le armi): tutto si mescola in Gomorra, senza senso, senza logica, non c’è alcun confine individuabile tra giustizia e ingiustizia, tra aberrazione e normalità. TITOLO ORIGINALE: Gomorra; REGIA: Matteo Garrone; SCENEGGIATURA: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Roberto Saviano; FOTOGRAFIA: Marco Onorato; MONTAGGIO: Marco Spoletini; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2008; DURATA: 135 min.
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