La macchina da presa scivola dolcemente avvicinandosi a una finestra qualunque di un palazzo anonimo, rivelando, poco dopo, l’ipotetica scena di un delitto: impronte insanguinate, una sedia rovesciata, un modellino di barca a vela posato su una poltrona, un regalo. Si torna indietro nel tempo, a tre mesi prima degli eventi. Martin Taylor (Channing Tatum) sta per uscire di prigione dopo aver scontato una pena per insider trading e la moglie Emily (Rooney Mara) pare attenderlo a braccia aperte. L’amore per il marito è in realtà appannato: il mondo emotivo e psicologico della donna sembra essersi sgretolato irrimediabilmente. Lo spettatore è calato (sempre a debita distanza, con la freddezza tipica dell’estetica soderberghiana) nel tracollo depressivo in cui è inghiottita la donna. L’incontro con lo psichiatra inglese Jonathan Banks (Jude Law), che si trasferisce a lavorare negli Usa "dove la psichiatria non cura malattie, ma aiuta la gente a stare bene", rimescola le certezze acquisite dallo spettatore. La pesantezza esistenziale di Emily, ben interpretata dal volto evanescente di Rooney Mara, è curata con un nuovo farmaco, l’Ablixa, rivoluzionaria panacea di tutti i mali depressivi. A consigliare il medicamento è la dottoressa Victoria Siebert (Catherine Zeta Jones), gelida e ambigua psichiatra, potenziale dark lady e componente fondamentale dell’ingranaggio pseudo-noir rivelato gradualmente dalla sceneggiatura. Il dramma iniziale sfuma così rapidamente nel thriller grazie alla costruzione scientifica della suspense.
Steven Soderbergh, con Effetti Collaterali (Side Effects presentato in concorso alla 64a Berlinale), prosegue l’ormai lunghissimo percorso che l’ha portato a sondare i generi cinematografici più vari, connettendosi a stilemi e argomenti già affrontati nel corso della carriera. A partire da Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies, and Videotape, 1989), storia dell’evoluzione ossessiva verso un sospetto, fino ai recenti The Informant! (2009), dove una multinazionale diviene pars pro toto del sistema capitalistico corrotto, e Contagion, in cui una pandemia è la metafora della catastrofe e dell’autodistruzione umana. In Effetti Collaterali il complotto nasce in un sistema corrotto, dove l’uomo tampona qualsiasi emozione ricorrendo agli psicofarmaci, utilizzati come cura per una forma di depressione, in fondo ormai collettiva, che significa, come spiega il dottor Banks/Jude Law, "incapacità di pensare al futuro". Effetti Collaterali nasconde i germi di un dramma hitchcockiano sin dalle prime immagini, trasformandosi poi in un perfetto esemplare del cinema recente di Soderbergh, abitato da corpi ricorrenti, riutilizzati e reinventati a rimescolare le norme rigide del typecasting. Il completo da yuppie non sta in fondo troppo stretto al corpo possente dell’ex spogliarellista Mike interpretato da Tatum nel precedente Magic Mike (2012). Così Jude Law ritorna a svelare un complotto e a trovarsi ad affrontare il tracollo degli eventi come già accaduto in Contagion.
Soderbergh riconfigura anche gli schemi dei generi hollywoodiani, riabilitati per poi essere sovvertiti dal punto di vista visivo, con un utilizzo dell’immagine digitale chirurgicamente e freddamente contemporanea, un’attenzione architettonica ossessiva nella composizione delle inquadrature e una ricerca cromatica che bandisce impeti plastici e coloristici. Il pathos (nella prima parte del film) e la suspense (nella seconda parte) sono ripuliti da qualsiasi forma di emotività. Ogni elemento può così concorrere alla costruzione dell’algida poetica soderberghiana: lo sguardo non è propriamente quello di un autore, ma di un artigiano che lavora in modo profondamente attuale sui generi, realizzando congegni cinematografici efficienti ed efficaci, tra cinema di massa e ricerca personale.
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