Lo spirito dell’alveare: Frankenstein e l’allegoria del franchismo PDF 
Piervittorio Vitori   

Una località della meseta castigliana, nel 1940 circa: un proiezionista ambulante arriva nel paese e fa scoprire il Frankenstein di James Whale al pubblico locale. Tra i molti bambini presenti ci sono Ana e Isabel, il cui padre è un proprietario terriero che si dedica all’apicoltura e la cui madre vive nel ricordo del passato. Isabel fa credere alla sorella che il mostro del film esista davvero ed abiti in una casa abbandonata in mezzo ai campi. “Il titolo, in realtà, non mi appartiene. È tratto da quello che, a mio parere, è il libro più bello mai scritto sulla vita delle api, e di cui è autore il grande poeta e drammaturgo Maurice Maeterlinck. In questa opera, Maeterlinck utilizza l’espressione ‘Lo spirito dell’alveare’ per descrivere questo spirito onnipotente, enigmatico e paradossale al quale le api sembrano obbedire, e che la ragione degli uomini non è mai riuscita a comprendere” (1). Quella dell’alveare è solo la più esplicita tra le varie allegorie messe in campo dal regista, che già al suo esordio, 33enne, mette in luce una maturità espressiva che porta a tutt’oggi a ritenere la pellicola del 1973 come uno dei vertici di sempre della cinematografia spagnola. Il motivo di tale considerazione, volendo proporre una sintesi introduttiva, risiede probabilmente nella capacità di Erice di comporre un sistema di simboli e rimandi che, senza mai essere ridondanti o fuori luogo, concorrono a sviluppare in maniera compiuta due discorsi in grado di compenetrarsi perfettamente tra loro.

Il primo, evidentemente rilevante dal punto di vista storico (2), è quello relativo alla descrizione della società emersa dalla guerra civile, ed è proprio in quest’ottica che va interpretata l’allegoria presente fin dal titolo. L’ordine rappresentato dallo spirito di Maeterlinck riflette dunque quello della Spagna franchista, la cui struttura è proposta in termini di parcellizzazione, figura che caratterizza tanto le celle dell’alveare quanto i rapporti all’interno della comunità rurale di Hoyuelos. Le relazioni interpersonali paiono quasi inesistenti, come se ogni individuo non riuscisse a (o non volesse) stabilire un contatto con ciò che gli è esterno. È così comprensibile l’eccitazione che la proiezione di un film suscita nei bambini: l’arrivo del proiezionista, non a caso il personaggio forse più ciarliero di tutto il film, simboleggia l’irruzione nell’alveare di un altrove. È un altrove la cui presenza ha ovviamente una durata limitata (come è breve la sosta del treno, altro elemento di comunicazione che, in quanto tale, suggerisce l’idea di una possibile uscita dall’isolamento), ma sufficiente a far sorgere nella sensibile Ana la tensione verso la rottura degli schemi di partenza. Una tensione cui gli altri membri della sua famiglia sembrano aver rinunciato.

Nel frattempo, merita notare come sia proprio tra le mura domestiche che Erice dispiega maggiormente la sua maestria, limitando al minimo i dialoghi e deputando la produzione di senso alla messa in scena. A trasmettere in maniera naturale un forte senso di oppressione concorrono così la fluidità del montaggio, le scelte di regia (si vedano le inquadrature frontali del corridoio, con le varie porte che compongono cornici chiuse una dentro l’altra), l’illuminazione (ambienti scuri o in penombra, con il colore della luce che richiama quello del miele) e gli elementi profilmici. Tra questi ultimi, da segnalare almeno il dipinto con l’immagine del santo e del teschio e le finestre sempre chiuse, con i motivi esagonali che rimandano esplicitamente a quelli delle celle dell’alveare. Venendo ora ai genitori di Ana, ecco che la parcellizzazione investe anche loro, al punto che, prima del finale, Fernando e Teresa dividono la stessa inquadratura solo in due brevissime scene: quella della partenza di lui dal paese e quella in cui la bambina sfoglia un vecchio album di fotografie, trovando immagini della coppia da giovane. A significare la frattura vi sono invece altre due scene particolarmente esemplari: quella in cui lei, a letto, finge di dormire (e lui è solo un’ombra che entra nella stanza e si staglia sul letto); e soprattutto quella della colazione, posta a circa ¾ del film: due minuti privi di dialogo in cui i quattro personaggi principali vengono sempre inquadrati singolarmente. È il momento in cui Ana capisce che il maquis (3) che si nascondeva nella casa vicina al pozzo è morto, con l’intuizione che viene veicolata dalla vista dell’orologio del padre, che lei aveva precedentemente dato al fuggitivo: è solo uno dei vari casi in cui il regista dimostra la sua propensione a far “parlare” gli oggetti in vece delle persone.

Dicevo di come i famigliari di Ana abbiano rinunciato alla tensione verso la rottura: nei genitori, in particolare, il non opporsi alla logica dell’alveare non implica però un’adesione, bensì piuttosto un tentativo di astrazione che crede di trovare una via di fuga (anche) nel passato. Ecco allora entrare in scena gli oggetti: per lei, il piano da cui trae la melodia malinconica che funge anche da tema ricorrente della pellicola e, ancor più, le lettere che scrive, indirizzate presumibilmente ad un affetto perduto durante la guerra; per lui, l’orologio a carillon la cui musica rimane ad ascoltare (4)... Fernando, poi, si circonda di altre “vie di fuga”: i testi che scrive, le riviste che legge, per non dire dell’alveare (e la ricerca in esso di un senso, la pretesa dell’uomo di poterne essere osservatore esterno, è a questo punto una metafora immediatamente comprensibile). La curiosità, dunque, è per lui un palliativo, ma un palliativo da assumere con cura. A ricordarglielo è il dialogo del Frankenstein che coglie dalla terrazza di casa: in esso, come già nel prologo della pellicola di Whale, si mette in guardia l’uomo dal tentativo di perseguire autonomamente la via della conoscenza, usurpando il ruolo che appartiene a Dio (o nella Spagna degli anni ‘40, verrebbe da dire, alla dottrina franchista). Ma già molti anni prima la cautela gli era stata inculcata da suo padre, quando insieme andavano a raccogliere funghi; e questo è l’insegnamento che Fernando tramanda alle figlie.

Distogliere l’attenzione dai genitori per rivolgerla ad Ana significa privilegiare il versante narrativo dell’opera rispetto a quello descrittivo, introducendo il secondo discorso strutturato dal film: quello che, per la piccola protagonista, rende la vicenda un percorso di crescita. Un percorso declinato nella forma di una fiaba (nera), come già l’incipit lascia intuire, tra i disegni infantili sui titoli di testa, il rituale “C’era una volta…” in apertura e la relativa indeterminatezza spazio temporale della didascalia successiva. L’arrivo del Frankenstein rappresenta, come detto, l’effimero incunearsi di un altrove nell’ordine dell’alveare: un altrove da cui Fernando e Teresa si tengono alla larga - indicativa la reazione di lui, che si ferma per qualche istante davanti alla sala dove ha luogo lo spettacolo e poi riprende la sua strada -, ma che esercita invece una decisa attrazione sui bambini. Nello specifico, l’atteggiamento di Ana, che assiste alla proiezione con gli occhi spalancati, è già indice di quella spiccata sensibilità che la distingue dalla sorella. Isabel è poco più grande di lei, ma è già sufficientemente smaliziata da seguire la pellicola “senza prenderla troppo sul serio”, come da frase che chiude il prologo. L’avvertimento sembra confermare l’idea che la fantasia, come la curiosità intellettuale, è accettabile in minima misura e comunque solo fino a quando sia fine a se stessa e non un possibile strumento diretto al cambiamento. Così la intende Isabel, la cui curiosità, in più circostanze morbosa e macabra (la tentazione di strangolare il gatto, l’inscenare la propria morte di fronte alla sorella, il giocare con il fuoco), è comunque priva di referenti esterni. Diverso il caso di Ana, nella quale è da subito presente una tensione irrisolta verso l’altro: prima il manichino utilizzato a scuola per la lezione di anatomia; poi il padre, di cui replica le azioni (fingendo di sbarbarsi, osservando le api, sedendosi alla macchina da scrivere); infine l’uomo che troverà nella casa abbandonata. Sicchè, tornando alla parte iniziale del film, non stupisce che la sorella maggiore riesca a convincere la minore dell’esistenza dello spirito: quella che per Isabel è una bugia consapevole - giacché lei sa che esiste una differenza netta tra realtà e fantasia, tra il sé e l’altro -, per Ana è una potenziale verità. Oltretutto, Isabel fa leva su un aspetto che ha particolare presa sulla sorella: in una comunità e tra mura in cui l’afasia pare essere norma sociale, le dice che “se si è amici dello spirito ci si può parlare”.

A questo punto, Ana sta ancora assumendo la sorella come figura-guida, in una relazione che, pur fatti salvi alcuni spazi di autonomia della protagonista (la “sfida” al treno, l’ossessione per la casa vicino al pozzo), prosegue fino allo scherzo di Isabel. È questo il momento in cui, peraltro a Fernando assente, Ana si libera dalla tutela della sorella. La distanza dai famigliari, ora più che mai marcata, implica un allontanamento dall’alveare e un’aumentata propensione a rompere la barriera tra questo e l’altrove. Ed è proprio la circostanza che prelude, dopo che la bambina si è recata già tre volte senza esito alla casa, alla quarta escursione, quella in cui finalmente incontrerà lo “spirito” di cui le parlava la sorella, incarnatosi nel personaggio del maquis. Rispettando significativamente il tono da fiaba nera, la fuga di Ana avviene di notte, in un contesto buio quanto lo era la sala del municipio in occasione della proiezione. In contrasto con il diffuso grigiore del giorno (il direttore della fotografia Luis Cuadrado lavora in maniera molto efficace con la luce naturale, spogliando di ogni luminosità gli esterni diurni), quello dell’oscurità è l’ambito in cui si fanno più labili i confini dell’esperienza. Sempre di notte, infatti, ad un paio di giorni di distanza da quell’incontro, la protagonista, ormai consapevole della sorte toccata all’uomo, compie la seconda trasgressione: decide cioè di mangiare il fungo “cattivo”, che da referente dell’allegoria istituita dall’avvertimento paterno diviene lo strumento attraverso il quale si completa la fusione tra reale e fantastico, tra il sé e l’alterità. Ana vede il suo volto, riflesso nell’acqua, diventare quello della creatura di Frankenstein: assume in sé lo “spirito”, ciò che implica un’acquisizione di coscienza e un rinnovato senso d’identità.

Il trauma di cui è oggetto la bambina trova qualche riflesso sul sistema relazionale interno alla famiglia. Teresa pare scuotersi dal suo stato di astrazione: brucia l’ultima lettera e, tra la preoccupazione per la figlia e la premura per il marito che si è addormentato allo scrittoio, sembra investire finalmente su di sé i ruoli di madre e di moglie. La misura di questo investimento è però opinabile, poiché Erice insiste nel tenerla separata dagli altri personaggi: ancora una volta, nella scena in cui accudisce Fernando, i due volti non sono mai inquadrati insieme. Isabel, dal canto suo, vede confermata la rottura del suo rapporto con Ana che, quando la sorella viene a trovarla nella camera da letto, rifiuta il contatto con lei. Il rischio corso dalla protagonista, dunque, non prelude a un lieto fine all’insegna della riconciliazione: è anzi sintomatico il fatto che la bambina sembri non riconoscere i famigliari, guardandoli “come se non fossero mai esistiti”. La vera svolta, perciò, riguarda solo lei: sarà anche vero che, come dice il dottore a Teresa, “è ancora una bambina”, ma è una bambina che ha imparato meglio della madre a confrontarsi con la morte e meglio del padre a confrontarsi con l’altro. Una bambina che non ha più paura, la notte, a lasciare aperta la porta che dà sul mondo, invitandolo ad entrare.

Note:
(1) V. Erice in T. Valero Martínez, El espíritu de la colmena, in CineHistoria
(www.cinehistoria.com/el_espiritu_de_la_colmena.pdf, trad. mia).
(2) Tra l’inizio degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, il boom economico spagnolo porta sulla scena sociale una borghesia che rivendica maggiori spazi di libertà e informazione: per quanto riguarda il cinema, nel ’67 le sale aprono alle pellicole straniere in lingua originale, e tra quell’anno e il ’69 vedono la luce manifestazioni di settore (Sitges, Benalmádena) che avranno un’influenza cruciale sullo sviluppo successivo della produzione nazionale. È il decennio in cui Buñuel dà scandalo con Viridiana e Saura (che con Erice condivide il produttore, Elías Querejeta) apre la strada al “Nuovo cinema spagnolo” con La caccia. Ma se pure, grazie a questo rinnovamento e alla continuità artistica dei “dissidenti” della prima ora come Berlanga e Bardem, era possibile una più o meno velata critica alla società franchista, resta il fatto che nel 1973 la circolazione di un’opera come Lo spirito dell’alveare non era da considerarsi scontata.
(3) Inizialmente coniato per definire il movimento di resistenza francese attivo durante la II Guerra Mondiale, il termine passò poi ad indicare, nella Spagna di Franco, l’insieme dei gruppi che condussero la lotta armata contro il regime.
(4) L’orologio poi passerà anche per le mani del maquis e del guardia civil. Quest’ultimo, che in quanto rappresentante dell’ordine costituito è l’unico dei tre ad essere “integrato”, è anche l’unico che non aprirà l’orologio, rinunciando quindi ad ascoltarne il carillon.

Titolo originale: El espíritu de la colmena; Regia: Víctor Erice; Sceneggiatura: Víctor Erice, Ángel Fernández Santos, Francisco J. Querejeta; Fotografia: Luis Cuadrado; Montaggio: Pablo G. del Amo; Scenografia: Jaime Chávarri; Costumi: Peris; Musiche: Luis de Pablo; Produzione: Elías Querejeta Producciones Cinematográficas S.L., Jacel Desposito; Distribuzione: CLAB; Durata: 97 min.; Origine: Spagna, 1973

 


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