TFF 28/Vitalij Kanevskij PDF 
Michele Segala   

La carriera e la vita di Vitalij Kanevskij sono un unicum. Nato in Unione Sovietica nel 1935, vive una vita costellata di difficoltà, in cui conosce miseria e lavori duri ma anche l’amore per il cinema, che lo porterà a trasferirsi dalla Sučan della sua infanzia a Mosca per studiare al VGIK (l’Istituto Statale Panrusso di Cinematografia). Qui, per uno scherzo crudele del destino (un colonnello del KGB, padre della ragazza che all’epoca Kanevskij frequentava, percepisce uno sgarbo da parte del giovane di Vladivostok), viene incarcerato per sette anni con la falsa accusa di violenza sessuale. Una volta uscito di prigione riprende a fatica il suo percorso: lavora un po’ per la televisione pubblica, per cui filma la regia di un episodio di una celebre serie (Il segreto che tutti conoscono, 1976), e in seguito si trasferisce a Leningrado per lavorare nella Lenfil’m, per i cui studi dirige un lungometraggio (Una storia di campagna, 1981). Nel frattempo, però, inizia a scrivere il soggetto di quello che diventerà il suo vero debutto e la chiave di volta di tutta la sua carriera, Sta’ fermo, muori e resuscita, che girerà nel 1989 tra mille problemi produttivi (in addirittura un anno di lavorazione), durante gli ultimi mesi della Russia comunista.

Il film narra la storia del giovanissimo Valerka (sorta di alter ego del regista) che, nella Sučan del secondo dopoguerra, è un piccolo scavezzacollo che attira su di sé tanto le preoccupazioni della madre quanto le ire di insegnanti e tutori dell’ordine. Tra i vari premi, Sta’ fermo, muori e resuscita vince a Cannes la Camera d’Or, successo che Kanevskij bisserà due anni più tardi con il sequel Una vita indipendente (prodotto con maggior facilità e zelo produttivo in Francia, dove si è nel frattempo trasferito con la moglie e collaboratrice Varvara Krasil’nikova), che riceverà il Premio speciale della Giuria. Nel 1993 firma poi la regia di un documentario, Noi, i ragazzi del XX secolo, che lo vede coinvolto in prima persona nel filmare ed intervistare i ragazzi di strada della nuova Russia, costretti, dopo la caduta del comunismo, a rubare e compiere qualsiasi crimine pur di vivere, finendo presto e spesso in riformatorio, quando non in prigione. Nel 1995 il cineasta di Vladivostok progetta e gira alcune sequenze di un terzo capitolo delle storie di Valerka (Un, due!) che, per mancanza di fondi, non riesce tuttavia ad ultimare. Negli anni successivi Kanevskij si dedicherà quindi unicamente al documentario: un primo sui nuovi imprenditori russi (Il più grande. I nuovi imprenditori russi, 1999), un secondo sull’attività svolta da alcuni funzionari statali per degli orfanatrofi, un carcere femminile, una casa per invalidi ed una per bambini ciechi (Nell’autunno di una nuova vita, 2002), ed un terzo sulla vita di una deputata della Duma (Misericordia senza limiti, ancora 2002).

Ma è al cuore della produzione di Kanevskij, cioè ai suoi due film di finzione incentrati sul protagonista/alter ego Valerka (e in parte sul documentario che più è legato ad essi, Noi, i ragazzi del XX secolo) che è doveroso dedicare spazio. La vita di Valerka non è differente da quella di molti altri bambini ed adolescenti del cinema. Come Mouchette, come Rosetta, come Antoine Doinel, vive a dispetto del mondo adulto, alterna avventure e disavventure, ma soprattutto è materia per un cinema che è al contempo realistico e totalizzante: perché se le traversie in cui si imbatte il protagonista di Sta fermo, muori e resuscita e Una vita indipendente sono personali e soggettive, ugualmente il suo vagare con gli occhi (bene) aperti per un mondo che perlopiù lo respinge e lo denigra racchiude in sé non una storia umana, ma bensì la storia umana. Una storia di sintesi tra individuo e società che, spesso, è una sintesi di lotta, fantasie e disillusioni. E non è certo un caso se sono questi fanciulli sfortunati (per ceto, per nascita ...) a racchiudere nella loro vita sullo schermo la vita di molti adulti di qua dello schermo: per loro non ci sono i giocattoli e gli svaghi che più sarebbero adatti alla loro età, ma piuttosto sfide giocate ad armi impari (il debole contro il prepotente) che pure non impediscono loro di avere negli occhi quel guizzo che li spinge ancora a muoversi, a correre per le strade, a sporcarsi le mani, a cadere e a rialzarsi, come se la vita desse diritto ad una ricompensa che si cela dietro qualche angolo che ancora non si è raggiunto. Tutti questi film (e i due lungometraggi di Kanevskij non fanno eccezione), sono infatti bildungsroman ad alta velocità, nei quali il protagonista non sembra mai avere un attimo per riposare, fino a non capire se sia la vita a rincorrerlo o lui a ricorrere la vita.

L’intero Sta’ fermo, muori e resuscita è un gioco di tensioni. Tensioni, in particolare, tra un dentro ed un fuori, dove il dentro è la cittadina-prigione di Sučan e il fuori è la grande città (Vladivostok), ma soprattutto la libertà (immaginata, sognata). Così, gradualmente, con lo scorrere del film, Valerka diventa sempre più consapevole di una realtà “altra” al di fuori di Sučan, dove ormai le sfumature tra la vita da “cittadini liberi” dei russi e quelle da prigionieri di guerra giapponesi si fa via via meno sfumata, tanto che nella seconda metà del film arriverà persino a pensare di poter identificare il proprio destino con quello di una prigioniera giustiziata di cui possiede una morbosa fotografia post mortem. Ma è nell’intero corpo di Sta’ fermo, muori e resuscita che si muovono esempi di questa prigionia (dentro) contrapposta alla libertà (fuori). Si veda quello del vecchio maestro Abram che, una volta impazzito, da Mosca ha scelto (o qualcuno ha scelto per lui) proprio Sučan come luogo dove rimanere “internato”, o quello della prigioniera quindicenne che, pur di tornare libera (e quindi andarsene dalla cittadina), supplica un giovane di prenderla, nella speranza così di rimanere ingravidata ed ottenere un rilascio speciale per la sua condizione.

Ad alimentare l’incertezza (morale) di Valerka e di tutti i personaggi che cercano di arrabattarsi sono le figure che non a caso rappresentano l’autorità e lo Stato, come l’incapace delegato del partito alla scuola di Sučan, oppure la figura dell’investigatore governativo che arriva per trovare chi abbia fatto deragliare il treno. E proprio quest’ultimo, in particolare, pare impersonare al meglio l’idea di uno Stato lontano ma crudele, impressione sottolineata da Kanevskij con uno splendido primo piano in chiaroscuro del volto dell’uomo ritratto in un'espressione inquietante quando, sbucando dal buio, terrorizza Valerka e Galjia. Un'inquadratura, questa, che coglie il lato perverso dell’autorità, e che ha un sapore tutto hitchcockiano. Un’incertezza morale, si diceva, che si basa inoltre su una dicotomia prigione/libertà che crea un vero e proprio circolo vizioso: per quanto i ragazzi come Valerka (e si pensi, a maggior ragione, ai protagonisti del documentario Noi, i ragazzi del XX secolo) cerchino di sfuggire alle costrizioni della società cui sono sottoposti in quanto minorenni – siano esse la miseria in cui sono nati o l’oppressione da parte di genitori violenti –, la società non li lascia andare, ma punisce i loro tentativi di fuga con la massima pena, la prigionia appunto. Circolo vizioso riassunto dall’ironico destino di Valerka nella seconda parte di Sta’ fermo, muori e resuscita, quando, credendo di dover scappare da Sučan per evitare di essere incarcerato per aver causato il deragliamento, rischia invece di finire in prigione assecondando una vita di strada fatta di furti con una piccola gang di delinquenti, e nel frattempo evita tutti i poliziotti che vede nel terrore di dover affrontare prigionia e torture, quando in realtà questi lo cercano soltanto per riportarlo da sua madre, che lo aspetta a casa, in pena per lui.

Ma alla confusione morale di una società fortemente ingiusta come quella sovietica raccontata da Kanevskij, si aggiunge la confusione tutta interiore del suo protagonista che, nel suo agognare una vita diversa (sia questa intravista con gli occhi dei prigionieri giapponesi, di cui vorrebbe imparare la lingua, o con la romanticizzazione della vita criminale), e nei suoi continui tentativi di essere se stesso, incurante delle pene o dei problemi che può causare, viene tradito da tutti quelli che gli stanno attorno: tanto dalla madre, che confessa per lui la “marachella” del lievito nelle latrine della scuola, che dai nuovi compagni fuorilegge di Vladivostok. E così Valerka non riesce a cogliere, nel suo centrifugo smaniare, proprio l’affetto dell’unica persona che si fida di lui ciecamente e lo segue dappertutto, Galjia, ma che in questo primo dei due capitoli sulla sua vita lui apostrofa e sintetizza soltanto come “un ottimo segugio”, non cogliendo il sentimento che lei prova per lui, ma riconoscendole soltanto gli sforzi fattuali che ha intrapreso per stargli dietro. Sarà solo in Una vita indipendente che Valerka, attraverso il ricordo, le riconoscerà (almeno) il ruolo di “angelo custode”.

E sarà in seguito, con la fine dell’infanzia e quindi con la presa di coscienza della morte (rappresentata alla fine di Sta’ fermo, muore e resuscita dall’immolarsi di Galjia, e all’inizio di Una vita indipendente dallo sgozzamento del maiale Masha, che era stato un fedele compagno di giochi), e con il secondo capitolo della vita di Valerka, che Kanevskij simboleggia con la morte il pericolo (definitivo) che può portare a Valerka questa vita incosciente. Morte che avvolge il protagonista dall’inizio alla fine del film e non lo lascia per un istante: il bambino che cercava una vita diversa ha infatti ora soltanto una vita indipendente. Indipendente dai suoi affetti (la madre, ma anche Val’ka, sorella di Galjia) e nella quale ancora una volta si barcamena da piccolo ladruncolo, prima con qualche furtarello, poi con qualche aggancio “giusto”, cioè con conoscenze che gli permettono di indossare vestiti eleganti e di avere un biglietto per la capitale. Ma, finita l’infanzia, è finita anche l’innocenza del protagonista, che infatti nella parte conclusiva della pellicola viene prima circondato da cattivi presagi (l’uccello che vola nella nave), ed infine viene punito per i suoi tradimenti: dei fantasmi lo andranno a visitare dopo un suo ultimo e sterile atto di volontà individualista (dare la libertà a dei topi in fiamme che, guarda caso, propagano malattie, ossia morte). E alla vista di questi fantasmi, teribili atti di accusa a tutto il suo essere, Valerka non può far altro che scappare, ormai (forse) senza più nessun posto da raggiungere. Anche l’adolescenza è finita.

Kanevskij, con questi due splendidi scorci autobiografici di una giovinezza che combatte per sopravvivere, ha fatto intravedere un cinema che sa essere, soprattutto con il suo capolavoro Sta’ fermo, muori e resuscita, puro e selvaggio, realistico e sognante. Raramente nella storia del cinema (e qui il cinefilo inevitabilmente riproporrà l’esempio di Truffaut) c’è stato un debutto che esprime un talento così fulgido e una narrazione così diretta, emotiva e sapientemente strutturata. Quale che sia il futuro di questo cineasta che ha debuttato a 54 anni con un capolavoro assoluto e pluripremiato (cui ha fatto seguito un secondo film che un po’ troppo spesso pecca di eccesso di simbolismi, rischiando quasi di diluire la potenza grezza del primo), basterebbe il solo Sta’ fermo, muori e resuscita a ritagliargli un posticino nella storia del cinema. Ma naturalmente noi speriamo che Kanevskij torni con un altro film (di fiction stavolta). E magari anche Valerka.

 


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