Il ritratto di Oliver Parker, romanzo postumo di Oscar Wilde PDF 
Umberto Ledda   

Non c’è da fidarsi, o almeno c’è da essere diffidenti, quando un autore si dedica quasi esclusivamente alla messa in scena di un altro autore. I rischi sono molteplici: sfruttamento di un universo codificato, illustrazione di materiale che aveva un senso  un tempo e potrebbe non averlo oggi, deformazione. Viceversa, le potenzialità sono sottili e difficili: intima vicinanza con un pensiero e con un mondo da far rivivere oggi, mimetismo registico, metautorialità, una forma strana e fascinosa di immedesimazione che conduce a medesimi significati attraverso forme distanti, o viceversa. Come il Pierre Menard, lo scrittore inventato da Borges che decide di scrivere il Don Chisciotte di Cervantes, parola per parola, nel tentativo folle di concepire un’opera che ricalchi alla precisione un libro scritto quattrocento anni prima, ma con l’intento di renderlo significante, e autoriale, come se davvero fosse stato scritto dal nuovo autore, con la sua sensibilità moderna, con il suo trascorso biografico, con le sue inclinazioni. Opera che è la stessa opera ma che è diversa nel processo stesso della creazione, nella poetica, nel vissuto, nelle motivazioni. Un processo che, va da sé, ha tanto più fascino proprio per quanto implausibili sono le sue potenzialità di compimento. Detto questo, occorre notare come Oliver Parker, che da anni tenta di ricreare Oscar Wilde al cinema, non solo non provi (fallendo gloriosamente) a seguire questa seconda strada, ma abbia ormai dimostrato di aver scelto compiutamente e scriteriatamente sull’altra, quella dello sfruttamento, dell’illustrazione quando va bene, della deformazione ruffiana quando se ne presenta la possibilità. La sua opera è un buon modo per illustrare quali sono i rischi di un gesto folle come una trasposizione programmatica. Perché un conto è trasporre un’opera, un altro è trasporre un uomo.

Parker prima di Dorian Gray era andato sul semplice: aveva messo in scena L’importanza di chiamarsi Ernesto (con il solito gioco di parole che ha sempre reso del tutto impossibile qualsiasi traduzione decente) e Un marito ideale, aiutandosi con la ricchezza dei mezzi scenografici e costumistici per rendere un universo che faceva della raffinatezza esasperata se non il punto di forza, almeno uno sfondo onnipresente. Un gioco abbastanza facile, tutto sommato. Curioso in prospettiva wildiana anche St. Trinian’s, girato insieme con il produttore della rediviva Ealing (che produce anche Dorian Gray, in un tripudio di inglesità), che non aveva niente a che vedere con Wilde ma ne ricalcava in qualche modo le movenze rapide e spregiudicate riportandole nell’universo pop del nuovo millennio: forse è indicativo che l’unico fra gli ultimi film di Parker a non avere contatti espliciti con il suo autore feticcio sia il suo lavoro migliore, e il più wildiano. Per quanto riguarda L’importanza di chiamarsi Ernesto e Un marito ideale si veleggia nel campo dell’illustrazione, con qualche giochino moderno per far capire che sì, siamo nel 2000 ed è passato un secolo e il postmoderno bene o male lo abbiamo attraversato tutti. Sono film innocui, che non azzardano letture, che aggiungono poco, che mostrano con una certa efficacia Wilde senza bisogno di andare a teatro. Estenuata eleganza, il vuoto assunto a filosofia, una noia per tutto quanto abbia un senso che rimanda a una civiltà stanca e sfiduciata. Tutti elementi che, nel passaggio da un secolo all’altro, non perdono i loro motivi di interesse, ancora abbastanza trasparenti nelle loro risonanze da non richiedere un’attualizzazione per essere attuali.

Ma Il ritratto di Dorian Gray è un’opera diversa, in tutti i sensi. Non è opera teatrale, del teatro wildiano, ma romanzo, e nel passaggio verso il cinema serve un adeguamento più raffinato: non basta riprendere i dialoghi alla lettera e aggiungere un paio di ambienti all’aperto e qualche movimento di macchina (opzionale) per far funzionare la storia. Il ritratto di Dorian Gray è il romanzo cardine di un'intera poetica, dove Wilde non si mimetizza nella sua stessa maschera per raccontare una spensieratezza che dissimula il disagio, ma se ne astrae finalmente, riflette sulla maschera stessa consapevole di riflettere su di sé, come autore e come uomo. È un’opera bizzarra anche da percepire: appare complessa ad una lettura, per poi tradire una semplicità talmente ambigua da suggerire molti più livelli di quanto avrebbe potuto offrire una programmatica complessità, rivelando una visione modernamente tragica del mondo. Era quindi un romanzo da trasporre con consapevolezza, con libertà, con rispetto. Un romanzo archetipico, che rinnovava i topoi dello specchio, delle mille dualità di cui parlano da sempre i filosofi e che sperimentano da sempre gli uomini intelligenti. Il soprannaturale è soltanto apparente. Al di sotto del soprannaturale, e al di sotto del simbolismo, in Wilde c’è la presa di coscienza di un relativismo etico che a suo tempo era stato l’unica soluzione alla malattia ma che si rivela ambiguamente collegato esso stesso al male, suggerendo, nel suo fallimento, che il male non sta nella modalità morale o immorale con cui l’uomo affronta l’esistere sociale e individuale, ma è l’uomo stesso. Il ritratto di Dorian Gray è romanzo del collasso di un'intera scelta di vita, con il retrogusto del fallimento della vita stessa. Secondo Oliver Parker invece Dorian Gray è solo un bel ragazzo traviato dall’immoralità dilagante – e per traslato dal demonio – , e l’intera opera è un horror con gli scricchiolii e i colpi bassi del genere, con la volontà – esplicita fin dalla locandina – di agganciare la fetta di mercato emergente dell’ultimo decennio, quella young adult che da Stephanie Meyer in poi si è rivelata un bacino in costante aumento di consumatori di storie. D’altra parte Il ritratto di Dorian Gray è sempre stato molto ambito dalle tasche delle giacche dei liceali, il titolo in bella vista mentre si esce da scuola con l’espressione fra l’accigliato e il sardonico. Con la differenza che Stephanie Meyer ha così tanti padri che non deve rispondere a nessuno, mentre in questo caso Parker ha (avrebbe) una certa qual dose di responsabilità nei confronti dell’originale.

Del film young adult oriented Dorian Gray possiede prima di tutto la scaltra e ruffiana ipocrisia. Wilde avrebbe forse pagato per essere un ipocrita, ma non c’è mai riuscito. Il film che Parker confeziona condanna ciò che si compiace di mostrare e di cui afferma a parole la fascinazione: un trucco vecchiotto, ma se si tiene conto che tutta l’opera di Wilde si gioca proprio sul crinale etico tra l’affermazione e la verità, e sull’abisso che ci passa attraverso, il discorso sull’ipocrisia diventa meno banale che non in altri casi. L’aura di moralismo nelle infinite scene sull’orlo del softcore (mostrate però con meccanismi vagamente beceri con l’intento trasparente di eccitare l’eccitabile) è evidente fin dall’inizio, come evidente è il tentativo di porre sullo stesso piano omosessualità e omicidio, cinismo e tortura. Ed è altrettanto evidente – programmatico – che il gaudente personaggio di Henry Wotton sia soltanto un traviatore becero e malsano (salvo poi diventare un saggio vecchietto). Per Parker ci sono solo due personaggi principali: il corruttore e il corrotto, dove in Wilde c’erano un maestro che sottovalutava il male e un allievo che sopravvalutava il maestro, e tutto si piegava verso il negativo con sottile lentezza, senza che mai il male perdesse attrattiva. Vale a dire, non si tratta della stessa storia, se non ad uno sguardo piuttosto superficiale. E non si tratta semplicemente dei tradimenti del plot, con un personaggio inventato che diventa co-protagonista dell’ultima parte del film, aggiungendo la storia d’amore che mancava alla trama originale: questi sono tradimenti veniali, che inseriti su un impianto sano avrebbero potuto rivelarsi interessanti, e che comunque arrivano ampiamente fuori tempo massimo. È il progetto stesso ad usurpare il nome di Wilde. Giunto ad una sfida difficile nei confronti di quello che sembrava essere il suo autore feticcio, Parker rivela come il suo rapporto con Wilde sia solo pragmaticamente professionale. Dispiace che, stando alle regole dello star system, un mediocre mestierante abbia tolto al pubblico la possibilità di vedere Il ritratto di Dorian Gray in sala per altri quindici anni almeno.

E dispiace anche parlare di un film seguendo la linea dei suoi aspetti superficiali, ma ci sono in casi in cui diventa necessario se non si vuole andare a parlare di nulla (argomento interessante, ma solo nei casi in cui si ponga per scelta e non per carenza). Dorian Gray è uno di questi. Si può allora parlare della sceneggiatura, che sembra incapace di fluidità, che smonta i tempi (il film inizia con l’omicidio di Basil, il pittore del ritratto) nell’evidente tentativo di imitare il movimento e di creare un’atmosfera di minaccia incombente, che risolve in un paio di scene la trasformazione di Dorian Gray da cucciolo sperduto a padrone delle umane e disumane nefandezze, che procede per scossoni e salti e ciononostante si piega a una iteratività da film porno. Che fa sembrare il processo di progressione verso il male una semplice questione di cattive compagnie in bar di cattiva reputazione, che impongono al giovane innocente di bersi shottini di gin alla goccia. Che enuncia superficialmente i temi del tempo, della bellezza, dell’anima e della sua oscurità latente con un agile copia incolla dall’originale, ma elide tutto ciò che va appena oltre la soglia dell’immediata e becera comprensione primaria, e che riesce nella difficile impresa di far suonare gratuiti anche i dialoghi di Wilde. Si può parlare della recitazione di Ben Barnes con la sua bellezza troppo bimbesca per essere ambigua, che, poveraccio, ci prova a far trasparire tutta la gamma delle certezze e dei dubbi di Dorian Gray ma non può riuscirci, e incappa in una sovraespressività da mascherone; di quella di Colin Firth che possiede la presenza fisica e gestuale per rendere bene il suo Henry Wotton, ma predica nel deserto con il solo risultato di umiliare ulteriormente Barnes in ogni scena in cui compaiano insieme. Si può parlare della scenografia e della fotografia che la loro bella atmosfera la creano, e dispiace ancora di più che in questo bel mondo vittoriano e cupo e in queste atmosfere da bordello si muovano soltanto manichini. Della regia, compiaciuta fino all’esasperazione e piena di movimenti di macchina inutili e vagamente nauseanti. Di alcune cose, però non si può dire. Degli effetti speciali vecchiotti e fuori luogo, che danno la sensazione di essere mutuati da un film Hammer (la differenza è che i film Hammer non sprecavano tempo a farsi passare per cinema di qualità), non si può dire per decenza. E, soprattutto, non si può parlare di Oscar Wilde, perché, facendolo, si smetterebbe di parlare del film, con cui ha in comune poco più che i nomi dei protagonisti e la mera progressione degli eventi.

La domanda, alla fine, è: perché Oliver Parker ha scelto Wilde come costante compagno di viaggio? La corrispondenza d’intenti si può escludere a priori. Due film gradevolmente trascurabili e uno esecrabile sono la conferma che Parker non si è posto le stesse domande di Wilde, che non ha avuto gli stessi dubbi e non ha scelto la stessa strada: insomma, niente Pierre Menard. Entrano trasparentemente in gioco gli elementi meno idealistici della cinematografia: la riconoscibilità e l’abitudine. Oltre al fatto che Dorian Gray era una buona carta da giocare in un periodo di vampiri e atmosfere goticheggianti, e infatti in questo senso è stato sviluppato, né c’è da stupirsene: chi è andato a vederlo cercando altro soffre di idealismo e mancanza del senso di realtà. A meno che la soluzione sia una terza (palesemente assurda, ma abbastanza stimolante): Oliver Parker non si immedesima nella mente autoriale di Wilde, ma nei suoi personaggi, simili all’autore, certo, ma passivi, pura carne da macello per le metafore dello scrittore, costruiti per farsi carico dei dubbi e delle lacerazioni di Wilde stesso, e anche moderatamente sgradevoli. In questa visione, Parker mette in scena non un film che ha per protagonista Dorian Gray, ma un film che è Dorian Gray: come consapevole della direzione da prendere nelle intenzioni, ma solidamente attratto dal nulla nei gesti e nella pratica. Un film che gode di uno stile registico leccato ed elegante senza una vera necessità, che scivola lentamente nel sudiciume più gratuito e nella vacuità più sfrenata. Un cinema che è corpo morto, che non si adagia al male, ma ad una visione superficiale e programmatica del male (una visione corrivamente mainstream dell’argomento che dovrebbe essere, in una società di buon senso, il meno maistream fra tutti, e quindi, fra tutti, il più utile), rendendosi conto solo troppo tardi che il male è oggetto ben più profondo e affascinante, che va meritato a suo modo, e che ci si è calati solamente nella più semplice, e respingente, aberrazione. È una visione poco realistica e implausibile, ma è bello immaginarla, ed è l’unico modo per poter pensare a Dorian Gray senza provare imbarazzo.

 


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