Festival del Cinema Ritrovato: nel nome di Charlie Chaplin PDF 
Francesca Druidi   

Image È stato un Festival del Cinema Ritrovato (30 giugno - 7 luglio), giunto alla sua 21esima edizione, sotto l’egida di Charlie Chaplin, che a Bologna sta trovando - in occasione del trentennale della morte - la giusta celebrazione grazie a “Chapliniana”, la manifestazione organizzata dalla Cineteca di Bologna che allineerà, fino a ottobre, proiezioni, incontri e la splendida mostra multimediale Chaplin e l’Immagine, allestita negli spazi della mediateca Sala Borsa, unica tappa italiana di un’esposizione che, curata da Sam Stourdzé, ha già raccolto entusiastici consensi a Parigi, Rotterdam, Amburgo, Bruxelles e Losanna. Oltre 260 fotografie di scena e di set provenienti dall’Archivio dei Chaplin Studios; 19 postazioni video per un totale di quasi due ore di proiezioni; estratti di film celebri, tra cui un’esilarante scena di sette minuti tagliata dal montaggio finale di Luci della città (sintesi di molti degli espedienti comici del linguaggio cinematografico di Chaplin); documentari, filmini di famiglia e manifesti originali di grande formato e riviste d’epoca permettono di ripercorrere la progressiva costruzione del personaggio di Charlot e la crescente maturazione di un registro votato all’astrazione comica, sia davanti che dietro la macchina da presa, basata su movimenti che assurgono a coreografie e danze in virtù della loro armonicità e plasticità.

Image È la nascita e il consolidamento del mito e dell’immagine di Charlot e del suo creatore, indissolubilmente intrecciate tra loro, a rappresentare il tema conduttore dell’esposizione. Nel cartellone del Cinema Ritrovato sono state concentrate, in pochi giorni, le comiche Keystone degli anni 1914-1918 appena restaurate, i film-concerto Charlot e la maschera di ferro (1921), Il monello (1921) e Tempi moderni (1936), accompagnati dalle musiche composte dallo stesso Chaplin ed eseguite dall’orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Timothy Brock, la proiezione in Piazza Maggiore de La febbre dell'oro (1925), esaltato sempre dalle note dell’Orchestra comunale, e la presentazione del sottovalutato La contessa di Hong Kong, l’ultimo lavoro diretto da Chaplin. Interpretato da due star del calibro di Marlon Brando e Sophia Loren, il film rappresenta la personale interpretazione di Chaplin della screwball comedy classica, in cui il maestro si ritaglia il ruolo minore di uno steward del piroscafo di lusso dove è ambientata la storia. Marlon Brando interpreta il ricco diplomatico americano Ogden che, nel viaggio verso gli Stati Uniti, attende una prestigiosa nomina per la sua carriera. Sceso a terra ad Hong Kong conosce Natasha (Sophia Loren), una delle numerose profughe russe di nobile origine che sbarcano il lunario come entraîneuse, decisa a entrare a tutti i costi in America nonostante la mancanza del passaporto. Per raggiungere il suo scopo, Natasha non esita a nascondersi nella cabina di Odgen e a sfruttare fino in fondo la situazione che si presenta compromettente per il diplomatico. Odgen e Natasha nel frattempo s’innamorano, ma per salvare le apparenze l’uomo - che è infelicemente sposato con Martha (Tippi Hedren) - progetta un matrimonio di copertura tra il suo maggiordomo Harvey e Natasha per permettere alla donna di divenire cittadina americana. Ma quando la nave fa scalo alle Hawaii e al diplomatico viene affidato il nuovo incarico, che lo vedrà costretto a vivere ancora al fianco della legittima consorte, Odgen decide di liberarsi delle maschere sociali, della facciata di convenienze alle quali era ancorato per stare con Natasha. È dallo scioglimento dell’intreccio che emerge più compiutamente lo spirito della pellicola, che si propone come un violento attacco alla falsità, mettendo alla berlina l’ipocrisia dilagante che obbliga le persone a fingere di essere quello che in realtà non sono.

ImageEvento eccezionale della rassegna è stata la proiezione, sul maxi schermo di Piazza Maggiore, de La febbre dell'oro con lemusiche originali di Charles Chaplin restaurate per l’esecuzione dal vivo da Timothy Brock. Ispirato alle immagini della corsa all’oro nel Klondike e al resoconto della spedizione di George Donner, che a metà dell’Ottocento era rimasto bloccato tra i ghiacci della Sierra Nevada con un gruppo di emigranti diretti in California, molti dei quali morti di stenti e di freddo, La febbre dell'oro racconta le disavventure del vagabondo Charlot in cerca di fortuna, il quale dovrà però vedersela con l’ostilità della natura, la fame, l’amore non corrisposto verso la cantante del saloon, condividendo la lotta per la sopravvivenza con Big Jim (Mack Swain), che ha trovato una miniera aurifera. Uno dei più grandi successi di sempre del maestro inglese, che ha richiesto un anno di riprese tra scene in esterni girate nella Sierra Nevada, una serie di modellini piuttosto elaborati per l’epoca e una sapiente ricostruzione dell’Alaska in studio con decine di migliaia di metri di legname, tonnellate di gesso, sale e farina. Una pellicola dove la poetica di compenetrazione tra tragico e comico di Chaplin raggiunge un livello di perfezione formale assoluta nel rileggere il mito della frontiera americana, attraverso l’uso traslato degli oggetti che si riflette in una serie di invenzioni geniali che s’incastonano nel discorso filmico, esorcizzando la solitudine, la povertà, gli stenti. Come non menzionare i lacci dello scarpone di Charlot che diventano gustosi spaghetti, la celeberrima danza dei panini oppure la capanna che pende pericolosamente sul baratro del burrone.

ImageRestauri internazionali, cinema delle origini, la magia del Cinemascope, grandi omaggi (quest’anno le retrospettive sono state dedicate agli ultimi muti americani di Michael Curtiz e alla danese Asta Nielsen, prima vera stella del cinema europeo) e documenti rari che mantengono immortale l’eredità del cinema, alimentano le differenti sezioni del festival, da “Ritrovati e restaurati” (tra cui la prima co-regia di Federico Fellini con Alberto Lattuada, Luci del varietà del 1950 sui lustrini ma anche sui fallimenti che si celano dietro al mondo del varietà rappresentato dal personaggio di Checco Dalmonte/Peppino De Filippo) ai film di cent’anni fa, e più precisamente del 1907, dai romanzi popolari di Raffaello Matarazzo alle geografie del melodramma internazionale, nel quale spicca il maestro americano Frank Borzage, all’apice del suo stile nel racconto musicale I’ve Always Loved You (1946) scritto da Borden Chase e musicato da Rubinstein: storia d’amore e di gelosia tra un maestro e la sua allieva pianista che riescono a comunicare a distanza attraverso la musica, veicolo dell’anima, realizzata in un crescendo visivo, cromatico e sonoro, teso a coinvolgere emotivamente lo spettatore.

Image Ospite d’onore è stato Ben Gazzarra, che ha presentato alcuni film cardine della sua carriera, frutto di un percorso artistico che dagli studi presso l’Actor’s Studio - dove era nella stessa classe di James Dean, Paul Newman e Steve McQueen - lo ha portato ad essere diretto da John Cassavetes, che in Faces (proiettato in Piazza Maggiore) ebbe modo di esercitare il suo innovativo lavoro, distante dal Metodo, sui volti e sui corpi degli attori. Alla rassegna bolognese è stato presentato l’esordio sul grande schermo di Ben Gazzarra in The Strange One (1957), primo film di John Garfein tratto dal romanzo di Calder Willingham, End as a Man, in cui l’interprete americano incarna l’arrogante e infimo sergente Jocko DeParis, uno degli allievi anziani di una scuola militare del sud degli Stati Uniti, che sfrutta la sua furbizia e arroganza per sottomettere ai suoi voleri i cadetti più deboli e far espellere il figlio del maggiore che ha osato riprenderlo. Una performance di grande intensità al servizio di una parte decisamente sgradevole, da cattivo in piena regola, voluta dallo stesso Ben Gazzarra, che avrà occasione in seguito di lavorare con uno dei miti della Hollywood dei tempi d’oro: James Stewart, protagonista di Anatomy of a Murder (1959), uno dei capolavori di Otto Preminger, visto al festival nella sezione “Ritrovati e Restaurati”. In questo dramma processuale appassionante basato sul potere della parola, esplicito nel linguaggio, dove la verità rimane ambigua, Stewart è l’avvocato caduto in disgrazia Paul Biegler, la cui abilità però non è mai venuta meno. E che avrà modo di dimostrarlo quando viene invitato ad assumere la difesa del tenente Manion, un Ben Gazzarra calato di nuovo in un ruolo ambiguo, quello di un militare accusato dell’omicidio di un barista, Barney Quill, che aveva violentato la sua provocante moglie.

ImageIl Cinemascope ha fatto rivivere i fasti del “Cinema più grande della vita” in Sabato tragico (1955) di Richard Fleischer, primo film della Fox girato in Cinemascope e a colori con Ernest Borgnine, Sylvia Sidney, Victor Mature e Lee Marvin; un teso e atipico gangster movie filtrato dal ritratto dei vizi nascosti dal perbenismo di una città mineraria dell’Arizona e delle dinamiche familiar-sentimentali dei suoi abitanti: un ingegnere che ha deluso suo figlio; un ricco imprenditore alcolizzato tradito dalla moglie che ancora ama; il direttore di banca voyeur ossessionato dalla bella infermiera e un amish che pratica la non-violenza, ma che sarà costretto a rivedere i propri valori. La sorte di tutti questi personaggi è destinata a intrecciarsi in modo drammatico durante la sanguinosa rapina in banca messa in atto da tre malviventi, che costituiscono il motore scatenante delle rivelazioni. Nella stessa sezione è stato inoltre presentato il fulgido, violento e crudo noir Il dominatore di Chicago (1959) di Nicholas Ray, ambientato nel sottobosco gangster degli anni Trenta. Il boss della criminalità Rico Angelo (Lee J. Cobb) entra in conflitto con il suo avvocato (Robert Taylor), che ha deciso di uscire dal giro e cambiare vita perché innamorato della bellissima ballerina di un club (Cyd Charisse). La contaminazione tra i generi - incluso il musical e il melodramma - e un uso fortemente espressionistico del Technicolor, dove a dominare sono le tonalità rosso e viola, lo rendono un peculiare gangster movie, non privo comunque di sequenze brutali tipiche del genere.

ImageOltre al cukoriano Sangue misto (1956), protagonista un’esotica Ava Gardner, ha suscitato interesse La porta della Cina (1957) dell’anarchico Samuel Fuller, atipico melodramma bellico in bilico tra violenza dei combattimenti e riflessioni umane, concentrato sulla storia di amore e odio tra l’euroasiatica Lia “Lucky Legs” (A. Dickinson) e un sergente americano razzista della legione straniera (G. Barry), che si rifiuta di riconoscere il figlio nato dal loro matrimonio perché meticcio. Il tutto avviene sullo sfondo della guerra in Indocina, con il fronte russo-francese da una parte e quello dei Viet Minh dall’altra, che Fuller appoggia tacitamente, facendo lottare Lia affinché il figlio cresca a tutti i costi in America.

ImagePunta di diamante della rassegna è stato, infine, il capolavoro di fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel che, senza ricorrere a invadenti effetti speciali, crea un’atmosfera di incombente angoscia e suspence per la progressiva disumanizzazione degli abitanti di Santa Mira, sostituiti durante la notte da cloni privi di emotività e sentimenti che crescono in baccelli extra-terrestri pronti a invadere il mondo. Solo il dottor Miles Bennell (McCarthy) si fa portavoce, dapprima inascoltato, del pericolo a cui va incontro il pianeta. Interpretato come un atto di accusa nei confronti del comunismo, così come della caccia alle streghe maccartiste, L’invasione degli ultracorpi è un teso e feroce ritratto delle conseguenze dell’omologazione, reso ancora più inquietante dal fatto di essere calato in un contesto di familiarità e quotidianità come la “rassicurante” provincia americana. Un cult che ha segnato il termometro delle paure di un’epoca della storia americana.

 


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