“Il mio lavoro è rimasto sempre incatenato alla medesima ciotola di vomito”. Così era solito rispondere, un ventennio fa, un allampanato e allucinato Nick Cave a chi gli domandasse quali fossero gli sviluppi del suo lavoro. Cambiando l’aggettivo dalla prima alla terza persona, la sprezzante boutade del bardo di Melbourne può essere ripresa e adoperata a mo’ di feroce sentenza rivolta alla filmografia di Dario Argento. Prendo atto della spietatezza e del livore del giudizio valutativo, ma ne riconosco anche la pertinenza se messo in relazione agli ultimi capitoli del percorso cinematografico di Argento, un’inarrestabile parabola discendente cominciata con Non ho sonno e momentaneamente conclusasi con Giallo, il film più povero e piatto tra tutti i suoi ultimi lavori.
Sarebbe intellettualmente scorretto imputare ai disastri produttivi, a cui hanno fatto seguito illogiche scelte distributive (il film esce in sala a due anni di distanza dal lancio in dvd), la piena responsabilità dei risultati disastrosi. Dovrebbero invece fare ammenda coloro che, con licenziosità, si ostinano a difendere strenuamente, per mezzo di sperticate provocazioni esegetiche, l’operato del regista qui in questione. È doveroso affermare che Argento, guadagnatosi per indiscutibili meriti di essere incluso nel Pantheon dei grandi autori, stia attraversando una fase di declino. Non è che per il credito conquistato debba essere considerato un intoccabile, come se avesse raggiunto una sorta di status di inamovibilità. È, ora, un regista incapace di guardare al di fuori della propria produzione cinematografica, vittima della sua stessa cifra stilistica. È come se fosse in preda ad un sostanziale ripiegamento ombelicale, ad un delirio solipsistico che, nel concreto, si traduce in una costante pratica autocitazionista. Un’autoreferenzialità che sembra nascondere un’incapacità di ridare profondità al proprio sguardo. La sua recente produzione si riduce ad essere un compendio delle proprie marche registiche. Quindi, la si smettesse di scrivere che con Giallo, e i lavori immediatamente precedenti, Argento intende rinverdire i fasti degli anni Settanta, omaggiare il proprio mondo espressivo.
Bisogna innanzitutto cominciare col dire che anche i celebrati capolavori di quel decennio non sono esenti da difetti. La tenuta narrativa è sempre stata il punto debole del cinema di Argento, assieme alla direzione degli attori. Come egli stesso ha dichiarato, il suo modus operandi parte dall’elaborazione della struttura delle sequenze “criminali”, e attorno a queste costruisce poi il plot. Un metodo di lavoro che è causa di un frequente dissiparsi dello sviluppo logico. Trame di sconcertante ingenuità (con l’eccezione di Profondo rosso, uno dei pochi film ben scritto, grazie alla sceneggiatura di Bernardino Zapponi) sostenute però da una ricerca espressiva costruita attorno ad un claustrofobico décor espressionista, lenti anamorfiche che esasperano la distorsione dell’immagine, e saturazione dei colori in chiave pop, che spalanacava le porte ad un'allucinazione visiva psichedelica, densa e morbosa. Una cifra stilistica capace di insinuare e far scorrere nelle larghe trame del tessuto narrativo un senso di crescete paranoia. A questo andava ad aggiungersi il sadismo voyeuristico, un montaggio virtuosistico di dettagli al ritmo spesso angoscioso e martellante della musica e, soprattutto, l’invisibilità dell’assassino mostrato solo metonimicamente con dettagli del corpo. È la ricercatezza formale che ha reso grande il cinema di Argento, il suo stile capace di comunicare molto più del precario elemento drammaturgico.
Con Giallo, Argento dimostra di non essere ancora riuscito a risolvere i propri difetti in fase di sceneggiatura. Lo script è claudicante, di disarmante inconsistenza dialogica e fragilità narrativa. A Torino una serie di morti violente sta tenendo in scacco la polizia. A far credere che possa trattarsi di anelli della stessa catena sono i tratti che accomunano tra loro le vittime. Giovani, straniere, belle. Tutte ritrovate sadicamente sfigurate. Ad indagare l’agente Enzo Avolfi (Adrien Brody), cane sciolto della omicidi, affiancato nelle indagini da Linda (Emmanuelle Seigner), sorella di una modella francese misteriosamente scomparsa. Personaggi ridotti ad anonime pedine che si spostano meccanicamente con logiche e dinamiche di rara prevedibilità. I temi di fondo sono i soliti della produzione thriller di Argento: un trauma infantile, legato ad un delitto, che continua a lasciare scorie in un presente perturbato; il ribaltamento di ruoli e il disvelamento d’identità (a questo riguardo si faccia attenzione anche ai credits, si provi ad anagrammare il nome dell’interprete del serial killer, tale Byron Deidra). D’accordo che, come s’è più sopra scritto, la trama non conta, ma il problema è che il regista sembra ormai aver irrimediabilmente perso la sua creatività tecnico-stilistica. Incapace addirittura di riproporre uno dei suoi classici stilemi, l’estetizzazione dell’ammazzamento, preferendo consegnarlo al fuori campo, rinunciando a quella vicinanza con il delitto con cui sembrava quasi cercare un effetto sinestetico, di far uscire il sangue dallo schermo e raggiungere, col suo fiotto, il volto dello spettatore. Il film è stilisticamente piatto, paratelevisivo. Anche il tanto acclamato ritorno a Torino non è poi supportato dal fascino delle immagini, che ci si aspettava restituissero una città dipinta a tinte fosche, dai colori inesorabilmente cupi e che invece finisce per essere totalmente anodina. Giallo è davvero un film indifendibile.
TITOLO ORIGINALE: Giallo; REGIA: Dario Argento; SCENEGGIATURA: Jim Agnew, Dario Argento, Sean Keller; FOTOGRAFIA: Frederic Fasano; MONTAGGIO: Roberto Silvi; MUSICA: Marco Werba; PRODUZIONE: Italia/USA; ANNO: 2009; DURATA: 92 min.
|