TFF 27/Festa Mobile PDF 
Aldo Spiniello   

Quest’edizione del Torino Film Festival ha regalato agli appassionati la sua “Festa Mobile”, multiforme e caotica panoramica sul cinema contemporaneo. Una sezione in cui è stato presentato di tutto e di più: le anteprime più attese, i film già passati nei grandi festival internazionali, i grandi nomi (Coppola e Kusturica, Wes Anderson) e i giovani registi, le perle del passato (Scarpette rosse e Rusty il selvaggio) e quelle del presente. Certo, la suddivisione in due sottosezioni, “Figure nel paesaggio” e “Paesaggio con figure”, è a suo modo una linea di percorso, un tentativo di addentrarsi nei nuovi orizzonti, sempre più sfumati, della fiction e del documentario. Ma l’impressione, a tratti, è stata quella di un’assoluta casualità della selezione, soprattutto se paragonata ad altre sezioni decisamente più coerenti, come “Onde”.

Eppure, forse, proprio questo carattere aperto ha permesso a ognuno di seguire un sentiero privato, in cui ritrovare le proprie intime ossessioni. Perché le folgorazioni non sono mancate. A cominciare dal genio inquieto di Mendoza, che con Kinatay (premio per la miglior regia a Cannes) dà l’ennesima prova di un cinema che, quasi costretto, si confronta con un mondo caotico, brulicante di corpi, suoni, rumori. Lo sguardo sembra sempre sul punto di smarrire l’obiettivo e la lucidità della prospettiva. Si affanna ad inseguire il senso, addentrandosi nella densità spiazzante del reale. Il cinema è ancora una volta un campo di battaglia, in cui ci si aggira, a fatica, con la macchina a spalla, nel disperato tentativo di seguire i personaggi e non perdere di vista il racconto, costantemente “minacciato” e ostacolato dall’imprevedibilità della vita, di ciò che è prima (o dopo) l’immagine. È la rivolta del profilmico, che invade il quadro e ne fa saltare i confini. E proprio quando la messa a fuoco appare definitiva e la battaglia sembra definitivamente vinta, Mendoza ci costringe ad un altro spiazzamento. S’immerge nella notte cupissima di Manila e nella deriva agghiacciante di una storia che sembra affiorare dall’inferno di un’umanità condannata. Nell’immagine sgranata delle strade buie i nostri occhi si smarriscono ancora una volta, al pari del giovane protagonista, Peping, accecato dalla vista straziante dell’orrore. La prostituta smembrata pare venir fuori da un horror di serie B e Kinatay, per un attimo, si distacca dal realismo precario per affondare nei meandri del genere. Mendoza mantiene gli occhi fissi sulla realtà, ma pare trasferirla in un immaginario popolato da incubi. È il segno dell’irriducibile vitalità di un cinema e dell’irrequietudine di un regista che si mette una volta di più in gioco, con una sincerità e una potenza disarmanti. Come dimostra il successivo, splendido Lola (presentato a Venezia), un’altra deviazione, un altro scarto a lato, che guarda verso orizzonti di un doloroso lirismo.

Altra perla di questo Torino Film Festival è l’intenso Welcome del francese Philippe Lioret (Mademoiselle, Je vais bien, ne t’en fais pas), già passato in una sezione collaterale della Berlinale. Il film racconta la storia di Bilal, un giovane profugo curdo, che, giunto a Calais, cerca in tutti i modi di passare il Canale della Manica per raggiungere l’Inghilterra e la ragazza che ama, Mina. Ma per un clandestino non c’è modo di compiere la traversata legalmente. A Bilal non resta che un’idea folle: attraversare il canale a nuoto. L’unico disposto ad aiutarlo nell’impresa è un burbero istruttore di nuoto, Simon. Welcome è un altro viaggio nella nostra contemporaneità disperata. Il freddo grigio del porto di Calais è lo specchio di un mondo in cui la solitudine e l’indifferenza sembrano elementi naturali. Lioret lavora sul tema dello “straniero” in tutte le chiavi possibili, politica, razziale, esistenziale, ed è sul tessuto dolente di una comune solitudine che disegna la trama fragile e delicata dei legami. Simone e Bilal s’incontrano e si comprendono nel nome di un amore impossibile: quella del giovane per Mina e quello dell’uomo per la moglie da cui sta divorziando. È l’amore che li segna e li muove, che li accomuna nella speranza e nella frustrazione e fa saltare barriere, steccati, diffidenze, leggi. Almeno per un attimo. O forse per sempre. Lioret incontra la meraviglia di certo cinema francese (Cantet su tutti), un cinema politico nella misura in cui è esistenziale, riesce a scavare nei cuori, nei silenzi che punteggiano i rapporti e i sentimenti. E il film trova i suoi momenti d’intensità lacerante soprattutto nell’interpretazione straordinaria di Vincent Lindon, che con la sua voce ruvida apre tutto un mondo e un vissuto. Altro film francese che scava nella precarietà dei legami e nelle solitudini è Le refuge di François Ozon, vero e proprio monumento a Isabelle Carré, che illumina di sé ogni singola immagine e non ha paura a mostrarsi in tutto il suo splendore di donna non ancora madre. Ozon guarda al meraviglioso mistero di un corpo che vive al tempo di due battiti. Scopre la risposta al lutto e alla perdita nascosta nel grembo materno, motore del mondo e dell’amore. Eppure confessa, con amara rassegnazione, che l’impossibilità di prendersi cura di un’altra vita assomiglia a un atto di responsabilità. Lo sguardo si concentra sulla pelle e sulle superfici, come nello splendido inizio in cui la Senna e le luci notturne si riflettono sui vetri dei palazzi. E così il cinema sembra farsi tattile, un occhio che accarezza i corpi e li scopre vibrare nell’ansia di un contatto.

Madri e figli, padri desiderati o odiati, cercati o mancati. Scie di sangue che scorrono a dar nutrimento alle passioni, ai desideri e alle paure. Perché come sempre il mondo si racchiude nei fragili ed inscalfibili legami di una famiglia. Un’idea eterna, che però torna sempre più come un’ossessione e attraversa gran parte del (miglior) cinema contemporaneo. Fino a mostrare, ovviamente, i suoi riflessi anche nei due film più attesi di quest’edizione del Torino Film Festival: Fantastic Mr. Fox e Tetro. Wes Anderson porta sul grande schermo un racconto per l’infanzia del grande Roald Dahl. Tenta la carta dell’animazione (in stop motion), cambia in qualche modo rotta eppur non si allontana dal suo nucleo emotivo e poetico. Fantastic Mr. Fox è l’ultimo tassello di un unico universo familiare e sentimentale, sgangherato e umanissimo, ironico e malinconico. Anderson dà solo nuovo forma alle ossessioni di sempre e ci parla di quei piccoli grandi slanci di tenerezza, di quelle divisioni e riconciliazioni che sono il nostro pane quotidiano. E la favola è solo un altro dei suoi mondi perfettamente chiusi, eppure magicamente aperti, l’ennesima declinazione di un immaginario e di un universo narrativo e visivo unico. Potrà piacere o meno, ma la coerenza è fuor di dubbio. Perché guardando dietro la maschera fiabesca, ritroviamo quei personaggi eccentrici ed esemplari che attraversano il cinema di Anderson. Da un film all’altro e dal cinema a noi, in un osmosi irrefrenabile e continua. Le voci sono quelle degli amici di sempre, Bill Murray, Jason Schwartzman, Willem Dafoe, Roman Coppola, Adrien Brody, Owen Wilson …  che ci rassicurano che nulla è cambiato. E, nonostante i nuovi arrivati (fantastico George Clooney che dà voce al protagonista), riconosciamo tutti e rivediamo noi stessi, le nostre inquietudini e i nostri amori. Il cinema ci riporta a casa e i mondi chiusi si aprono per confluire in una sola visione, in una sola famiglia, nel gioco inesausto dei ricordi e delle invenzioni. E proprio il gioco dei ricordi e delle invenzioni è la cifra di Tetro, l’ultimo scatto in avanti di Francis Ford Coppola. Il richiamo a Rusty il selvaggio è esplicito già a partire dal magnifico nitore del bianco e nero. E, ancora un volta, protagonisti sono due fratelli, uniti contro e per il padre, genio della musica che con la sua ombra ingombrante non fa che oscurare anche il destino dei figli. Coppola attinge all’autobiografia e fa deragliare la storia della famiglia Tetrocini lungo le traiettorie di un melò, che incendia di passione e sangue il bianco nero e fa scintillare i ghiacciai al sole. Il cinema brucia e ogni immagine assomiglia a una resa dei conti. Con il cinema stesso, come sempre. Con la cecità di chi lo guarda e di chi lo fa. Una resa dei conti contro le gabbie istituzionali, critiche, narrative. Coppola, come sempre lanciato, sino ai limiti dello sperimentalismo, è vent’anni avanti i critici, gli spettatori, gli altri registi. Ma nello stesso istante in cui corre avanti, guarda indietro, al cinema amato, ai capolavori di Powell e Pressburger, I racconti di Hoffmann e Scarpette rosse. Se il presente è morto, allora non resta che aggrapparsi alla fiamma di un immaginario passato. E proprio in questo senso Tetro non è molto distante dall’ultimo miracolo di Tarantino, Bastardi senza gloria. È fuoco che brucia lo schermo e il cinema tutto.

La fiammeggiante bellezza di Scarpette rosse, miracolo di invenzioni visive e di magiche e fatali ossessioni, riproposto dal TFF per volontà dello stesso Coppola, offre l’aggancio per un altro dei temi sotterranei di questa “Festa Mobile”. L’immagine e la musica. Rapporto originario che ritroviamo in altri film di questa edizione. A cominciare dall’irriverente Le Donk & Scor-Zay-Zee di Shane Meadows, regista inglese ormai cult. La forma è quella del documentario, ma è solo una parvenza, una costruzione ad arte. In realtà, il film è un gioco “privato” tra Meadows e il suo protagonista, un incontenibile Paddy Considine (Cinderella Man, The Bourne Ultimatum, Hot Fuzz) nei panni di un musicista fallito che insegue l’ultima speranza di successo aggrappandosi a un giovane e debordante rapper bianco, Scor-Zay-Zee (Dean Palinczuk). Meadows sta attaccato al suo protagonista ed è quasi sempre in campo. Realtà e finzione si mescolano e si riflettono all’infinito e il meccanismo si cela e si svela ad ogni istante. Ma le suggestioni teoriche rimangono quasi fuori campo, cedendo il passo al ritratto tenero e divertente di un loser dal cervello in panne e dal cuore d’oro. E il film regala delle impennate di intensità sorprendente quando Meadows trova il magico e fluido punto di contatto tra le immagini e le musiche. Come nella sequenza finale, in cui i due eroi festeggiano, malinconicamente, il loro unico successo. 

E la musica è al centro anche di due grandi documentari presentati nella sezione “Festa Mobile”. Il primo è Oil City Confidential, l’ennesimo ritorno di Julien Temple sulle macerie gloriose del punk inglese. Dopo i Sex Pistols e i Clash di Joe Strummer, Temple si concentra su un’altra storica band della scena musicale britannica, i Dr. Feelgood, nati agli inizi degli Settanta in una cittadina dell’Essex nutrita e asfissiata dall’industria petrolchimica. I fantasmi dell’industrializzazione forzata si mescolano ai fantasmi di un immaginario rock-pop votato, a suo modo, a riflettere e rielaborare il reale. Petrolio e musica si incontrano lungo un sentiero nascosto di piombo e furore. Temple racconta la storia di un band per ricordare, di rimando, quella di una città. E così il suo cinema necessario, scavando nella memoria delle immagini sepolte, giunge a riportare a galla i suoni e le visioni di un “altro” tempo della working class e della cultura popolare. O meglio i suoni e le visioni di una nazione intera. Ed è la stessa sensazione che corre dinanzi alle immagini di Neil Young Trunk Show, secondo splendido omaggio di Jonathan Demme al “cuore d’oro” di Neil Young, nuovo, vecchio Johnny Guitar che attraversa, con la sua voce e le sue corde, le storie e lo spirito di un’America struggente e vitale. Il film (già presentato lo scorso anno a San Sebastian) documenta il concerto del cantautore statunitense al Tower Theatre di Upper Darby, in Pennsylvania. Demme segue l’esaltante performance con sette camere da presa, che si muovono sopra e sotto il palco, dentro e fuori il teatro, con una libertà frenetica che è il segno dell’ansia di catturare nell’immagine l’unicità del gesto creativo. Sul palco Neil Young e la sua band incantano con i vecchi e i nuovi capolavori (Cowgirl in the Sand, Cinammon Girl, Like a Hurricane, Sad Movies, Ambulance Blues, Mexico, No Hidden Path e The Believer). E lì accanto, al riparo oltre le luci, Demme e la “sua” band creano il loro concerto parallelo, in una specie di silenzioso canto e contro canto. Primi piani e dettagli, split-screen e fuori scena, angolazioni impossibili tra le mani del pubblico e movimenti fluidi a seguire. La nitidezza del digitale a tratti si sgrana, come ad accompagnare un flusso emotivo inarrestabile e ininterrotto. Ogni inquadratura è un vibrante assolo e il montaggio incontra la nota come in un accordo perfetto. E lo sguardo, “costretto” all’improvvisazione, ridà vita alla magica perfezione di un cinema, in cui la tecnica si scioglie e muore nella necessità della passione.  

 


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