Dichiariamolo subito, onde evitare di doverlo sottintendere implicitamente nelle righe che seguono: il musical non è il genere (cinematografico) preferito di chi scrive. Strano, si dirà, per una donna non più giovanissima, romantica quanto basta e amante della musica. E, premesse provocatorie a parte, Les Misérables non fa affatto eccezione. Ingente produzione firmata dal regista inglese de Il discorso del Re, il film è la trasposizione su grande schermo del musical di Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil, tratto dall’opera di Victor Hugo. In quasi totale assenza di dialoghi “parlati”, il film ripropone la storia di riscatto di ottocentesca memoria attraverso la scelta coraggiosa di far comunicare i personaggi esclusivamente (o quasi) attraverso il canto (molto meno attraverso la danza). La scelta è davvero impavida dato che gli attori cantano in presa diretta, con risultati in alcuni casi mediocri, a favore di un’espressività decisamente più smaccata rispetto a delle esibizioni in playback. Tuttavia, di certo, l’intonazione poco accademica di Russell Crowe (su tutti) e compagnia non è il male maggiore dell’intera operazione che l’Academy ha deciso di nominare e forse far trionfare durante l’imminente cerimonia di premiazione degli Oscar.
La pellicola, probabilmente, paga la diretta referenza nei confronti di una fonte autorevole come il romanzo di Victor Hugo, che regista e sceneggiatori ereditano enfatizzandone il già ben presente gusto di fondo per il patema. Ne consegue un racconto faticoso, le cui grandi potenzialità insite nel messaggio universale di riscatto sociale e umano si riducono fortemente, stritolate dalle scelte di genere e di messa in scena. Il film soffre non poco nelle scene in cui l’accento è volutamente fatto ricadere sul dramma personale e umano dei suoi protagonisti, spesso esplicitato nei monologhi che Tom Hooper registra affidandosi quasi totalmente all’esibizione/interpretazione dei suoi attori. Qui, evidentemente, si nutre un’estrema fiducia nei confronti di un genere come quello del musical classico, in cui le parti cantate sono il veicolo con cui l’eroe esprime al meglio i propri pensieri, desideri e inclinazioni. Ma, forse, nel caso de Les Misérables, quella di Hooper è una fiducia mal riposta. Si ha la sensazione che qui, più che altrove, il musical “classicamente inteso” abbia fatto il suo corso e possa davvero vivere solo laddove è in grado di rinnovarsi e farsi davvero genere (meta)cinematografico. Non è un caso allora che le scene meglio riuscite siano quelle di massa, in cui il montaggio “costruisce” la messa in scena piuttosto che relegarla a un alternarsi di primi piani ravvicinati. La sequenza nella locanda dei Thénardier (inarrivabili Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen), in questo senso, è una delle più riuscite. Montaggio, canto e movimento degli attori costituiscono un unicum, in una sintesi complessa e perfetta. La stessa sintesi che ritroviamo nell’iniziazione di Fantine (una provata Anne Hathaway) e, soprattutto, nelle sequenze d’apertura e chiusura della pellicola.
A voler essere pignoli, in Les Misérables, si riscontra anche una mancanza di verosimiglianza, che Hooper forse cerca di colmare con l’uso della steadycam. Ma, a dirla tutta, non è poi un gran problema. La colpa più grande del film resta l’incapacità di accrescere e potenziare la forza dei temi toccati da romanzo e musical, come la crisi di coscienza, la misericordia cristiana, l’impossibilità di riscattarsi da un errore che cambia una vita per sempre. Se temi come questi sembrano lontanissimi dai nostri giorni, non è solo perché la vita politica, sociale ed economica del nostro Belpaese (per esempio) ne sono più che mai distanti. È il film stesso a farceli apparire come già trapassati, incapace di instillare nelle sue forme il vigore che il genere musical era deputato a conferire e che invece, a causa delle scelte precise verso una forma ben definita e per certi versi classica, finisce per esasperare eccessivamente. Probabilmente l’intera, mastodontica operazione avrebbe avuto più compiutezza se anche solo una parte delle scelte in termini di messa in scena, montaggio e regia avessero guardato più verso un certo gusto per la postmodernità che verso il passato. Un modello su tutti? Chicago di Rob Marshall.
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