TFF 29/Cinema e cinemi PDF 
Ottavio Plini   

Per la sezione Cinema e cinemi, dedicata ai cult del passato, Gianni Rondolino ricorda il da poco defunto Ansano Giannarelli, con cui fondò il festival nel 1982. Ricorda di come fosse inizialmente consacrato ai giovani, e che per lungo tempo, anche dopo aver cambiato nome, ha ospitato una sezione dedicata alla rassegna di corti liberamente inviati, prima di questa svolta più mondana su cui noi o Rondolino eludiamo giudizi pur riconoscendone la dignità per la città (visti i commenti dei registi premiati o ospiti che hanno in genere voluto gratificare l’incanto nascosto del capoluogo subalpino). Non ho tempo, biografia di Evariste Galois, matematico fra i più giovani della storia (classe 1811, morì in duello a 21 anni ma lasciò un’eredità di intuizioni straordinarie), è forse il film di Giannarelli più famoso o perlomeno personale (era egli stesso figlio di un matematico), degno di nota nell’affrontare con sperimentazione ardita e inaspettata, in bianco nero e con mezzi alternativi, un genere della portata del biopic.

Sostanzialmente vediamo, non intervallati e con stravagante e spiazzante continuità, documentario e fiction, come nella scena in cui un magistrato tiene una lezione davanti alla macchina da presa sul controverso reato d’opinione (tuttora in auge), e in quella immediatamente successiva dà inizio all’udienza contro Evariste per un reato dello stesso genere. Evariste, infatti, nonostante i risultati raggiunti a così tenera età, non era quel che si sarebbe detto uno studioso chino sulle sue carte, ma un fervente rivoluzionario di fede robespierrista che nel periodo della Restaurazione aveva partecipato, con molti suoi compagni d’arme e anche colleghi di studi, alla cacciata della monarchia borbonica di Carlo X tre giorni dopo che ebbe soppresso la libertà di stampa (la Rivoluzione di luglio, siamo nel 1830); ma, assolto dal processo, venne comunque reimprigionato in seguito e, poco dopo la scarcerazione, fatto fuori in circostanze non chiare (ufficialmente si trattò di un duello per ragioni d’amore, ma c’è chi dubita). Il titolo del film prende spunto da quel che scrisse ripetutamente lo stesso Evariste la notte prima del temuto duello, quando cercando di riordinare gli appunti sulle sue scoperte, mentre l’ora del destino si avvicinava, aggiungeva alle pagine l’ansiosa annotazione .

In estrema sintesi, possiamo considerare quel che Galois ci ha lasciato come un’anticipazione dell’algebra astratta, ossia volta allo studio di insiemi strutturati secondo leggi particolari (al contrario dell’insiemistica semplice), come campi, anelli, gruppi, e così via, da cui avrebbe preso le mosse la grande rivoluzione di metà Ottocento, col tentativo di fondare una teoria universale degli insiemi da parte di Cantor, e, dalla di lui fallacia, eventi filosoficamente famosi come il paradosso di Bertrand Russell o il teorema di incompletezza di Godel, che hanno reinventato il nostro stesso modo di concepire il linguaggio. Tutto questo è possibile che fosse in nuce in Galois, e la leggenda riferisce di come, appassionato a tal punto di problemi teorici, mal sopportasse i normali esercizi di soluzione delle equazioni e si rifiutasse di eseguirli. Anche per questo motivo venne ignorato dal mondo accademico, e per ragioni non del tutto chiare illustri pensatori scientifici dell’epoca vennero a contatto con lui e i suoi scritti senza maturare alcun particolare interesse: forse per la loro esposizione contorta, forse per la distrazione degli esaminatori cui venivano continuamente sottoposti nuovi studi, forse per la cattiva reputazione del soggetto. Il film ovviamente fornisce spunti senza addentrarsi nella teoria, e il cinema non si azzarda sovente dalle parti di un Foster Wallace che poteva inserire una formula nel sistema predicativo di second’ordine ovunque lo trovasse gustoso. Piuttosto prende gusto a seguire le peripezie politiche di Galois, abbandonandosi persino a facili slogan come forse può esser successo a tanti contestatori. Il finale si fa in tal modo più tentennante e prolisso nel giungere all’inevitabile (e annunciato in partenza) epilogo. Val infine forse la pena suggerire un parallelo col coevo Allosanfan dei Taviani, presentato da Ascanio Celestini nella sezione Figli e amanti: il comico-attore-regista-opinionista non ha rinunciato a una simpatica esibizione spensierata, ma come spesso succede a chi viene invitato non ha spiegato il motivo della sua scelta (come si è divertito a non spiegare perché ha fatto teatro o perché ce l’avesse con Tarantino), anche se sospetto pare il parallelo nei contenuti di rivoluzione politica che animano tanto il presentatore quanto il film presentato. Evidentemente però, mentre Fellini “danzava” o sognava, andava di moda nel cinema del tempo una forte componente di critica, non tanto sociale, ma utopista, su cui però si allungava l’ombra perniciosa della retorica.

L’anziano solenne critico, saggista, professore, organizzatore culturale Adriano Aprà aveva già all’attivo un lungometraggio e qualche lavoro da documentarista, attore o sceneggiatore, ma non è improvvisamente tornato alla regia suonati i 71 anni; sostiene però di voler cercare e sperimentare nuove vie al dire-cinema che non siano il sempre più invadente scriverne sopra: come si può, si domanda il professore, osare tradurre in parole la magia ricercata dell’immagine in movimento? Era lo stesso interrogativo senza risposta di chi realizzava che esaminare della musica non fosse la stessa cosa che comporla. Ma ora che le tecnologie rendono più fattibile il montaggio di immagini, Aprà tenta due “videorecensioni”, rispettivamente su Il conformista di Bertolucci e su I clowns di Fellini, acclusi dentro i relativi dvd nella sezione riservata ai backstage: il risultato non è esattamente banale, intanto perché la banalità dei contenuti extra generalmente inclusi nei dvd rende la spesa extra tutt’altro che allettante; poi perché, particolarmente il secondo, non è uno dei soliti compiti freddi, “all’ombra” dell’autore. In All’ombra del conformista Aprà si limita soprattutto a ripercorrere, mescolando intervista e scene, i tasselli che hanno finito col forgiare la perfezione del capolavoro dell’allora 29enne cineasta pasoliniano: il labirintico montaggio che mescola piani temporali differenti, firma del montatore Franco Arcalli, morto giovane ma famoso per il suo stile che si è espresso dalla loro prima collaborazione; le bizzarre inquadrature spesso improvvisate in assenza di storyboard; l’interpretazione di Trintignant che ha irrorato il film di tocchi da commedia; il reparto costumi che faceva invidia all’inattingibile Visconti; la patinata fotografia giocata sull’esasperazione dei caldi e dei freddi; soprattutto la sceneggiatura, alimentata dalle differenze introdotte da Bertolucci rispetto al romanzo dell’amico Moravia, con sfumature psicologiche forti, pur discutibili (socialmente inadeguate a spiegare i fascismi ma incentrate sulle pulsioni individuali), e il finale oniroide che sostituisce alla morte del protagonista il regresso del suo shock (il conformismo è in realtà frutto di un profondo disagio interiore di cui s’indagano le torbide, traumatizzanti cause che pongono il conformista e la conformista in parallelo; senza tralasciare la suggestiva messa in immagini del mito platonico della caverna, che all’autore ricorda il cinema stesso).

Ancora più malioso il lavoro svolto su I clowns di Fellini (Aprà si dichiara non felliniano, ma considera questa fatica, pur anticonformisticamente, televisiva tra i suoi capolavori). Ci mostra le sequenze metacinematografiche del film (Fellini che, autoironico, gira con una troupe sgangherata, che include Alvaro Vitali, per realizzare un documentario sulla storia del circo, mentre ancora una volta, sul limite dell’affettazione, parla dei suoi soggettivi sogni sul circo, con giustificazioni assurde e ironiche come che non è abile a fare domande: alla fine, sembra confessare, sono io stesso il clown), e le alterna con parole e scritti dello stesso Fellini, costruendo un ritratto d’atmosfera che con rispettosa suggestione s’addentra nei deliri del visionario maestro (s’era definito il “Ken Russell italiano”, regista hippie morto lo scorso mese, mentre l’autore di Stati di allucinazione aveva ricambiato al volo dandosi del “Fellini britannico”): angeliche figure oniriche, atmosfere fantasmagoriche e spettrali, donne irraggiungibili e materne, tutti i suoi personaggi destinati al suo personale paradiso dei sogni, popolano il mondo interiore in cui Fellini, superato il neorealismo, ha cercato di coinvolgerci, e in cui cerca di muoversi scoprendo nella simbologia del circo le maschere che trova a sé confacenti. Si tratta della dicotomia tra i clown, il Bianco, autorevole, prestigioso, maestoso, e l’Augusto che, nonostante l’etimologia apparente (in realtà quella giusta sarebbe anglofona), rappresenta il pasticcione, il disobbediente, l’ubriacone, il bambino ribelle. Si coglie che Fellini si sente combattuto tra le due pose, e fa seguire, nei suoi scritti, una serie di più o meno azzeccate dicotomie: Freud il Bianco, Jung l’Augusto, Hitler il Bianco, Mussolini l’Augusto, Visconti il Bianco, Antonioni l’Augusto, Pasolini il Bianco, perché intellettuale e pure saccente (come persona, supponiamo, giacchè la sua opera sembra invece eleggere a protagonisti quasi nient’altro che augusti in varie fogge); c’è anche chi ha raggiunto l’obiettivo di unire entrambi in uno, in una sorta di grande opera alchemica, come Moravia, evidentemente amico pure di Fellini.

Così l’itinerario proposto da Cinema e cinemi trova della sostanza in questo pur umile lavoro di decoupage che, mescolando interviste, scritti recitati da voce femminile o dallo stesso Fellini, scene salienti prese da questo o da altri film, ci immerge nella magia del cinema italiano più nobile, e neanche tanto lontano; a maggior ragione se, come suggerisce la nuova, manierata fatica di Woody Allen, o come insisteva un altro documentario di rilievo del festival, Il corpo del duce, sull’altro lato, ombroso, dell’inconscio collettivo italiano (quello de Il conformista), per Faulkner “il passato non è mai morto e sepolto, non è mai nemmeno passato”.

 


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