La rivoluzione italiana: modernizzazione, deburocratizzazione e liberalizzazione - Parte terza: il f PDF 
di Fulvio Montano   

Alla luce delle considerazioni proposte nelle precedenti puntate, dei dati, dei nomi e degli spunti sollecitati qua e là tra le righe, verrebbe spontaneo concludere presentando un elenco di ricette stilate dai più o meno esperti dottori che hanno in cura il paziente cinema. Governanti, produttori, critici, registi o semplici spettatori che mossi dai rispettivi ardori in merito alla settima arte s'inalberano in fervide discussioni da Bar dello Sport, appellandosi di volta in volta al mercato, allo strapotere degli americani, alla noia di certi film troppo personali o alla scarsa cultura cinematografica degli italiani.

Tuttavia, ritengo decisamente più interessante e fruttuoso provare per un attimo ad eliminare i paraocchi e forzare lo sguardo su qualcosa di cui pochi sembrano davvero accorgersi. Anzitutto la tragica situazione dell'industria italiana, che dalla dipartita degli Olivetti, dei Falck e infine pure degli Agnelli (buonanime!), sembra davvero esser rimasta senza idee. Illusa anch'essa dalla malsana fantasia liberista di poter far soldi dal nulla (vedi finanza più o meno creativa), è venuta a mancare proprio nel momento del bisogno, quando, cioè, l'ondata di privatizzazione a seguito del ridimensionamento del Welfare e la chiusura dei rubinetti statali requisiva le stampelle agli zoppi.

Salvo rarissime eccezioni, quali Ferrero e, perdonate l'assonanza, Ferrari, l'intero sistema industriale italiano è crollato. Giù la chimica, giù il tessile, giù l'elettronica e giù l'automobile, tanto che da alcuni anni Legambiente deve, quasi con rammarico, ammettere che mari e fiumi risultano insolitamente puliti. E l'industria cinematografica, semmai questa sia mai davvero esistita? Non esiste, semplicemente.

Certo, qualche impresa c'è e qualche grossa produzione pure, ma nulla di paragonabile anche solo al mercato francese o tedesco, per non dire anglosassone. La maggioranza dei film prodotti nel nostro Paese, tutt'altro che pochi per la verità, è la prova sconsolante di una crisi per alcuni irrisolvibile e per tutti desinata a peggiorare. Senza voler essere catastrofisti, è evidente la mancanza in primis di produttori che vogliano e, soprattutto, possano permettersi di rischiare; risulta poi quasi inesistente un mercato maturo e sufficientemente diversificato da offrire una visibilità, anche minima, a tutti. Per non parlare delle idee, ahinoi, sempre più rare in questa nostra terra di santi, navigatori e briganti, tanto che al di fuori del cinema più biecamente commerciale si è tentati di guardare alle fatiche di chi tenta di emergere, come uno stillicidio di esercizi onanisti, pretenziosi e il più delle volte dilettanteschi.

Non a caso, si potrebbe definire come sconsolante il panorama che si presenta all'interno dei tanti festival dedicati al cinema proposti su e giù per la Penisola, che sommersi dalla nouvelle vague digitale di fine/inizio millennio sembrano incapaci di reagire, incapaci di comprendere l'evidenza cha ad una accresciuta quantità di produzioni più o meno strampalate è tutt'altro che automatica la crescita della qualità.

Se tante sono le vetrine, senz'altro meno sembrano essere le occasioni di formazione, di crescita, ma soprattutto di pratica. Sollecitato qua e là dall'elemosina di Film commission particolarmente generose, il nostro cinema si limita ad accontentarsi, nell'illusione di poter sopravvivere tirando a campare, mentre l'unica realtà davvero in crescita (se di crescita si può poi parlare) è quella televisiva. Omologata, iperpianificata, statica e di medio livello, la fiction che commuove le massaie e intristisce gli appassionati del vero cinema riduce tutto a produzioni compresse in tempi strettissimi, pensate e realizzate in serie, in cui le maestranze coinvolte sul set si annoiano si amano, litigano, si fidanzano e poi magari si sposano, nell'attesa che arrivi fine mese e che il principale versi lo stipendio in banca.

Quale futuro immaginate che ci possa essere per il cinema fatto dalla televisione, miseramente ridotto a riempitivo di palinsesti e di intervalli tra una pubblicità e l'altra?

La televisione potrebbe e dovrebbe essere invece nient'altro che una tappa, una sorta di gavetta in attesa del grande salto (naturalmente destinato a chi vorrà osare), non un fine motivato da esigenze di tipo unicamente economico per i magnati dell'editoria come per i moderni salariati del terziario dell'entertainment. Una prospettiva mai stata così prossima, almeno a giudicare dall'ultimo comunicato stampa dell'associazione di categoria che riunisce autori e produttori indipendenti italiani. In poche righe, i suddetti puntano il dito sulla nuova legge sul cinema come "causa dell'olocausto del cinema italiano" e lamentano che la manovra economica che il governo sarà alla fine costretto a varare per mantenere le promesse elettorali di riduzione degli oneri fiscali e per garantire di fronte all'Ecofin l'ancoraggio dell'Italia all'Europa, a conti fatti comporterà una riduzione (del 20% per il 2004 e del 25% per il 2005) del Fondo Unico per lo Spettacolo, già rimasto inalterato negli ultimi anni, nonostante la svalutazione. Per non parlare dell'idea di applicare allo spettacolo il criterio di rimborso totale degli incentivi e dei finanziamenti, istituendo un regime di fondo rotatorio, che paralizzerebbe il settore e renderebbe totalmente inutile e inapplicabile la stessa riforma del sistema di sostegno al cinema italiano.

Mentre l'AGIS parla di "rischio paralisi", l'ANICA pubblica le cifre del mercato cinematografico del 2003, caratterizzato dalla crescita di film e incassi USA (+ 6,75%), dell'homevideo (+18%) e degli schermi (da 2.377 a 2.573, per via dell'aumento di multisale e multiplex) a scapito però delle monosale (da 852 a 809), degli spettatori (- 1,7 milioni di biglietti) e in generale degli incassi (-2 milioni di euro) e l'investimento privato (-5,25%). Pochi mesi fa, a Roma, Liv Ullman, presidente della Federazione europea degli autori di cinema (Fera), ha chiamato alla mobilitazione i cineasti, nel nome della diversità culturale e del diritto al cinema europeo. È infatti in pericolo anche il fondo dell'Unione europea destinato alla cultura cinematografica, che alcuni degli stati membri vorrebbero ridurre (dall'1,22% del bilancio all'1% tondo tondo) mettendo a rischio il programma Media, rivelatosi negli ultimi anni un efficace sostegno alla circolazione dei film europei, dei cartoon e dei documentari.

E come se non bastasse l'Osservatorio europeo dell'audiovisivo lancia un ulteriore allarme: il 2003 è stato un anno nero per la circolazione dei film europei fuori e all'interno della stessa Unione Europea.
Brusco il calo di presenze in Europa nel 2003 (-4,6% in meno) concentrato soprattutto su film di produzione europea. In sintesi si sta andando verso un'Europa senza kolossal, che rischia di limitare la propria cinematografia alle nicchie nazionali. Un mercato europeo dominato, come un po' accade ovunque, dagli USA, seguiti a ruota dalla grande stagione del cinema francese, la cui quota si è attestata ben oltre il 30% per merito di un'attenta politica culturale e una capillare opera di finanziamenti e di co-produzioni, che, a differenza di altri Paesi quali l'Italia e la Spagna in cui provengono direttamente dal budget statale, optano per trasferimenti gestiti dai poteri pubblici o redistribuzioni tra le varie branche del cinema, utilizzando, ad esempio, gli introiti provenienti dalla tassazione sul biglietto d'ingresso, ma anche prelievi sugli incassi delle reti televisive o degli editori video. Un sistema peraltro simile a quello presente nel Regno Unito, che sostiene la produzione cinematografica con il versamento di una parte degli incassi della lotteria.

La parola chiave sembra insomma essere sincretismo e trasparenza, due specificità tradizionalmente assenti nelle politiche culturali dei governanti di casa nostra.

Questa in sintesi la storia e le prospettive, quasi a confermare che il futuro del cinema nostrano non è mai sembrato così cupo. Per cui, in chi sperare? Nell'ottimistica illusione che qualcuno sia in grado di rispondere attivamente alla domanda affido la chiosa di questo, tutto sommato, lungo excursus alle parole di Thoreau e del suo straordinario e indispensabile Walden: "…Le opere dei grandi poeti non sono state ancora lette dall'umanità poiché sanno leggere soltanto i grandi poeti, mentre le masse le leggono come leggono le stelle, ossia, nel caso migliore, come astrologhi e non come astronomi. La maggior parte delle persone impara a leggere soltanto per comodità, come imparano a tenere i conti delle spese per evitare di essere imbrogliati. Della lettura, invece, intesa come nobile esercizio spirituale, essi non hanno pressoché idea, mentre, al contrario, solo quest'ultima è la vera lettura, nel senso più alto della parola, non quella che ci culla dolcemente addormentando i nostri sentimenti elevati, ma quella verso la quale bisogna protendersi in punta di piedi, alla quale noi consacriamo le ore migliori della veglia."

 


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