Oltre è la vita. Riflessioni su cinema e scuola a partire da La classe PDF 
Enrico Maria Artale   

Non sempre un grande film coglie con tempismo i problemi di massima attualità. Non sempre i lavori concepiti per rendere conto tempestivamente di tali problemi rivelano grandi qualità cinematografiche. Nonostante le strategie di produzione siano attente a tutti i fattori in gioco, vuoi per ragioni di mercato, vuoi per sincere esigenze culturali, è dunque cosa rara la congiuntura di questioni legate all’attualità più imminente e concretizzazioni formali capaci di esorbitare le questioni stesse. È ciò che è accaduto in Italia con La classe di Laurent Cantet, il film vincitore all’ultimo festival di Cannes: coincidenza assolutamente casuale, a meno di presupporre attitudini divinatorie nei produttori ancor prima che nei distributori, l’uscita nelle sale italiane nella stessa settimana in cui l’apparato scolastico, dalle scuole elementari fino all’Università, si mobilita contro gli ultimi provvedimenti in materia decretati dal governo. Secondo un tipico schema comunicativo tale per cui chiunque si sente autorizzato a svolgere fondamentali considerazioni di tipo sociologico, se non filosofico, soltanto nei pochi giorni in cui un problema persistente si guadagna la prima pagina (e non certo perché si sia risolto), ecco che negli ultimi giorni il dibattito sul ruolo e sul futuro della scuola si accende, complice la demagogia, proprio mentre un film francese, un film - vale la pena di affermarlo subito, in via preliminare - grandissimo, viene a provocare le nostre riflessioni a riguardo. Un’occasione straordinaria forse, ma anche un parallelismo beffardo, dato lo scarso livello intellettuale a cui recentemente siamo abituati.

La classe è il quarto film di Cantet, regista francese segnalatosi a partire dall’impegno del suo film d’esordio, Risorse umane. In quest’ultimo lavoro, il regista ha affrontato lo svolgimento di un anno di corso in un collège (circa l’equivalente della nostra scuola media inferiore) del XX arrondissement di Parigi, a ridosso delle banlieue, una zona in cui le condizioni di vita della popolazione sono certamente difficili. A dir la verità, il titolo francese Entre les murs non solo è indubbiamente più originale, ma rende conto della radicalità della messa in scena che si svolge esclusivamente tra le mura dell’istituto scolastico, con un’encomiabile organizzazione dello spazio tesa a far emergere il parallelismo tra la scuola e la prigione, da non intendersi in senso letterale, strettamente carcerario, ma come desamina problematica dell’impossibile chiusura verso l’esterno. L’idea del film è nata dalla lettura del romanzo omonimo di François Bégaudeau (edito in Italia da Einaudi) in cui un giovane professore racconta in forma semi-diaristica le sue esperienze di insegnamento del francese nella periferia parigina. Lo stesso Bégaudeau non soltanto ha partecipato alla stesura della sceneggiatura, ma ha sostanzialmente interpretato se stesso, recitando la parte del protagonista del film, il professore, in sintonia con l’idea guida dell’opera e cioè, lo vedremo, quella di una continuità essenziale tra lo schermo e la realtà, tra il cinema e la vita. Non è facile scrivere di un film come La classe. Certo si possono evidentemente fare valutazioni di tipo storiografico, ponendo in evidenza i modelli registici dell’autore, o anche  svolgere considerazioni di tipo sociologico ispirate al film stesso, ma la critica in senso più profondo, nel senso cioè di una analisi specifica con eventuale attività ermeneutica, sembrerebbe un’operazione preclusa al contesto, rischiosa, e probabilmente inutile. Non perché non si possa arricchire il discorso filmico di spunti, di significati possibili, il che dovrebbe costituire biunivocamente, cioè attraverso l’idea di uno scambio reciproco, il compito e l’obiettivo di chi scrive. Quanto perché di fronte ad un’opera che pone l’evidenza sulla complessità precategoriale del mondo, ogni tentativo, anche blando o tenero, di concettualizzazione rischia di fare violenza all’intenzione stessa del film, alla sua natura. È forse meglio limitarsi ad evidenziare proprio quella natura, mettendosi da parte, salvo poi sviluppare considerazioni personali su ciò che il film mette in scena, senza alcuna pretesa oggettiva, o al più indicare alcuni referenti che potrebbero gettare nuova luce, mediante il confronto e il dialogo, con il film in questione.

Si può partire da una banalità: nel film manca una vera e propria trama. Fermo restando il fatto che nessuno dovrebbe sconvolgersi, e che anche doverlo sottolineare appaia leggermente ridicolo (insomma, ormai dal Neorealismo sono passati più di sessant’anni), questa evidenza non manca mai di essere oggetto di pretenziose considerazioni. A ben vedere esistono, come sempre, una sorta di piccole trame che coincidono con le storie di alcuni personaggi chiave, alcuni studenti. Queste sottotrame si vanno a comporre però lentamente, perché il film è strutturato in maniera episodica, attraverso il libero susseguirsi di lezioni, riunioni di insegnanti, rari momenti in cortile. È bene porre l’accento su un aspetto: non soltanto gli episodi non sono tutti ugualmente significativi, ma anzi alcuni lo sono ben poco. Certo dobbiamo supporre ragioni specifiche che hanno spinto l‘autore a selezionarli in fase di montaggio, ma al tempo stesso va detto che rispondono all’idea di un realismo che non vuole necessariamente pervenire alla costruzione del senso, essendo invece pronto a fare i conti con la radicale insignificanza della realtà, con la sua presenza disorientante, fatta di vuoti, di stalli, di insensatezza. Questo approcio cinematografico e filosofico al mondo, dettato più dall’amore e dal rispetto che da una forma di pessimismo razionale, permette di fatto che i momenti significativi detonino inaspettatamente. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che gli spazi vuoti fossero concepiti secondo una ricercata funzionalità drammatica, in osservanza delle convenzioni artistiche che predicano, in musica come in pittura, la produttività emozionale del contrasto, dell’alternanza tra tensione e distensione, tra vuoto e pieno. Nel film di Cantet, come in tanti altri nel passato, il chiaroscuro, il contrasto romantico, non è affatto concepito; piuttosto si determina nell’incontro con la realtà, e in effetti la sinfonia che ne vien fuori suona decisamente confusa, imperfetta, pur rispondendo ad alcune leggi della musica. Se nel film sono disposti consapevolmente alcuni picchi emozionali, o alcune situazioni narrativamente fondamentali, ciò corrisponde verosimilmente alla struttura del reale, che ha d’altra parte fornito la materia emozionale o narrativa nel fluire dell’insignificante, ed è questo fluire che il regista ha contemporaneamente incontrato e ricostruito. Possiamo citare alcuni di questi episodi illuminanti, per tentare di comprendere meglio il film e al tempo stesso la realtà. Il primo potrebbe essere lo sfogo del professore di educazione tecnica, nella sala degli insegnanti: è un giovane professore (lo sono più o meno tutti, e la cosa dovrebbe far riflettere) ma ha già alcuni anni di esperienza; ciò non impedisce che egli incontri grosse difficoltà nella gestione comportamentale di una classe, con l’anno scolastico appena iniziato. In preda ad una crisi isterica, non usa mezzi termini nell’aggettivare gli studenti: li paragona ad animali, selvaggi e incontrollabili. E soprattutto insiste sull’inutilità del proprio ruolo, sull’impossibilità di cambiare le cose, di educare: il suo è un momento di rifiuto complessivo, di scoramento, in cui l’evidente razzismo non è altro che un pretesto, un canale di sfogo. Il giovane insegnante dichiara di essere intenzionato a non vedere più quei ragazzi, a lasciarli marcire nell’ignoranza dei bassifondi, ma più che esprimere delle opinioni il suo discorso riflette alcuni luoghi comuni dimostrando come questi segnino essenzialmente il momento della sconfitta, della debolezza e dell’impotenza. Il suo razzismo culturale coincide con l’insicurezza, ed è senz’altro significativa a proposito la reazione dei colleghi, che osservano attoniti ma comprensivi. Da ciò se ne ricava non soltanto che la conoscenza personale del professore di educazione tecnica li spinge a non dare peso alle sue parole, ma emerge una senso di diffusa consapevolezza delle difficoltà reali e di come alcune posizioni culturalmente insostenibili altro non siano che la mancata elaborazione di tali difficoltà. In questa come in altre scene non si esprime un giudizio, ma una forma di comprensione. Il regista qualifica positivamente i suoi protagonisti mostrandoci la maturità del corpo insegnanti, la loro fondamentale esposizione al mondo. La realtà elimina fin da subito le tentazioni dello stereotipo narrativo, evitando il banale contrasto, di ruolo o generazionale, per predisporre la comprensione di una situazione esente da schematizzazioni: non c’è un professore buono ed uno cattivo, non ci sono da un lato gli studenti e dall’altro i professori; piuttosto vi è una relazione complessa e multiforme che coinvolge tutti in termini dialettici, in cui anche gli adulti hanno reazioni tipicamente adolescenziali (ma forse sono le reazioni adolescenziali ad essere tipicamente umane).

Un altro momento importante è costituito dalla sequenza in cui François, il protagonista, incontra i genitori degli alunni. I dialoghi sono in questo caso funzionali alla messa in evidenza dell’eterogeneità studentesca: abbiamo infatti una coppia di genitori cinesi, proccupati per il rendimento del figlio che invece è uno degli alunni più brillanti, un padre nordafricano orgoglioso di suo figlio, seduto accanto a lui durante il colloquio, una madre francese che difende e giustifica l’atteggiamento del proprio ragazzo ricordando di essere stata sempre una persona restia ad assecondare le autorità, e infine la madre di uno degli alunni più problematici, Souleymane, che non parla francese e deve farsi aiutare dal fratello del piccolo. Anche in questa situazione vale quanto detto in precedenza: qui non si misura semplicemente il distacco tra il mondo degli adulti e quello dei ragazzi, che anzi appare, per ovvi motivi sociologici, decisamente minore rispetto a quanto non avvenga nelle classi più agiate, nei figli della borghesia medio-alta. Anche i genitori sono presi nella loro singolarità partecipativa, laddove l’unico elemento unificante è proprio la diversità delle situazioni, e in quanto tali rendono assai più complesso il lavoro dell’insegnante, e l’identificazione specifica della classe quale gruppo che comprende al suo interno valori così diversi. Le considerazioni di tipo generalistico sono ulteriormente demistificate, e anzi in questa sequenza si capisce ancor di più come alcune recenti proposte, non da ultimo il progetto italiano di classi per immigrati, rivelino alla base del razzismo il rifiuto pregiudiziale della complessità; indipendentemente dalla risonanza etica della discussione, andrebbe piuttosto sottolineato e fatto capire a chi di dovere, che il rifiuto della complessità non porta ad alcun risultato, che la realtà è sempre pronta ad irrompere nelle chiusure del sistema.

Per quanto i criteri con cui stiamo isolando alcuni episodi significativi siano assolutamente soggettivi, dovuti più che altro all’emozione o all’interesse personale, ci sembra di poter dire con una certa sicurezza che la frequenza di tali episodi aumenti nella seconda parte del film, soprattutto nella parte finale. Ciò non sembra esser dovuto ad un caso. È vero che anche prima, nei lunghi e incalzanti dialoghi tra il professore e gli alunni, non manchino momenti chiave, che restano impressi nella memoria: ad esempio quando Souleymane tira fuori la questione della presunta omosessualità del professore, senza particolari remore. È un altro caso in cui la brillantezza relazionale di François emerge chiaramente come capacità di gestire situazioni delicate in cui si è costretti a mettersi in gioco ben oltre le regole, oltre i confini del proprio ruolo civile, chiamando in causa persino la propria vita privata. È un dialogo educativo per qualsiasi spettatore, e in particolar modo per un insegnante: in un certo senso sembra infatti di poter dire che il film possa rivelarsi educativo soprattutto per i professori, quasi fosse destinato a loro (in senso ampio). È illusorio e controproducente creare un mondo svincolato dalla realtà, e per quanto alcune relazioni avvengano sempre entro le mura di una stanza, è bene essere consapevoli di come queste mura non siano impermabili al mondo dal momento che i presenti intrattengono continuamente un rapporto con l’esterno, con la vita: è questa accoglienza della vita entro le mura della stanza, del pensiero - o in questo caso del cinema - a qualificare la conoscenza desacralizzando l’illusoria esistenza del soggetto come entità distinta. Se dunque abbiamo visto che molte battute del dialogo costante con i ragazzi possono dimostrarsi illuminanti, è tuttavia evidente come nella parte finale del film siano disposti diversi episodi in cui il fluire del tempo sembra quasi arrestarsi, in cui la vitalità frenetica lascia emotivamente il posto al contenuto riflessivo. Non si tratta affatto, come alcuni hanno superficialmente scritto, di un abbandono della messa in scena documentaristica in direzione della fiction; è invece un’evoluzione della struttura che fin dall’inizio aveva intessuto delle trame personali e che nel finale guadagna l’aspirazione ad uno sviluppo più profondo, ritrovando la visione drammatica del mondo che caratterizza il cinema di Laurent Cantet. Il film, infatti, è finzionale dal principio, non appartiene al cinema verità né tantomeno alla docu-ficion. Certo la lezione del bellissimo documentario di Nicolas Philibert, uscito pochi anni fa e dedicato ad una scuola elementare, si sente nella concezione de La classe. Il procedimento cinematografico però è assolutamente diverso. Qui il regista ha lavorato per circa un anno alla composizione e alla preparazione del cast mediante una serie di workshop settimanali tenuti nelle scuole stesse; ha scritto una sceneggiatura aperta alle improvvisazioni ma comunque prefissata; ha lavorato con tre camere digitali per non interrompere il fluire della recitazione ma secondo una coreografia in certa misura controllata. Tutto ciò non contraddice affatto quanto abbiamo scritto inzialmente circa il rapporto del film con la realtà, un rapporto che, è bene dirlo, appare ben più radicale che in tutti i precedenti lavori del regista. Va detto, invece, che nel cinema tale rapporto può assumere configurazioni e metodologie assai diverse, sia nel documentario sia nel cinema propriamente finzionale. Si pensi alla differenza tra Cassavetes, che lavorava sull’improvvisazione, e Pasolini, che utilizzava procedure antinaturalistiche. Oppure, nel campo del documentario, alle costruzioni narrative e poetiche di Herzog, così diverse, ad esempio, dai procedimenti utilizzati da Nicolas Philibert o Philippe Groning. Non vi sono ricette universali ovviamente, se non forse quella di evitare la cosiddetta registrazione bruta della realtà, il più delle volte invisa ai registi che hanno dimostrato una grande passione per la vita e per il reale come fonte primaria della verità del mondo. L’accoglienza della realtà necessita dunque di strutture predisposte, laddove questo lavoro di predisposizione tecnica e concettuale rappresenta forse meglio di ogni altra cosa l’essenza della regia cinematografica. La messa in scena del film di Cantet si rivela nella sua assoluta coerenza pur dimostrando, e questo è un merito, un elevato grado di libertà. È come se il materiale raccolto pervenisse nel finale all’accenno di uno sviluppo, volto non a chiudere ma ad apire le singole storie al di fuori delle mura, nello spazio che il film non si autorizza a perlustrare.

È forse l’ingresso in scena di un personaggio molto importante come Carl a segnare un sostanziale scarto nell’approccio narrativo del film. Mentre sul passato degli altri studenti non si sa pressochè nulla, e lo spettatore è costretto a confrontarsi solamente con la loro presenza in classe, l’inserimento di Carl costituisce un incipit narrativo, poiché non soltanto siamo a conoscenza della precedente espulsione da un altro istituto, ma assistiamo al progressivo e complesso meccanismo di integrazione nella nuova comunità. Del resto Carl è anche una sorta di portavoce dell’integrazione perché è l’unico a dichiarare, pur ribadendo le sue origini antillesi, di tifare per la nazionale francese di calcio, il che vuol dire ovviamente molto di più di un semplice fatto sportivo, vuol dire sentire l’appartenenza alla nazione. Non si tratta affatto di un caso quindi se l’autoritratto scritto di Carl sarà posto in enorme evidenza rispetto a quello dei suoi compagni, costituendo per l’appunto uno di quei momenti straordinari presenti nel film. Gli altri studenti avevano perlopiù evitato di esporsi nella realizzazione del compito, chi scrivendo poche righe, chi tenendo nascosto parte di ciò che aveva scritto, chi rifiutandosi in toto. Invece l’autoritratto di Carl è lungo, sinceramente contraddittorio, sentito. Cantet stravolge o quasi l’impianto stilistico per restituire l’impatto emotivo delle parole, realizzando per la prima volta o quasi nel corso del film un lungo primo piano frontale, con lo sguardo rivolto in macchina. Se prima aveva preferito inquadrare i personaggi di quinta, o di profilo, adesso il regista ricorre ad una soluzione bergmaniana fissando la camera di fronte al soggetto ed evitando i controcampi per chiamare in causa lo spettatore. L’autoritratto di Carl viene dunque isolato completamente dal fluire initerrotto del dialogo, non viene introdotto né commentato per amplificare la forza delle sue parole, i riferimenti al carcere, al razzismo, alla guerra in Iraq. Non che Carl sia un ragazzo più intelligente o più colto degli altri. Ha semplicemente attuato una maggiore apertura verso l’esterno, verso la scuola, e simultaneamente verso il mondo, dato il contenuto delle sue frasi (nonchè verso di noi, data l’inquadratura). A partire da questo momento gli episodi su cui varrebbe la pena soffermarsi sarebbero molti. A ben vedere sono piuttosto intrecciati tra loro perchè ruotano attorno alla vicenda di Souleymane, il ragazzo maliano che sarà espulso dall’istituto. In un certo senso la sua figura è altamente simbolica, perchè riflette, nella relazione con il maestro, il difficile rapporto tra la Francia, quale paese culturalmente ai vertici dell’Occidente, e l’Africa nera, il terzo mondo. Di fronte alla carica fisica e talvolta irrazionale la Francia si pone, nel bene e nel male, quale “ammaestratrice di civiltà”, per usare un’espressione di Pasolini. E se l’atteggiamento del professore appare assai lontano da certo paternalismo culturale i risultati, e in un certo senso l’imbarazzo, sono gli stessi. I diverbi tra François e Souleymane sono continui, a volte banali a volte meno. La situazione precipita quando il ragazzo viene a sapere che in sede di consiglio di classe il professore lo ha definito limitato. Sul perché François si sia espresso in tali termini non viene fatta giustamente chiarezza. È chiaro che il professore non crede fino in fondo a ciò che ha detto, soprattutto dopo aver constatato l’ottimo lavoro svolto da Souleymane commentando le fotografie. Probabilmente quella definizione serviva a François per sorvolare sul problema durante la discussione con i colleghi, a nascondere il suo effettivo imbarazzo circa la possibile soluzione. Di fatto però sancisce il fallimento dei suoi tentativi di avvicinamento al ragazzo. Prima sarà costretto a mandarlo dal preside, in una sequenza in cui il primo piano silenzioso di Souleymane suona al tempo stesso come un appello e un atto di accusa verso l’Occidente intero (non tanto una richiesta di aiuto, ché forse l’Africa non ne può proprio più degli “aiuti” occidentali, quanto una richiesta di comprensione). Successivamente la degenerazione violenta di un nuovo diverbio costringerà François a stilare un rapporto per convocare il consiglio disciplinare, l’organo scolastico che prende in considerazioni l’ipotesi dell’espulsione. Proprio la scena del consiglio rappresenta uno dei momenti più toccanti del film. In essa si contrappongono due mondi: quello evoluto intellettualmente del corpo docenti, e quello fisicamente arcaico della madre di Souleymane. Entrambi espongono le proprie ragioni, e nonostante le modalità siano opposte (i professori parlano a turno cordialmente, la madre si esprime in africano mentre Souleymane traduce solo poche frasi), la sensazione è che non esista un unico legittimo punto di vista: da un lato è situata la verità dell’istituzione, che segnala i problemi di comportamento e di rendimento del ragazzo, dall’altro la verità della famiglia, che sottolinea la natura responsabile in casa, il suo essere “un buon figlio”. Ci troviamo insospettabilmente nel solco dello schema hegeliano che vede la tragedia classica come lo scontro irrisolvibile di due forze, in cui l’individuo resterà inesorabilmente schiacciato. Nel film, infatti, l’espulsione di Souleymane appare quasi come un destino su cui i protagonisti, compresi il ragazzo stesso e il professore, non hanno alcun potere: si tratta, come sottolinea François in un’occasione, di una complessa catena di eventi, in cui la volontà del singolo misura in termini effettivamente tragici la propria impotenza. Anche a livello dialettico il professore non riesce più a gestire la situazione, e dopo aver apostrofato malamente una delle sue studentesse, suscitando una polemica peraltro legittima, fuggirà dall’accesa discussione scatenatasi in cortile perché intimamente ferito dai suoi stessi errori, ormai incapace di sostenere emotivamente il dialogo paritario che egli stesso aveva promosso in classe.

Il film raccoglie per più di un’ora situazioni piuttosto divertenti in cui la brillantezza del professore emerge al di là di ogni dubbio e solo a quel punto si concentra nel raccontare una storia, che sarà però la storia di un’esperienza negativa, ad un tempo sconfitta e perdita. Certo vedremo come attorno al professore il clima si sia ricompattato, e non manchino esperienze positive come l’inserimento di Carl o il ritrovamento della fiducia reciproca con Khoumba, la studentessa che ha forse il rapporto più intenso con il professore di lettere. Eppure in conclusione altre incertezze sanciscono definitivamente lo statuto di precarietà degli intenti umani: i genitori di Wei, il ragazzino cinese che François aveva saputo valorizzare, rischiano di dover ritornare nel loro paese perché sprovvisti di permesso di soggiorno, rendendo difficile il futuro del figlio, pur essendo questi così brillante che la professoressa incinta augura al proprio bambino le stesse capacità intellettuali. Infine, l’ultimo giorno di scuola, il professore dovrà incassare due ulteriori sconfitte: la prima, personale, scoprendo inaspettatamente che Esmeralda, l’alunna svogliata, impunita e capricciosa che egli aveva definito petasse (all’incirca “sgallettata”), quella che probabilmente stima meno di tutte, ha letto per conto proprio La Repubblica di Platone. Un grande errore di valutazione dunque, che non ha conseguenze gravi, anzi, ma che la dice lunga sulla possibilità effettiva di giudicare gli altri. La seconda sconfitta è invece assoluta, e chiude significativamente il film, nella più dolente delle conclusioni: dopo che tutti gli alunni hanno raccontato, chi più seriamente chi meno, cosa credono di aver imparato nell’anno scolastico, dopo che tutti hanno salutato il professore e sono usciti, una ragazzina si avvicina a François per fargli una sconcertante confessione : non ha imparato nulla. François non si capacita, non le crede, e cerca di convincerla del contrario, ma il suo eloquio è imbarazzato e probabilmente si rende conto che sta soltanto cercando di convincere se stesso, senza riuscirvi. La verità è nelle parole della ragazza: non ha imparato nulla. Se si potesse parlare a rigore di un messaggio conclusivo, e per fortuna non è così, si potrebbe definirlo in termini pessimistici: il film “insegna” che anche dove vi sono l’abilità e la volontà personale i risultati non sono affatto garantiti. In verità questa conclusione appare fin troppo semplicistica, poiché merito dell’opera non è di trasmettere un messaggio o un contenuto preconfezionato, ma di lasciar venire incontro la complessità della vita nella sua essenziale sfuggevolezza, nella sua inaggirabile resistenza al pensiero. Ecco dunque perché non si può ridurre la trama ad una forma di pessimismo gnoseologico, mettendo in luce piuttosto un tratto filosofico relativista e nichilista che qualifica positivamente l’approccio cinematografico al mondo, e che solo di riflesso si concretizza nelle vicende dei personaggi. Il regista non si focalizza sulla psicologia dei singoli, ma sulla pura dimensione interpersonale, sulla relazione che costituisce intimamente l’individuo. Si tratta, quindi, di una preminenza etica: esplicitata nel dialogo ogniqualvolta venga chiamato in causa il rispetto, termine centrale delle discussioni tra alunni e insegnante; strutturata narrativamente attraverso l’intreccio delle responsabilità. La difficoltà nel poter individuare distintamente le responsabilità si manifesta come uno dei nodi tematici fondamentali, poiché nelle situazioni della vita la sterile identificazione delle cause, peraltro altamente fallibile, non rende conto dell’azione umana quale momento idealmente libero e consapevole, riducendolo ad un fatto quantificabile e ordinabile, senza guadagnare l’accesso alla sfera reale dell’agire e del patire, in cui soltanto l’idea di responsabilità (eterodeterminata, responsabilità di fronte ad un altro) appare indicativa. In questo senso l’intera operazione attuata dal film suona come un monito contro le soluzioni matematiche dei problemi scolastici, che sono a ben vedere dei problemi etici oltre che teoretici, soluzioni studiate a tavolino assecondando indagini statistiche ed esigenze di bilancio, piuttosto che contributi seri e direttamente esperienziali da parte di professori e psicologi. Chi è il responsabile dell’espulsione di Souleymane, del suo fallimento scolastico? Il ragazzo stesso? O il professore? O forse la famiglia, i compagni, la strada? Mentre sembra possibile enumerare una serie di cause scatenanti, individuare la responsabilità pone sempre di fronte a problemi più ampi, evidenziando una complessità intrinseca irriducibile ad una ripartizione percentuale. È a fronte di questa complessità che interviene l’arte, a vario titolo a seconda dei tempi e dei modi: per creare un ordine provvisorio ma illuminante, o anche soltanto per rendere conto del caos mostrandolo per ciò che è. Per restare in tema di riforme scolastiche, dal momento che presto o tardi qualcuno riterrà opportuno l’abolizione dell’insegnamento della lingua greca, è bene ricordare come in quella lingua esista una singola parola per esprimere tutto ciò: si tratta del verbo leghein, che condensa in sé una sfumatura di senso in grado di penetrare potentemente nell’essenza del’arte, e perché no, anche e forse soprattutto nell’essenza del cinema: nella stessa parola abbiamo infatti il significato di raccogliere - cercare e accogliere, abbiamo parlato di accoglienza della realtà -, di raccontare -  abbiamo spiegato le esigenze di costruzione narrativa - e infine di lasciar essere, rendendo conto della complessità senza violarne la natura.

La classe è un film di indubbio valore conoscitivo, a patto che non si chieda alla conoscenza semplicemente una spiegazione. In quanto strumento d’indagine (e qui non si parla di indagine scientifica, e si deve resistere alla tentazione di parlarne) dovrebbe esautorare il regime dell’originalità artistica e aspirare ad una proliferazione pratica, quasi a voler recuperare la lezione di Dziga Vertov. In questo senso La classe è un film da continuare, da ripetere, da esportare. Nel senso che si potrebbero fare film del genere su situazioni scolastiche diverse, su differenti fasce di età, o anche e soprattutto in differenti paesi. Poco importa se venisse meno l’unicità dell’idea, poiché in questi film la questione dell’originale andrebbe completamente rimessa alla realtà. In Italia, ad esempio, un film analogo potrebbe essere importante (fermo restando che già il film di Cantet può essere importante). Del resto si esportano continuamente le esigenze di mercato, copiando e rifacendo per decine di volte lo stesso film o telefilm, si potrebbe fare lo stesso con le esigenze culturali. Di questi tempi si assiste ogni giorno a dibattiti inverosimili per il grado di lontananza dalla realtà misurabile nelle parole dei protagonisti, capaci solamente di elencare numeri e cifre, peraltro contraddittorie. Va da sé che la politica debba, non soltanto perchè legata all’economia, ragionare fattivamente in termini numerici, ma certo non può basare le sue analisi e le sue diagnosi soltanto su tali fattori, pena l’incomprensione della vita pubblica. Suscita ad esempio particolare ilarità l’accento posto strumentalmente sulla questione del bullismo, poiché il tema della sicurezza intimorisce sempre lo spettatore, per il quale si usano termini come degenerazione morale e trasformazione generazionale salvo poi elaborare contromisure francamente ridicole come il maestro unico prima e il voto in condotta dopo. In pochi sembrano disposti ad uno sforzo intellettuale leggermente maggiore, analizzando magari l’inquietante spostamento del fenomeno verso le fasce più abbienti, oppure sottolineando come il bullismo sia sempre esistito tra i ragazzi, mentre ciò che è radicalmente cambiato è il grado di esposizione mediatica, il fatto cioè che oggi i ragazzi non sono interessati tanto all’azione teppistica in sé, quanto alla possibilità di caricare il video su Youtube, di inviarlo sul cellulare dell’amico o persino di vederlo trasmesso in televisione, e non perché così saranno in molti a vedere i loro atti bensì perché saranno in molti a vedere i loro video. Non è l’azione che conta, ma l’immagine dell’azione. E dunque se il vero cambiamento consiste in ciò quale potrebbe essere un intervento formativo importante a livello scolastico se non un’educazione all’immagine, alla politica dell’immagine e alla tecnologia, anche in senso creativo. Purtroppo però quando le questioni si fanno complesse il politico, e dietro di lui il giornalista, si tirano fuori perché il consenso ricavabile sarebbe inferiore al compenso sociale, mentre loro preferirebero la proporzione contraria.

Una discussione sull’utilità politica del grembiule appare invece di somma importanza, data la frequenza dell’argomento nei talk show televisivi. Intanto nessuno parla dell’età degli insegnanti di ruolo (eppure nel film abbiamo visto insegnanti giovanissimi, e non si tratta, almeno in gran parte, di supplenti), fattore tutt’altro che secondario dal momento che esiste un problema evidente di distacco generazionale dovuto probabilmente alla discontinuità e all’accelerazione delle trasformazioni globali. Nella scuola primaria, l’unica sezione del sistema formativo italiano a poter essere considerata di livello (non che manchino le eccellenze negli altri settori, ma la situazione media è pessima), i provvedimenti rischiano di segnare un percorso veramente inattuale: ad esempio mettendo a rischio l’esistenza del cosiddetto “tempo pieno”, la cui funzione appare imprescindibile nella prospettiva di una crescente partecipazione delle donne al mondo del lavoro; oppure, in ambito strettamente formativo, la rivalutazione del maestro unico, figura ormai obsoleta che si ammanta di valenze filosofiche, quale recupero di un saldo punto di riferimento. Ma forse sarebbe il caso di ricordare come il mondo abbia ormai sperimentato in modo radicale l’assenza di qualsiasi punto di riferimento, politico, culturale, economico. Perché sottoporre i bambini ad un tale stress di privazione, dal momento che presto o tardi dovranno fare i conti con questa realtà? Anche lasciando cadere la filosofia, il maestro unico rappresenta un rischio elevato per il livello dell’istruzione, in particolar modo se si considera che in Italia esiste un serio problema di incompetenza matematica basilare diffusa, problema che certo non potrebbe che aggravarsi se nel momento cruciale dell’infanzia gli alunni avessero a che fare con persone assolutamente impreparate a livello matematico, cosa altamente probabile. Senza dimenticare che mai come in questi tempi esiste una decisiva questione del linguaggio, dal momento che la globalizzazione e il mondo informatico stanno sottoponendo i meccanismi linguistici ad una radicale trasformazione, al punto da auspicare una profonda consapevolezza dei termini del problema già in un maestro di scuola elementare, evitando di considerare l’insegnamento dell’italiano come qualcosa di scontato nei modi e negli obiettivi. Dunque l’importanza della pluralità dei maestri non risponde ad esigenze di specializzazione che renderebbero impraticabile il dialogo tra le sfere dell’apprendimento, ma permette una più profonda conoscenza delle difficoltà insite nelle materie fondamentali, oltre a garantire una superiore eterogeneità culturale.

Affrontare un rinnovamento delle modalità di insegnamento sembra invece fuori discussione. Eppure, nel film abbiamo visto che il rapporto intrattenuto dal professore con i suoi alunni è ben lontano dall’impostazione accademica prevalente nelle scuole medie e nei licei italiani, in cui i professori, spesso e volentieri preparatissimi, si relazionano alla classe come ad un soggetto unico, un contenitore vuoto da riempire con il sapere. Manca, salvo eccezioni, un rapporto dinamico e produttivo, in grado di istituire una pluralità di relazioni interne tra singoli studenti insegnanti. Di conseguenza gli studenti arrivano alle università con la necessità di dar sfogo al proprio pensiero, impedendo di fatto il livello di approfondimento che ci si potrebbe aspettare, e rendendo molte facoltà versioni ampliate e degenerate degli istituti liceali, ai quali la disastrosa riforma Moratti le aveva pressochè assimilate nelle modalità e nello spirito. L’unico istinto attivo nella classe politica è quello semplificante, rivolto però non tanto verso le complicazioni inutili presenti nel sistema, ma verso elementi fondamentali, come, ad esempio, l’insegnamente del latino e della filosofia nel liceo scientifico, passibili di abolizione o riduzione sostanziale. Oppure, in termini ancor più gravi, il taglio indiscriminato dei finanziamenti, che espone soprattutto l’Università a rischi e illusioni, laddove la costituzione delle fondazioni appare improbabile data l’assenza di capitale investibile, e pericolosa data il malfunzionamento degli strumenti di controllo che dovrebebro garantire la legittimità dell’operato della fondazione stessa. In questo modo si lascerebbe campo aperto alle Università private, che non hanno solo il difetto di essere accessibili a pochi determinando un’uniformità sociale che devitalizza il sapere dal suo interno, ma rispondono sempre, in un modo o nell’altro, alle esigenze dei finanziatori che solo un ingenuo positivista potrebbe considerare necessariamente concidenti con il bene della comunità. Piuttosto verrebbe meno non solo la libertà della ricerca, ma anche la sua eterogeneità, non potendosi sottrarre neanche indirettamente a valutazioni in termini di utilità (deleterie in molti settori) dal momento che è proprio l’utile l’obiettivo ultimo.

È il caso infine di accennare ad una questione la cui assoluta gravità è forse passata in secondo piano nei giorni delle proteste, e che ci permette di ritornare conclusivamente al film: la creazione di classi separate per gli studenti stranieri che hanno difficoltà con l’italiano. Ne La classe la quasi totalità degli studenti di François è composta da ragazzi di origine o provenienza non francese, e diversi di loro hanno evidenti difficoltà con la lingua. Eppure, il professore non sembra preoccuparsene, e certo non perché non abbia a cuore l’apprendimento del francese, ma perché è consapevole che la comprensione della lingua non passa soltanto attraverso elementi didattici comprensibili, ma anzi si fonda sulla relazione costante con la difficoltà, con il diverso, con il non comprensibile. In questo senso la condivisione di un progetto scolastico è un momento chiave di un processo di integrazione, nel senso che è proprio l’integrazione complessiva a garantire progressivamente l’accesso ai livelli più alti della lingua, sopperendo via via agli errori e alle incomprensioni: un percorso contrario, vale a dire prima imparare bene la lingua e poi tentare l’integrazione, sarebbe fallimentare perché innanzitutto causerebbe fin da subito ghettizzazioni difficilmente superabili. Inoltre, renderebbe molto più ostico lo stesso insegnamento della lingua, dal momento che un maestro deve poter contare sul contributo formativo dei compagni, e un alunno così isolato dalla vita culturale del paese sarebbe lento nell’apprendere. La famiglia di un ragazzo immigrato è generalmente una sfera isolata. La scuola non dovrebbe riprodurre questa sfera, ma aprirla alla diversità. Ciò che qui non si considera, e che invece il film di Laurent Cantet pone nella massima evidenza, è quella che si può definire la pedagogia del volto (ne abbiamo parlato anche a proposito di altri autori, Kiarostami su tutti): l’idea che il volto non sia soltanto il luogo fisico dove si esprimono le emozioni umane, la porta del soggettivo, ma costituisca un’essenziale apertura etica sull’alterità, un’alterità reciproca, poiché è il volto del’Altro che costantemente mi ri-guarda. Emmanuel Levinas ha scritto pagine molto famose a proposito, sottolineando anche la peculiarità del rapporto tra alunno e maestro. Ebbene in questo film Cantet ha restituito pienamente questa qualità del volto, radicalizzando alcune soluzioni formali che nei film precedenti, da Risorse umane a Verso il sud, non erano portate affatto a tale grado di intensità, ad esempio ricercando nell’utilizzo del digitale un’aderenza costante ai volti e allo spazio della loro relazione viva (similmente a quanto aveva fatto proprio Kiarostami). Non è soltanto il maestro ad insegnare attraverso il volto, ma sono gli stessi studenti a partecipare mettendosi costantemente in discussione a vicenda, esponendosi alla parola e allo sguardo altrui. Ognuno di questi volti insegna l’alterità radicale con cui il soggetto è chiamato a confrontarsi, e sarà proprio il maestro ad imparare più di tutti gli altri da questa esperienza. Caratteristica fondamentale della pedagogia del volto è, infatti, l’imminente rovesciamento della relazione, non più dal maestro all’alunno ma dall’alunno al maestro. François ha insegnato tante cose ai suoi studenti, sia prettamente scolastiche che non, ma ha imparato le cose più grandi: la fallibilità dell’uomo, l’indeterminabilità degli eventi, la superiorità della vita sulla ragione. E questo perché entrando in contatto con i volti dei suoi studenti egli ha reimparato l’alterità.

Vale la pena di chiudere con una curiosità: i protagonisti portano lo stesso nome nella realtà e se li cercate alcuni di essi li troverete su Facebook. Adesso i loro volti sono sul libro delle facce, come quelli di milioni di persone. Le loro foto sono simili a quelle di tutti, e appartengono pienamente al regime contemporaneo dell’immagine: l’ubiquità bilanciata dalla vuotezza sensibile. Il ritratto fotografico è ormai, come del resto ogni tipologia di immagine, talmente diffusa e predeterminata tecnologicamente che la sua funzione espressiva è pari a zero, anzi appare come il rovesciamento dell’originario ruolo identificativo, dal momento che, all’interno del sistema di immagini, la foto nullifica l’individuo, lo rende uguale a tutti gli altri. Considerare responsabili del fenomeno strumenti come i cellulari o Facebook sarebbe una vera idiozia, e vorrebbe dire misconoscere il percorso storico e filosofico della cosiddetta civiltà dell’immagine. Al tempo stesso, l’astensione personale da determinati mezzi di comunicazione rivela, come ogni forma di elitarismo, la propria inutilità sociale (ed è spesso destinata anche alla sconfitta individuale). Piuttosto, è bene sottolineare l’esistenza di pratiche - artistiche, filosofiche ma soprattutto cinematografiche - in grado mettere a nudo lo statuto contemporaneo dell’immagine e della realtà, fino a determinare situazioni di discontinuità, fratture, concretizzazioni impreviste che possano riportare la percezione da un mero sottoporsi al bombardamento sensibile ad una relazione intrinseca con il pensiero, con la riflessione. Intervenire sull’immagine archiviata per risvegliarne l’essenza, arricchendo così in certa misura l’intera banca dati del sensibile, oppure agire prima che essa passi nell’archivio stesso rendendola di fatto inarchiviabile, resistente alla catalogazione omologatrice, espressione viva di una forma capace di sfuggire al complesso di mummificazione che da sempre caraterizza la fotografia e che ha ormai assunto le proporzioni di un’innarestabile ossessione di massa.

Ecco, dunque, come La classe ha salvato i volti dei suoi giovani protagonisti, li ha resi irriducibili all’immagine sistematica, al libro delle facce. I loro occhi, le loro bocche, saranno sempre molto di più di quanto l’archivio riuscirà a contenere: per loro stessi, nel senso che la loro autopercezione potrà costantemente riscoprirsi, evitando la frustrazione dello specchio vuoto che questa società ha consegnato ad ognuno di noi. Per tutti gli altri, poiché ha reso imprevedibilmente possibile un incontro con l’alterità che la quotidianità organizzata dell’immagine inibisce fin nella sfera più intima. Come ogni atto di redenzione, la redenzione cinematografica del volto non agisce solamente sull’individuo, ma riguarda l’intera comunità. Potrebbe essere una speranza.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.