Come confrontarsi con un grande nome della cinematografia come quello di Jacques Tati? Ecco l’interrogativo che deve essersi posto Sylvain Chomet quando, nel 2003, all’indomani dell’uscita del suo primo lungometraggio animato, Les Triplettes de Belleville, si è trovato di fronte ad una sceneggiatura scritta proprio dal creatore del personaggio di Monsieur Hulot. Chomet ha risolto la questione in maniera tanto semplice quanto geniale, facendo interpretare il nuovo personaggio creato da Tati a Tati stesso, magia (è proprio il caso di dirlo) che l’animazione ha reso possibile, con risultati eccellenti.
Ecco dunque com’è nato il secondo lavoro dell’animatore francese che, in un’epoca di egemonia di computer grafica, perfezionismo digitale e 3D, affida la sua creatività ad un disegno libero ed espressivo, offrendo allo spettatore la possibilità di apprezzare una forma che sembra essere stata ormai accantonata dalle major del cartoon. La narrazione si svolge a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, presentando un compassato illusionista, Tatischeff appunto, che vede avvicinarsi bruscamente la fine della sua carriera, calpestata da una società che sta evidentemente cambiando sotto il segno della nascente cultura del consumo e che arriva a ridicolizzare impietosamente gli artisti che fino a poco tempo prima la divertivano con il loro talento. Tatischeff è colpito in prima persona da questo doloroso disprezzo, ma non rinuncia a lottare per difendere la propria dignità, sia per se stesso che per Alice, giovane ed ingenua ragazza scozzese conosciuta durante uno dei suoi viaggi attraverso l’Europa. Alice lo segue, alla ricerca di una vita più promettente di quella che sta vivendo, e resta accanto a lui per un lungo periodo, sicura che egli sia un mago vero, fino a quando trova la sua strada, affrancando Tatischeff dal ruolo in cui si era calato con maggior convinzione per non deluderla.
L’illusionista è un racconto delicato che utilizza non più di una manciata di battute, avvalendosi piuttosto di musiche quanto mai suggestive, scritte dallo stesso Chomet. E di certo non dà modo di rimpiangere la mancanza di un dialogo più serrato, poiché le parole non avrebbero aggiunto nulla di più a quanto espresso magistralmente dal perfetto connubio di suoni e immagini. La trama è piuttosto semplice, specialmente rispetto a quella de Les Triplettes de Belleville, il che ha permesso una maggiore focalizzazione sui personaggi, i quali, il più delle volte, si muovono in piani lunghi e larghi in cui appare anche più del necessario, in una realtà filmica in cui sono i campi medi a farla da padroni, mentre i primi piani sono praticamente assenti, in perfetto stile Tati. Magia e tristezza sono palpabili in tutta la narrazione: e se la prima è assicurata dal protagonista (in ogni suo singolo aspetto), ma soprattutto dalla delicata leggerezza con cui si succedono gli eventi, che si ha l’impressione siano costantemente diretti da una lieve mano invisibile, la seconda emerge ogni volta che ci si accosta all’amara sorte dei teatranti che Tatischeff e Alice conoscono, oltreché da una malinconia d’altri tempi che pervade gran parte delle scene.
Nonostante l’evidenza che scongiura la necessità di un parallelo diretto, quando Tatischeff si trova faccia a faccia con Monsieur Hulot, come in una sorta di specchio, non si può trattenere un gran sorriso.
TITOLO ORIGINALE: L'Illusioniste; REGIA: Sylvain Chomet; SCENEGGIATURA: Sylvain Chomet, Jacques Tati; MONTAGGIO: Sylvain Chomet; MUSICA: Sylvain Chomet; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Francia; ANNO: 2009; DURATA: 80 min.
|