2034. Miliardi di persone nel mondo hanno accantonato gli ormai desueti reality show per abbracciare due rivoluzionari giochi online, che hanno fatto la fortuna del genio del computer, l’ambiguo Ken Castle (Michael C. Hall). Se Society è una sorta di comunità di social network dove i videogiocatori assoldano esseri umani che, recitando alla stregua di attori, si muovono, totalmente controllati, in un contesto dai colori decisamente patinati, dando spesso libero sfogo ai desideri e alle pulsioni sessuali dei giocatori, il gioco di simulazione Slayers va ancora oltre. Si tratta, infatti, di un campo di battaglia imponente dove i protagonisti, in realtà esseri umani selezionati tra i carcerati condannati a morte, sono telecomandati da player esterni. Per il “gladiatore” che riesce a uscire illeso da 30 round di gioco c’è il premio più ambito: la libertà. Per il giocatore vincente ci sono in palio ancora più fama e ricchezza. Tutto ciò è reso possibile da una nanotecnologia all’avanguardia di nome Nanex, creata dallo stesso Castle: un dispositivo che impiantato nel cervello permette il “controllo remoto” degli individui cui è stato iniettato.
Kable, un sempre convincente Gerard Butler (in un ruolo action particolarmente adatto alla sua fisicità), è uno dei prigionieri assoldati per Slayers ed è il primo ad aver già conquistato 29 battaglie insieme al suo giocatore Simon (Logan Lerman), un adolescente ricco e alienato. Per Ken Castle, Kable è un personaggio oltremodo scomodo, al punto che per il futuristico gladiatore non sarà semplice riuscire a sopravvivere all’ultima partita del gioco e conquistare così la libertà. Non va poi trascurato l’effetto “ping”, ossia il ritardo che separa la reazione del personaggio controllato dall’effettivo movimento del giocatore. Kable, imprigionato per un omicidio che non ha realmente commesso, si rivelerà naturalmente un osso duro, non solo perché è disperatamente ancorato alla sua umanità e alla sua identità, che ribadisce a chiunque incontri – “Mi chiamo John Tillman” –, ma soprattutto perché è mosso da uno scopo fondamentale: ricongiungersi con la moglie Angie (Amber Valletta), attrice di Society, e con la figlia, affidata nel frattempo ad un tutore. Il tema del doppio, dell’Avatar che veicola con sé una riflessione sul controllo sociale, politico e personale, la rappresentazione di un mondo dove l’attaccamento alle tecnologie della comunicazione e dei social media arriva a generare distorsioni, brutture e derive di natura morale, il rapporto tra libertà e media (c’è l’immancabile star televisiva speculatrice Gina Parker Smith interpretata da Kyra Sedgwick), sono tutte istanze che Mark Neveldine e Brian Taylor, autori di Gamer, toccano nel discorso filmico, traendo spunto dalla letteratura di Orwell e Huxley, da film come Rollerball e Minority Report e dall’estetica dei videogame, così come da fenomeni attuali quali Second Life. Il risultato è un prodotto a metà tra la fantascienza e l’action, senz’altro muscolare, sebbene non sia vuoto di contenuti, ma che rimane sostanzialmente un ibrido tra un divertissement e un’opera cinematograficamente più ambiziosa che vorrebbe spingersi in terreni di discussione più elevanti, mancando però l’obiettivo a causa soprattutto di una sceneggiatura un po’ troppo superficiale e un finale risolutorio quantomeno frettoloso.
Resta comunque interessante lo sforzo compiuto da Neveldine e Taylor nella scelta delle location per conferire una peculiare identità visiva, e non solo, ai tre livelli descritti nel film: Slayer, Society e realtà vissuta. Amanti delle nuove tecnologie applicate al cinema, i due registi si sono inoltre divertiti a sperimentare riprese con la camera RED, un sistema digitale che presenta delle flash card compatte al posto delle cassette digitali.
TITOLO ORIGINALE: Gamer; REGIA: Mark Neveldine, Brian Taylor; SCENEGGIATURA: Mark Neveldine, Brian Taylor; FOTOGRAFIA: Ekkehart Pollack; MONTAGGIO: Fernando Villena; MUSICA: Robb Williamson; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 96 min.
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