Crash è il gioco mortale e inebriante di differenti umanità che si scontrano, volontariamente. In una città dispersiva, che la fotografia appanna e costruisce fin dai titoli di testa. In quei titoli, un nutrito elenchi di nomi più o meno noti, poco prima della loro inconsueta mescolanza nelle vicende trattate dal film. La complessità ritmica pulsa attraverso le storie, animate da diverse sensibilità e diversi meccanismi, intrecciate con delicatezza ma senza amalgama: proprio perchè i protagonisti di Crash non si accompagnano gli uni agli altri, ma si investono, e sembrano farlo non in virtù di una casualità passiva, ma a causa di un impulso totalizzante, insieme amoroso e violento.
Una coppia di giovani rapinatori, un poliziotto nero (Cheadle) e le indagini che lo legano alla sua compagna bianca. Poi un iraniano con il suo negozio di ferramenta e la sua forte figlia; un fabbro onesto, padre (Michael Pena) di una bambina. E ancora, le coppie: una di ricchi neri, una di ricchi bianchi. I volti troppo noti si annacquano, si perdono nella loro funzionalità alla storia, in cui esplode la bellezza atipica dei comprimari di sempre, e protagonisti di ora. Di questi ultimi è sviscerata la costante umiliazione, in modo distillato e semplice, nel suo essere una graffiante e crudele apertura al dubbio. Dubbio nei confronti delle sfumature della pelle, tante piccole ombre stratificate su percorsi alterni di solidità e devastazione. Dubbio anche nella rassicurante definizione del male, fallace da subito: è "male" quel poliziotto truce (Dillon), che viola l'intimità di una donna (Thandie Newton, direttamente da L'assedio di Bertolucci) e della sua coppia elegantemente "coloured", con irreale razzismo. Lo è eppure non lo è nell'assurdo della sua vita relegata. È invece "bene" il collega riflessivo, squadrato, ma dimentico del fratello.
La "blackness", la "nerezza", è un fardello antico e complice: della notte, della difficoltà di comunicazione, della giovinezza dei due ladri, che si incendia e si spegne uggiosa. Le sottili deviazioni del linguaggio, le aperture tra il gioco simulato di aggressione e l'aggressione vera e propria sconvolgono i due amici dai bassifondi come colpiscono il fragile, angelico novizio della volante (Ryan Phillippe), portandolo al crimine. E di angeli si continua a parlare, con la commovente, cantata vicenda della bambina colpita dalle "salve" di un commerciante rabbioso e terrorizzato. Angeli che scampano alla tragedia, che si insinuano invisibili, riuscendo ad evitare, letteralmente, il grande fuoco di un'auto incidentata e che, nonostante tutto, restano nella loro eterna nebbia impotente.
È in virtù di questa nebbia che il film si imprime, non per le consuete e già viste estremizzazioni delle violenze possibili, né per i lirici tentativi di sublimarle. Un sottofondo vocale, appena sintetico, collide dolcemente con questa amarezza metropolitana.
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