Speciale TORINO CITTA' DEL CINEMA - Torino e le capitali dell'immaginario del cinema europeo PDF 
di Mauro Brondi e Fulvio Montano   

Nato e sviluppatosi come fenomeno prettamente metropolitano, il cinema fa della città d'inizio secolo il luogo privilegiato della produzione (tournage) e del consumo, tanto che teatri di posa, sale di proiezione e locandine diventano ben presto parte integrante dell'arredo urbano. Baracche improvvisate si fanno cattedrali dello spettacolo in cui il pubblico assiste rapito da vere e proprie scene di magia urbana. (Dalle baracche alle cattedrali: scene di magia urbana è il titolo di un'interessante capitolo dedicato a cinema e metropoli di Buio in sala di Gian Piero Brunetta da cui sono tratte le citazioni che seguono; Gian Piero Brunetta, Buio in sala, Venezia, Marsilio editore, pagg.11-22). Si crea così un interessante parallelo tra la luce elettrica, "che emana dai piccoli bulbi di vetro, si propaga in tutte le città del mondo e si stende a macchia di leopardo comunicando energia vitale ed euforia emotiva alle cose, agli ambienti e alle persone", e la luce cinematografica che è la grande attrazione per il nuovo soggetto sociale notturno, tanto che "una massa sempre più gigantesca comincia, poco a poco, a seguire la cometa luminosa per giungere a sintonizzare lo sguardo verso la luce che colpisce lo schermo".

Sfondo vitale d'infinite pellicole dai Lumiére in avanti, la metropoli è, insomma, il luogo nel quale il cinema vive e si confronta con il pubblico. Scrive ancora Gian Piero Brunetta: "Le mura vengono varcate e i nuovi luoghi del divertimento popolare si offrono in tutto il loro splendore di giardini incantati o paradisi terrestri. Non a caso il nome Eden è usato indifferentemente per designare sale cinematografiche, birrerie e locali d'incontro e divertimento collettivo."

Vincolate, loro malgrado, da un legame di affinità quasi fraterna (vedi Torino nel cinema: l'identità imperfetta di Paolo Bertetto), cinema e città crescono tra dolorose decadenze e spregiudicati rinnovamenti, spesso specchiandosi l'uno nell'altra.
Ed è partendo da questa certezza che proponiamo il nostro viaggio-carrellata, parziale e totalmente soggettivo, intorno ad alcune capitali cinematografiche europee. Spunti per la riflessione, pellicole più o meno recenti (dagli anni Settanta fino a oggi) che si sono scontrate con la città nella città, elaborandola visivamente tanto da potersi considerare "sguardi d'autore" metropolitani o cittadini.
A questa serie si aggiungono alcuni sguardi d'autore su Torino, non solo per capire se Torino possa diventare una capitale dell'immaginario cinematografico (se lo sia già, o se lo sia già stata), ma anche per comprendere le potenzialità visive e visionarie di questa città, confrontandole con esempi "illustri" del cinema europeo contemporaneo.

Il viaggio parte, simbolicamente, da un estremo: la Lisbona di Wim Wenders (Lisbon Story, Germania, 1995). La capitale portoghese è per Wenders una città in cui poter cogliere suoni e visioni, nel tentativo di un recupero (forse impossibile) di un cinema e di una realtà. La città non è un semplice sfondo, ma universo da cogliere sul vivo attraverso il lavoro di registrazione del fonico (Rudiger Vogler) giunto a Lisbona alla ricerca del suo amico-regista scomparso. Qui il viaggio è ai confini dell'Europa, in una città dai molti colori, affacciata su quell'oceano che porta verso le Americhe (quelle passate: Lo stato delle cose, e quelle future: Crimini Invisibili e Buena Vista Social Club). Lisbona diventa così centro del mondo in cui si condensa la storia del cinema. L'omaggio di Lisbon Story a Buster Keaton e la dedica a Dziga Vertov evidenziano questo aspetto di città cruciale in cui il fare cinema torna ad essere artigianato, lontano dalle logiche produttive rigide e calcolate. I suoi vicoli stretti e nascosti dentro ai quali a malapena si snoda il tram costringono l'uomo di cinema a peripezie comiche, a invenzioni, a soluzioni nuove. Lisbona è quindi una commistione di colori, suoni (Madredeus), rumori in cui la libertà espressiva può esplodere nelle diverse forme.

Sfondo opprimente di tutti e dieci i film del Decalogo (Polonia, 1988-89), simbolicamente all'estremo  opposto dell'Europa, la Varsavia di Krzysztof Kieslowski è soprattutto periferia monotona da metropoli dell'Est, immersa nel fango e nella neve che si scioglie. Alveari di appartamenti dalle facciate bianco sporco in puro realismo socialista e meravigliosamente funzionali al tono realista del film sono fotografate come gli interni che abitano i personaggi, senza concessioni descrittive, in esterni grigi e mai in primo piano. Come dire, questa non è New York, qui la città non si sviluppa in verticale! È socialismo, non ci sono classi che si spartiscono i quartieri, sono tutti poveri allo stesso modo, tanto che è normale per il professore universitario o per il tecnico laureato condividere il pianerottolo del proprio appartamento con il tassista o con il verduriere. Ma non per questo la città non partecipa alla storia, anzi la giustifica. Con la sua architettura appiattita dall'uniformità il nucleo urbano non è altro che una delle tante manifestazioni del regime, in cui il centro è più interessante solo perché più antico.
La Varsavia del regista polacco è insomma l'alternativa socialista al caleidoscopico capitalismo delle città occidentali, una prigione senza sbarre, che chiude l'orizzonte e limita le possibilità.

Caleidoscopio di vite che ritroviamo nel film di Robert Guédiguian La ville est tranquille (Francia, 2000), in cui le esistenze più o meno infelici degli abitanti di Marsiglia scorrono parallele ignorandosi l'un l'altra, persino quando capita di incrociarsi per caso.
Qui in netto e voluto contrasto con i drammi che si rincorrono sullo schermo, una città indifferente e spietatamente solare si colora del riverbero variopinto del mare per farsi testimone, conseguenza degli avvenimenti che vi accadono.
I ricchi possono così starsene tranquillamente in alto, a dominare e progettare una città che saranno gli altri a vivere, mentre la lotta contro la precarietà dell'esistenza contemporanea si svolge in periferia e la povertà rimane confinata negli edifici cadenti del centro storico, a livello del mare.

A metà strada tra i due estremi l'Amsterdam anni Settanta di Paul Verhoeven, che in Turks fruits (Olanda, 1973) viene trasposta come entità partecipativa, che segue con empatia l'amore impossibile tra i due protagonisti.
Se la prima parte del film si snoda tra la romantica architettura del centro storico, impastata di quella turkish delight che rimanda al titolo e che fa da contorno al periodo felice della coppia, nella seconda parte la scena viene progressivamente conquistata dai vetri e dalle strutture asettiche dei modernissimi centri commerciali in cui alla coppia capita di incontrarsi, più in sintonia con la pazzia progressiva che il tumore al cervello causerà a Olga. Qui insomma, la città non è né causa né conseguenza, ma spettatore partecipe e in piccola parte attivo del dramma

Un ruolo simile lo svolge la Barcellona di Michelangelo Antonioni in Professione: reporter (Italia/Francia/Spagna, 1974) con la sua calda atmosfera caotica. I personaggi sembrano godere e soffrire muovendosi in una città in cui è bello perdersi, rincorrersi, ritrovarsi. L'architettura di Gaudì, protagonista sullo sfondo, concede loro pause miracolose ed epifaniche, contribuendo a dipingere un'atmosfera luminosa ma al contempo materiale. Particolarmente interessante il contrasto caos-calma che la città porta con sé: il traffico del centro e il rumore spersonalizzante contro il silenzio metafisico delle zone morte negli spazi gaudiani che conducono verso la consapevolezza e il dolore. Ed è di una bellezza dolorosa che si tratta, in una Barcellona "gialla" che è l'anticamera della morte, dolce e tragica.

E troviamo ancora la morte nella Berlino post-guerra fredda di Jean-Luc Godard (Allemagne Néuf Zero, Francia, 1992). Si tratta qui di un'atmosfera decisamente più gelida e reale rispetto a quella della metafisica città spagnola. La Berlino di Godard è fatta di blu e di chiaroscuri quasi tenebrosi, spaventosamente realistici come il volto invecchiato e malato di Eddie Constantine, protagonista del film. Il parallelismo volto-paesaggio e città-identità serve per descrivere una metropoli distrutta, quasi come se poco o nulla fosse cambiato rispetto a quell'altra Berlino di Rossellini (Germania Anno Zero). Le vetrine "glaciali" della Berlino occidentale che imprigionano i manichini e riflettono il traffico dei semafori sono presenze vuote e senza vita, così come svuotate e prive di forza sono le macerie nella parte orientale della città. La distruzione e la sterilità contraddistinguono questa Berlino fotografata con l'occhio del documentarista che procede sommando particolari e scorci fino a disegnare un quadro metropolitano desolante.

A prima vista facciamo fatica a cogliere questi sguardi d'autore nel momento in cui si arriva a Torino, che appare piuttosto una capitale dell'immaginario "prefabbricato" made in Fiat. Gli spunti più interessanti li presenta il cinema di genere con il fondamentale Profondo rosso (1975) di Dario Argento (vedi La topografia fantastica di Pietro Izzo e Torino nel cinema: l'identità imperfetta di Paolo Bertetto) che rielabora visivamente la città e la ricostruisce completamente attraverso uno sguardo visionario e allucinato, in cui si mescolano un certo gusto dell'essenziale (pensiamo alla sequenza notturna girata in piazza C.L.N. o alle visioni soggettive in villa Gualino), con una pesantezza barocca mai fine a se stessa (il volto dell'assassino all'interno dell'inquadratura dello specchio; la luce drammatica e intensa che pervade tutto il film). Ad oggi la pellicola di Dario Argento appare come quella in cui si esprimono al meglio le potenzialità visionarie di Torino, anche se non si possono trascurare alcuni altri lavori realisti, spesso collegati al mondo operaio e proletario, come Trevico-Torino (1973) di Ettore Scola, che dipinge una Torino fredda e indifferente, ma allo stesso tempo compagna amabile, città in cui riconoscersi. Scola elabora una sua Torino riprendendo le vie della città, ora semideserte, ora affollate, popolandola di volti e di sguardi. Ed è questo che notiamo maggiormente nel cinema ambientato a Torino: la città diventa spesso semplice sfondo perché l'urgenza di raccontare i personaggi attraverso i loro drammi reali e i loro conflitti è più forte rispetto all'ipotesi di raccontarli attraverso il protagonismo dell'architettura o, ad esempio, dell'illuminazione della città.

Anche Mimmo Calopresti (Preferisco il rumore del mare, 1999) si concentra sui volti, sui dialoghi, e anche sui silenzi, che però sono un'esclusiva dei personaggi e non della città: la storia quindi funzionerebbe benissimo anche in un'altra città del nord Italia come Milano o Bergamo. Ciò nonostante la Torino di Preferisco il rumore del mare appare più viva e interessante (pensiamo alle parti girate sul Monte dei Cappuccini, oppure alle scene girate nella periferia o sotto i portici di via Po) rispetto allo sfondo sterile e anonimo di La seconda volta (1995), dello stesso autore.

Probabilmente se Torino non può vantare uno sguardo maturo, elaborato e originale (come capita invece nel cinema più recente di altre città europee) è a causa del suo passato industriale. Torino non è stata una città, ma "la" città industriale per eccellenza e questo non ha permesso uno sguardo anti-naturalista e visionario, semplicemente perché la realtà, tanto forte e opprimente, ha condizionato la vita e la visione. Concentrarsi sui volti e sulle storie, individuali o collettive, è stato lo sforzo artistico e culturale dei molti registi torinesi, impregnati di reale e di lotte, vicini ad uno spirito documentaristico. La parola rielaborazione significa allora attenzione per i contenuti e per i messaggi che il film propone piuttosto che sperimentazione sul lavoro di messa in scena per "sognare" il reale.

Impegno civile e politico possono naturalmente combinarsi con sperimentalismi e sogni (pensiamo a quanto fossero impegnati e rivoluzionari sia esteticamente che politicamente i movimenti del cinema espressionista o surrealista) ed è per questo che siamo convinti che Torino debba ancora esprimere le sue potenzialità e debba ancora essere scoperta dal cinema e ispirare sguardi simili a quelli che questo rapido viaggio nelle capitali dell'immaginario europeo ha illustrato.
Dalla Liverpool dei Beatles alla Bristol culla del Trip-Hop, gli esempi non mancano, non resta che provare.

 


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