Il ripiegarsi del secolo: breve ricognizione sul western come forma simbolica PDF 
Umberto Ledda   

ImageRimarcare l’importanza del cinema di genere è ormai superfluo: prosecuzione tecnologica della narrazione popolare, ha avuto un’importanza sociale e mitica fondamentale per il secolo passato. Può essere interessante allora analizzare il discorso sul genere in una prospettiva non interna al cinema, ma in relazione alla società e alla storia, con intento quasi sociologico: analizzare come attraverso i generi cinematografici si siano perpetuate quelle strategie comunicative peculiari delle società umane volte a plasmare le coscienze degli spettatori al fine di creare una visione sociale comune. Da questo punto di vista, il cinema di genere diventa uno strumento non dalla sfera artistica ma della sfera politica, uno specchio (di volta in volta deformato, oscuro, appositamente mistificato, ma pur sempre uno specchio) che riflette le problematiche profonde e diffonde lo spirito del tempo.

ImageIn questa prospettiva sono quattro i generi cardine, diretti discendenti delle narrazioni archetipiche che da sempre hanno accompagnato la storia della civiltà: l’horror, la fantascienza, il noir e il western. È una visione certamente parziale (non rientra in quest’ottica, ad esempio, la commedia, in quanto strutturata secondo stilemi soprattutto linguistici e non contenutistici, come un punto di vista su costruzioni narrative svincolate dal genere), ma altrettanto sicuramente proficua: le strutture di questi generi/specchio si prestano a letture che via via rappresentano lo stato e le tematiche della società in cui si situano: lo fanno sottotraccia, dal basso, spesso dall’infimo, ma sono vettori inconsci degli squilibri, dei problemi, delle inquietudini dei mondi che li hanno partoriti. Ognuno lavora su una questione cardine per la definizione della figura umana all’interno dell’universo, sia naturale che sociale. Semplificando estremamente, l’horror si occupa del rapporto fra l’uomo e se stesso, in senso metafisico (l’uomo come vettore interiorizzato e circolare, ragion per cui l’horror è compatibilmente metaeuclideo), affrontando l’abisso inconoscibile che si intuisce dietro alla superficie fisica dell’universo e dell’identità. La sua figura cardine è la morte, il riferimento archetipico è la narrazione dei memento mori, delle danze macabre, i racconti folcloristici di fantasmi e morti redivivi. Il noir ha un compito simile (non a caso le strategie formali della messinscena dei due generi sono spesso compatibili): il suo compito è analizzare l’uomo con se stesso, ma in un quadro sociale, cioè il rapportarsi dello squilibrio interiore su un piano reale: la figura cardine è l’antieroe, cioè l’esplicitazione dell’impossibilità dell’appianamento della volontà con il mondo - la sua origine è nella narrazione dei fatti di sangue di cui da sempre gli esseri umani sono stati ghiotti, fin dall’inizio della civiltà. Del tutto differente è la funzione del western, che ha come tematica cardine l’uomo in rapporto con la propria volontà, l’individuo come vettore del proprio futuro - la figura chiave è l’eroe, il riferimento narrativo archetipico l’epica. Infine, la fantascienza. Il suo campo è il rapporto tra l’umano e il non umano (la riflessione religiosa e mistica nel cinema è passata spesso di qui). La sua figura caratterizzante è l’uomo reificato e l’alieno, inteso soprattutto come alterità pura, ontologica, rispetto al nostro universo. L’origine archetipica della fantascienza è rintracciabile nelle grandi narrazioni cosmogoniche dell’antichità.

ImageNel suo complesso il cinema di genere è una sorta di specchio (come già sottolineato, di volta in volta oscuro oppure mistificante) della storia che lo ha raccontato: uno specchio collettivo, a differenza del solipsismo del cinema autoriale. Il western è, dei quattro generi cardine, quello apparentemente più vincolato, il meno libero, legato com’è ad una serie di situazioni e temi estremamente standardizzati. La sua vitalità è però assoluta, perché a partire da un bagaglio contenutistico in fondo monotono e affatto universale, ha seguito il dipanarsi del secolo rispecchiandone gli umori e restituendo una visione del mondo variegata, duttile, estremamente significativa: al punto da rendere possibile una storia del Novecento occidentale visto attraverso le pellicole western. Ne emerge un percorso parallelo e complementare a quello della storia sociale: una prima parte storica di grande propositività e vitalità (per quanto mossa da istanze di propaganda) cui fa riscontro una seconda estremamente disillusa, nichilista, dominata da un intenso presentimento di morte. Il western nasce, ancora prima del cinema, come mito della fondazione per il popolo statunitense, con una forte impostazione didattica: si tratta, di fatto, della narrazione delle gesta e degli eroi e dei padri comune a tutte le società. Tutti gli elementi contenutistici rimandano alla stessa sfera mitica: i reietti in fuga, bistrattati, alla ricerca della nuova terra, il luogo dove, attraverso la purificazione del viaggio, si possa ricominciare una nuova vita; la necessità di costruire un mondo partendo dal nulla, la capacità di vincere sulla natura: lo stesso tema della redenzione, ricorrente (si veda soltanto Ombre rosse), rimanda all’epopea dei transfughi inglesi, una fuga che si trasforma in conquista vittoriosa. Esiste con chiarezza un elemento propagandistico, e quindi esplicito, nella sua rappresentazione, ma si tratta di qualcosa che risponde ad un bisogno ben più arcaico: mentre la propaganda è sempre una didattica dall’alto, le motivazioni che sottendono al western nascono dall’anima stessa del popolo. Un grande manifesto americano, collante mitico capace di trasformare le persone in gruppo. Il western classico dei Ford e degli Hawks è la cosmogonia, il sorgere (o risorgere) dal caos della legge, dell’ordine, della civiltà. E, come le antiche narrazioni orali che avevano il preciso scopo di offrire coordinate interpretative ad uso del gruppo di destinatari, contiene i precetti che costituiscono il decalogo della società statunitense: l’individualismo, la meritocrazia, il mito della seconda opportunità, il liberismo esistenziale. Tutto l’armamentario del western risente fortemente di questa esigenza: le figure del western classico, così come si venne a formare nella prima parte del secolo scorso (lo sceriffo, il cowboy) sono vettori semantici del raggiungimento dell’ordine, la forza della costruzione, la protezione, mentre l’oppositore tipo, l’indiano, ha il solo ruolo, nella sua assenza di connotazione, di rappresentare l’ostilità, il caos, la natura ostile da soggiogare. Gli stessi ruoli narratologici sono evidenti nei luoghi utilizzati: il deserto da attraversare prima della frontiera e le piccole comunità assediate dal nulla sono simboli estremamente evidenti. Il luogo per eccellenza del western classico americano è però l’orizzonte, e la relativa connotazione di ideale da raggiungere, di ingenua volontà di dominio: il paesaggismo del western è scopertamente filosofico. Gli americani rafforzano attraverso il western la propria coscienza di popolo, costruendo eroi a misura dei propri ideali: da questo punto di vista l’eroe della classicità western, John Wayne, è il Romolo dell’impero americano.

ImageLo sviluppo del western cinematografico avviene in un periodo - i primi quarant’anni del secolo - cruciale per il mondo. L’Europa è schiacciata dalla crisi e dal riassetto epocale che porterà alla Seconda Guerra Mondiale. Gli Stati Uniti sono la potenza politica emergente, e già dopo il loro intervento nel primo conflitto appaiono ad un’Europa decadente come il luogo della libertà assoluta, della costruzione di un nuovo mondo, della tabula rasa di tutte le discordie millenarie del vecchio continente. È certamente una visione che ha a che fare più con l’immaginario che non con la realtà: il genere western è in questo momento uno specchio idealizzante, deformato, votato al compito di tramandare un’immagine stabile e forte di una società, quella americana, assolutamente non immune ad aspetti deteriori e ad una condizione di crisi. In fondo, furono i sommovimenti posteriori al martedì nero del 29, e l’effetto domino del crollo industriale, che aggravarono la crisi dell’economia europea, strettamente dipendente dalle finanze Usa dopo lo sfacelo della Grande Guerra. Attraverso questa mistificazione estremamente affascinante il travaso della mitologia americana in quella europea è semplificato, e ancora di più lo sarà dopo la Seconda Guerra Mondiale. I temi del western sono stati gli educatori degli americani, ma l’America è nel frattempo percepita come l’educatrice del mondo, attraverso un’immagine tragicamente semplificata ma storicamente ineccepibile: è il paese della Libertà. Ed essendo il western il genere della libertà, della rinascita, pur essendo così radicato nella storia e nella cultura statunitense, può diffondersi anche nell’Europa, e soprattutto in un’Italia che in tema di America e libertà aveva ricordi brucianti. Il western ha avuto più influenza sull’Italia di quanto non abbiano fatto i condizionamenti politici conseguenti al piano Marshall (in un’epoca in cui il fumetto aveva un’importanza capitale all’interno della cultura popolare: Tex nasce nel 1948), risultando un importante cavallo di Troia popolare per il consolidamento della penisola nel blocco occidentale. Si radica talmente da poter assumere su di sé anche la mitologia italiana, adattandosi e deformandosi ad una mentalità completamente avversa a molti dei temi americani. E li assume anche andando contro la mitologia didattica statunitense, dando paradossalmente voce ad una società legata al mito dell’America ma immersa in una cultura che non riesce a capirlo più di tanto. Se il machismo è addirittura esaltato, ad esempio, non può esserci traccia del mito della frontiera: mantenuto come struttura tematica, si svuota di senso, preparandosi a rivestire altri ruoli simbolici.

ImageCon la fine del conflitto mondiale, e l’instaurarsi della Guerra Fredda, finisce la necessità di tramandare alla società una mitologia legata alla costruzione, e inizia quella, più urgente, di esaltare i valori del mantenimento, della sopravvivenza della società (si veda ad esempio Il cavaliere della valle solitaria). La situazione internazionale, dominata dal rischio, dall’instabilità congelata della Guerra Fredda, porta ad una migrazione contenutistica decisiva anche se non ancora esplicita, temi e strutture si adattano ad atri significati. Quello che generalmente rimane è il positivismo americano. Il mito della seconda opportunità e della rinascita (Un dollaro d’onore), l’ottimismo storico e didattico, sono stabili nonostante le mutazioni storiche: il western continua nella sua funzione propagandistica e didattica, alterandola però in ossequio alle mutate condizioni e alle diverse inquietudini. Il brusco cambiamento di prospettiva, che trasformerà il western da strumento di proselitismo ideologico a specchio (spesso negativo) della società, arriva però dall’Italia, ad opera di Sergio Leone, che inizia con Per un pugno di dollari a scardinare quanto costruito prima. Il suo western affatto americano e per nulla ottimista salva del genere solo l’involucro tematico, ma lo riempie di significati del tutto alieni. Inoltre, esasperando la connotazione epica e il machismo individualista, di fatto porta all’iperbole l’elemento mitico, creando un genere apertamente antirealistico, che porta la fruizione su un piano sempre popolare, ma radicalmente meno didattico. Le figure dell’universo western di Leone non sono più i detentori della legge ma i suoi avversari (pistoleri solitari, cacciatori di taglie, assassini e criminali di vario genere, tutti in vario modo portatori di morte), in un mondo dominato dal caos e dalla putrefazione sociale. Anche la valenza del paesaggio cambia: nel western classico il deserto aveva bene o male una frontiera dietro, ora si tratta solo di deserto, di sete e di sole implacabile. Il cambiamento interno al genere è tematicamente assoluto e nulla mantiene dello spirito statunitense. Il mondo è dominato non dalla possibilità del meglio, ma dalla certezza del peggio. È un western barbarico, non si parla della conquista della civiltà ma della sopravvivenza della civiltà (come già aveva iniziato a fare il western americano, ma con una diversa prospettiva). La violenza smette di essere incruenta e si fa sadica (la carne entra nel linguaggio di genere); i luoghi sono sporchi, ma non è il fango della fatica, è laidezza morale; gli uomini agiscono per soldi, essendo la tensione ideale estranea ad un italiano. La morte sta sopra tutto, come sottolineato, in Per un pugno di dollari, dallo splendido momento di commedia all’italiana dove il becchino stima ad occhio le misure di Clint Eastwood.

ImageL’opera di Leone costituisce la svolta definitiva all’interno del genere: il suo successo spropositato (centinaia di film negli anni seguenti, in una esplosione stilistica che portò a titoli decentrati e interessanti come Oro Hondo, Keoma, Il grande silenzio e, contemporaneamente, a pellicole mediocri ma di successo, da Django fino alla più totale aberrazione) arrivò anche negli Stati Uniti, deviando pesantemente il percorso del genere, senza far venir meno né la sua componente estremamente popolare, né la capacità di rappresentare le inquietudini e le tematiche del proprio tempo: solamente, il western non le rappresenta più con l’ottimismo propagandistico della classicità, ma attraverso una deformazione grottesca e corrotta. In America il tempo della contestazione portò alla rivisitazione riveduta e corretta del genere, attraverso un western revisionista che portò a film di grande valore sociale ma di valenza limitata all’interno del genere, in quanto si riproponevano di resuscitare l’elemento didattico del western classico, semplicemente adattandolo alla nuova ideologia. In maniera molto più vitale il western si adattò alle tensioni del tempo assimilando il nichilismo mortuario che Leone aveva inaugurato: nel 1969 Il mucchio selvaggio porta l’epica nei luoghi della tragedia, testimoniando, a paragone con i capolavori del passato, l’inequivocabile ripiegarsi del secolo verso una progressiva perdita di fiducia, in un clima di generale disfacimento. L’impostazione barocca e formalistica aggiunge forza alla sensazione di sgretolamento esistenziale e fa un passo in avanti nella definizione filosofica dei contenuti di genere: se nel western classico si combatteva per conquistare, e in Leone per sopravvivere, nel film di Peckinpah si lotta soltanto per morire con onore.

ImageVerso la fine degli anni ’70, e lungo tutto il decennio successivo, il genere si disperde. Nato come sistema di narrazioni didattiche per costruire e diffondere (a costo di omissioni e deformazioni, come per tutte le forme di propaganda) la mentalità del popolo americano, e trasformatosi nei ’60 nello specchio oscuro, laido, cupamente parodistico (per quanto paradossalmente più reale), di quello stesso ideale che metteva in scena, il western perde la sua spinta propulsiva. Sono gli anni in cui il cinema perde la sua centralità di fronte alla televisione, delegando in questo modo ad altri media il ruolo di divulgatore dello zeitgeist. Smettendo di essere un medium compatto, il genere smette ad un tratto di costituire un punto di riferimento, continuando sporadicamente a produrre pellicole che raramente aggiungono qualcosa rispetto a quanto già detto (il buonismo spettacolare, figlio del western revisionista di Balla coi lupi). Allontanato dalla sua matrice popolare, il western diventa una struttura pronta a ricoprirsi delle riflessioni del cinema d’autore. E se da una parte Clint Eastwood riprende molti elementi classici per costruire, con Gli spietati, l’ennesima pietra tombale al western, con il suo protagonista in disfacimento, con la sua riflessione amarissima, il genere rinasce qualche anno dopo, con Dead Man. Jarmush adotta una strategia comunicativa raffinata, non alterando le coordinate narratologiche del western, ma invertendone la rotta: Dead Man è la storia della conquista di una nuova terra, ma quest’ultima, lungi dall’essere l’eden del classicismo, si identifica con molta chiarezza con la morte. La conquista del sogno è la conquista della fine, e non si tratta nemmeno di una entrata in se stessi, quanto proprio dell’appropriarsi della terra più estrema, l’aldilà, il nulla.  

Sembrerebbe il coro funebre per un genere ormai anacronistico, ma il western continua inaspettatamente a mantenere la sua vitalità: con l’insorgere del postmodernismo cinematografico, con il suo utilizzo in chiave pop e significante degli stilemi del cinema basso, viene riportato all’attenzione del pubblico di massa, paradossalmente svuotato del proprio elemento genuinamente popolare. Nel cinema di Tarantino il western è ricorrente (da Le iene fino all’omaggio esplicito in Kill Bill), ma è preso sempre e soltanto come stilema, come elemento superficiale investito dall’alto di un significato formale: è un cinema che del western mantiene il machismo aulico ma ne tralascia le motivazioni poetiche che lo sostenevano. Tarantino (e il suo discepolo Rodriguez con risultati generalmente inferiori) hanno da una parte impoverito il genere, prendendo spunto da un superficiale immaginario fanzinaro (che cita con identico compiacimento Leone e il peggior spaghetti Western), mentre dall’altra lo hanno reintrodotto con prepotenza all’interno dell’immaginario popolare. E così, mentre si intensifica la produzione western intellettuale (il già citato Dead Man, Le tre sepolture, ma ancora più esplicitamente, seppur con risultati incomparabili, I segreti di Brokeback Mountain), il western rinasce per l’ennesima volta anche come genere di massa, passando dai generi bassi, prima di tutti la televisione (un esempio su tutti, Deadwood, serial prodotto da Walter Hill). Ormai privo della qualifica di genere guida, il western continua ad essere un serbatoio estremamente duttile e adattabile a istanze sia commerciali sia artistiche. La sua sopravvivenza è incerta, ma rimane il fatto, effettivamente incredibile, che nell’epopea, o nell’antiepopea, di un mondo mitico ormai del tutto estraneo e implausibile, la società del terzo millennio in qualche modo riesca ancora a vedere se stessa.

 


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