Guido Chiesa PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageLa prima domanda è forse un po’ scontata, probabilmente te l’avranno posta in molti: vorrei sapere come ti è venuta l’idea di lavorare sul tuo ultimo documentario, Le pere di Adamo, accostando due temi per analogia, due temi apparentemente molto diversi tra loro; e poi, nello specifico, perché scegliere proprio questi due temi principali, cui poi si aggiungono almeno un terzo e forse un quarto argomento…
In genere non amo molto fare i riferimenti cinefili però qui vale la pena: in realtà il meccanismo l’ho visto in atto in un film di Errol Morris, un film che si chiamava Fast, Cheap and Out of Control, in cui appunto quattro storie assolutamente differenti tra loro si alternavano per raccontare un concetto; mi è sembrata un’idea intelligente per fare dei film saggio senza utilizzare alcuni strumenti, come la voce fuori campo, che trovo sempre un po’ accademici e cattedratici; privilegiando invece i mezzi propri del cinema, come ad esempio il montaggio. Questa tecnica è molto consueta in campo letterario: penso ad un filosofo sloveno che personalmente mi diverte molto, Slavoj Zizek, che scrive saggi di politica o di filosofia, unendo psicanalisi, critica dello star system, etc…

Sì, conosco alcuni libri.
Ecco, al cinema non l’ho visto fare molto, ma l’ho visto fare ad Errol Morris: questo è stato il background da un punto di vista stilistico, dal punto di vista del linguaggio. L’idea di questo accostamento specifico invece nasce essenzialmente da una lunga frequentazione di movimenti, avendone fatto parte e in particolare avendoci riflettuto molto nell’epoca che è andata tra il 1999, con la formazione del movimento di Seattle, fino a quando ho terminato Lavorare con lentezza: anni in cui tra l’altro ho potuto vedere molto da vicino l’evolversi e il concludersi di un movimento, perché quello di Seattle nel 2003, con la guerra in Iraq, era già concluso. Questa rinnovata vicinanza, con un’età diversa rispetto al movimento del Settantasette, quando avevo diciassette anni ed ero appena un ragazzo, e soprattutto con un movimento diverso in cui l’elemento ideologico era del tutto sfumato, mi ha spinto a fare una serie di riflessioni: in parte nascevano da una forma di rifiuto della politica, dalla comprensione che la sfera politica non riesce a tener conto di tutto, e che l’idea, diciamo di derivazione illuminista filtrata attraverso Marx, di una storia con una direzione, con delle leggi comprensibili e modificabili, non funziona; in un certo senso Marx arrivò a sistematizzare e a condurre alle estreme conseguenze elementi che in realtà preesistevano nella cultura meccanicista. Ma la storia, e in particolare la storia dei movimenti politici, è qualcosa di molto più gassoso che meccanico; perciò ho pensato a questa analogia con le nuvole, a parte il fatto che quando mi è venuta questa idea stavamo montando Lavorare con lentezza, era il 2004 credo, e in generale a Roma ci sono sempre delle nuvole bellissime, ma in quel momento erano veramente pazzesche.

ImageQuindi si tratta al tempo stesso di una riflessione e di un’intuizione istintiva.
Esatto. A quel punto il primo passaggio è stato studiare le nuvole, e la similitudine si è accresciuta perché l’analogia sembrava sempre più fruttuosa; proseguendo si è arricchita di qualcosa di nuovo nel momento in cui ho fatto leggere il soggetto e ne ho parlato con alcuni miei amici, scienziati, i quali mi hanno detto, più o meno tutti in maniera concorde, che l’analogia era molto bella dal punto di vista poetico, ma stavo mischiando, per così dire, le pere con le mele; mischiavo ciò che pertiene al campo fisico, alla materia, le nuvole, che non sono vapore ma goccioline d’acqua sospese nell’aria, agli esseri umani, che sono sì sostanza fisica ma al tempo stesso sono molto più complessi. A questo punto sono intervenute due cose; da un lato la storia della meteorologia, che è la storia della ricerca dell’esattezza di una previsione, e di un relativo fallimento, dal momento che gli strumenti che noi utilizziamo, cioè i numeri, non riescono a tenere conto della complessità del reale; dall’altro lato un discorso ulteriore, perché non a caso le recenti teorie del caos e della complessità partono dalla meteorologia. Questo passaggio successivo ha fornito la risposta ai dubbi sollevati dai miei amici scienziati e mi ha spinto ad introdurre un altro personaggio, che in qualche maniera rappresentasse una possibile sintesi. La nostra incapacità, della nostra razionalità, di tener conto di tutto, è un limite costitutivo; questo limite ci può o gettare nel nichilismo, oppure lo possiamo utilizzare come una possibilità di vivere un’esistenza che non pretende di voler risolvere tutti i problemi, ma che continuerà ad avvicinarsi sempre di più alle soluzioni. Questo lo dico, e ci tengo a specificarlo, perché ho letto una recensione in cui si affermava che il film sposa le recenti teorie del caos e della complessità. Non è vero. Io non le sposo affatto; da umanista so che la realtà è molto complessa, ma da razionalista ho sempre pensato che potevo conoscerla tutta, comprenderla tutta, fino a poter risolvere tutti i problemi dell’umanità; banalizzo, ma è così. Lo stesso recensore poi scriveva, era una recensione complessivamente molto negativa, che in fin dei conti il film sostiene che non c’è nulla da capire, e questo l’avevano già detto, molto meglio, i Monty Python. Non è così; è innegabile che i Monty Python, per quanto mi stiano molto simpatici e li trovi divertenti, siano dei nichilisti; per loro non c’è niente da capire; per me invece c’è una legge, un ordine, ma non possiamo conoscerlo attraverso la razionalità. C’è un ordine in Mozart, ma non capiremo mai Mozart solamente utilizzando i numeri perché c’è un elemento di cuore, di emozione, quell’imponderabile che rende Mozart, Mozart! Questo è molto diverso dal nichilismo; questo vuol dire semplicemente che non possiamo tenere separati i discorsi: le pere e le mele nella realtà sono mischiate, e non c’è la fisica e la politica, la musica e l’umanesimo, etc.; tutto è invece collegato. In questo senso una serie di presunzioni che l’uomo illuminista si è portato dietro nel processo di secolarizzazione della società sono da rimettere in discussione. Chi l’ha detto che di fronte alla malattia non faccia più bene una preghiera che un medico? I medici, dopo quattrocento anni, non sanno ancora cosa sia la polmonite, sanno come curarla ma non sanno cos’è; o non sanno come ti viene il mal di testa: hanno vagamente capito come curarlo ma non sanno cos’è o da dove nasce. Perché uno psicologo ha meno importanza, nel curare un mal di testa, di un medico? Ci sono questioni molto gravi, come la questione ambientale, per tornare a noi, che evidentemente non possono essere lasciate solo agli scienziati, o ai politici, o agli economisti.

ImageA nessuno in particolare, certamente. Prima accennavi al montaggio; in effetti si tratta di un film assolutamente basato sul montaggio, un film cioè che usa il montaggio come strumento essenziale alla formazione del senso. Come avete lavorato per avere questi risultati? C’è stata prima un’accumulazione del girato e una ricerca del materiale d’archivio sulla base di una sceneggiatura da rispettare, oppure è proprio in sala di montaggio che si è venuto a comporre il tutto, nelle proporzioni definitive?
C’era una sceneggiatura, alla quale ho collaborato con Wu Ming 3. Il rapporto con lui è stato molto semplice: io avevo le idee e lui è stato il mio interlocutore; io da neofita arrivavo lì e gli spiegavo cosa volessi dire, e lui mi criticava, mi diceva cosa non si capiva. Così si è formato un canovaccio, che si è poi però completamente trasformato in fase di montaggio; ad esempio, non pensavamo di far vedere il ragazzo scozzese fin da subito; o ancora la storia della meteorologia doveva essere molto più invischiata con tutto, ma rischiava di perderci: è stato un film che si è costruito molto durante la realizzazione. Il terzo personaggio doveva essere una donna, una fisica, volevamo che fosse di lingua anglosassone e abbiamo cercato a lungo in tutta la Gran Bretagna;  ma alla fine è stato Ian, il ragazzo, ad imporsi: un matematico musicista. La musica del resto la volevamo da sempre, perché ci sembrava un bel riferimento, ma avevamo cercato, ad esempio, anche chimici pittori o altre figure particolari; invece alla fine è venuto lui. Io della matematica avevo un po’ paura perché ne sapevo meno…

Pensavi che le cose potessero farsi troppo complicate?
Sì, ed era dovuto, come ti ho detto, al fatto che non la conoscessi bene; ciononostante lui si è imposto come un personaggio giusto, perché ha fatto quadrare il cerchio: alla base di tutto c’è la matematica, prima dei problemi della fisica. Tutte le scienze applicano la matematica per simulare: la stessa meteorologia fa un passo, dal medioevo in avanti, perché inizia a simulare, e funziona benissimo, solo che funziona fino ad un certo punto.

ImageSenti, prima hai chiarito l’origine del meccanismo mediante questo riferimento a Errol Morris. A me invece vedendo il film era venuto in mente Godard. Non tanto nel senso di un’influenza o un richiamo diretto, quanto nell’aver avuto l’impressione che se ad oggi certo cinema è possibile, gran parte del merito va a Godard. Mi riferisco in particolare alla sua produzione più matura, quella degli anni Ottanta e Novanta; non so, per farti un esempio preciso potrei citarti Je vous salué, Marie, in cui il montaggio alterna liberamente situazioni apparentemente irrelate sulla base di un’affinità concettuale; un procedimento che poi sarà alla base di film ancora più radicali come Allemande 90. Neuf zero. Rispetto a quest’uso del montaggio: passare attraverso situazioni differenti nel tentativo di ritrovare affinità profonde, vorrei sapere se il tuo eventuale rapporto con l’autore delle Histoire du Cinema ha una relazione con il film.
Sicuramente sì, come tutto ciò che ho frequentato. Tuttavia, se avessi pensato che lo stavo facendo perché lo aveva fatto Godard non avrei realizzato questo documentario. Considera che, riallacciandomi a quanto dicevo prima, mi ha liberato molto scoprire che Errol Morris la pensa all’opposto di me. Lui è un meccanicista, un empirista totale, è un ateo convinto. Io non sono un credente, ma oggi mi guardo bene dal mettere in dubbio le religioni, perché hanno un potere straordinario nei confronti delle persone, e ironizzarci sopra in nome della ragione mi sembrerebbe molto pericoloso. Mi ha molto aiutato capire che era un mio percorso. Poi senza dubbio influisce la visione di alcuni film, anche se, ti confesso, non ne ho visti molti del Godard recente…

È chiaro che per il tuo lavoro, per il tuo discorso personale, devi attuare un’emancipazione culturale dal sistema dei riferimenti; io però mi riferivo ad un piano più strettamente metodico.
Capisco; allora però forse in quel senso per me è più determinante Dziga Vertov. O magari Chris Marker di Sans soleil, per farti un altro esempio. Ad ogni modo sono cose che mi sono cresciuto io, nel tempo. Io invidio molto la capacità di certi registi, non so, Lars Von Trier per fare un nome, di cominciare con i film con cui hanno cominciato, subito ad un certo livello; io devo andarci poco per volta, lo strumento diventa mio poco per volta. 

ImageIn questi ultimi anni il documentario sta conoscendo, se non proprio una ripresa, perché in fondo, magari lontano dal grande pubblico, è sempre esistita una produzione documentaria di altissima qualità, un allargamento degli orizzonti distributivi; c’è stato il grande successo di un film come Il grande silenzio, di Philip Groning, e poi Herzog che continua a realizzare film veramente straordinari, o ancora Nicolas Philibert, con Essere e avere. In Italia tuttavia, secondo me, è ancora troppo vincolato alla struttura ad inchiesta, di tipo giornalistico, per quanto gli esempi possano essere anche in questo caso di ottimo livello. Mi sembra che questo tuo lavoro, pur muovendosi parzialmente in una struttura di questo tipo, manifesti l’esigenza di ampliare e modificare i confini del documentario, al punto da voler rifiutare l’idea stessa del documentario come un genere, o come qualcosa di contrapposto alla finzione. C’è bisogno secondo te di questo ripensamento complessivo della forma documentaria?
Direi di sì, ma in realtà per me è tutto il cinema ad aver bisogno di un ripensamento, e di un’innovazione costante; oggi in Italia forse in modo particolare. Per quanto mi riguarda poi è un percorso che già ho iniziato da tempo nel documentario: Alice è in paradiso aveva delle sequenze animate, oppure il lavoro su Novi Ligure, Sono stati loro, all’interno sviluppava una parte di fiction; quindi, da questo punto di vista, ho sempre cercato uno scambio tra i linguaggi. Per me c’è una sola cosa: il cinema, che è la capacità di raccontare, di emozionare, e quant’altro; poi se lo faccio con la fiction televisiva, se lo faccio il film di finzione, o con il documentario, mi cambia poco. In mezzo ho fatto un lavoro, chiamato Il cuore del soldatino, che è stato solo a due festival, e che diventerà probabilmente l’inizio di un futuro documentario, forse più vicino al cinema sperimentale; ma la parola cinema sperimentale mi imbarazza molto. D’altra parte io non ho nulla contro il cinema ad inchiesta; mi preoccupa soltanto il fatto che si creino dei casi come Michael Moore, o ancora peggio direi Al Gore, in cui la posizione diventa un po’ cattedratica, allora tanto vale mettere la voce fuori campo. Tra vedere Una scomoda verità di Al Gore e una puntata dei programmi di attualità, in televisione, non ci vedo una differenza sostanziale. C’è solo una persona che sta parlando, che mi sta trasmettendo le informazioni; ma chi è? E perché non mette in gioco alcun dialogo con lo spettatore, mentre mi sta dicendo addirittura come è fatto il mondo. Come cineasta ho sempre preferito un approccio diverso, meno autoritario e neanche oserei dire dialettico, ma più dialogico per l’appunto, in uno scambio con lo spettatore.

Devo dire che a me è piaciuto molto il film; una delle cose che mi ha lasciato meno convinto però sono le parti realizzate con il cartone animato, non tanto in sé, quanto perché ho avuto l’impressione che le avessi anche inserite in certi punti per facilitare un po’ la comprensione, perché qualcosa dell’analogia fosse più chiara. Mentre io ritengo che l’analogia fosse sufficientemente comprensibile, e anche qualche momento più confuso o enigmatico di certo non ne avrebbe diminuito il fascino.
Può darsi, anche se qui si entra nel campo del soggettivo; ad ogni modo però volevo tener conto del mio percorso; ed è anche vero che senza quell’incipit ci sarebbe voluto forse un po’ troppo per capire di cosa si stesse parlando.

ImageÈ vero, e d’altra parte anche il finale mi sembra decisivo nella configurazione compiuta del discorso.
Certo, per cui metterlo solo all’inizio e alla fine sarebbe stato un po’ difficile; anche lì abbiamo lavorato, tolto, spostato. Perché se fai un film tipo Natale in India, ti immagini uno spettatore che ha un certo tipo di risposta; e questo è un film che o lo fai per una nicchia ristretta di persone, o se vuoi allargarti un po’ qualcuno o qualcosa deve aiutarlo. Non a caso molti, nonostante l’aiutino, dicono di non capire. Ciò detto tieni presente che quando il personaggio animato cammina nella galleria per me non si limita a spiegare, ma aggiunge qualcosa, raccontando che questo è il modo  in cui l’umanità si è immaginata dal Seicento ad oggi; e non so se tutti sarebbero d’accordo…

Quindi c’è un elemento chiarificatore ma anche una via per introdurre altro materiale, altri spunti. Questa continua commistione tra i linguaggi, compresa ovviamente l’animazione, mi fa pensare che nel tuo stile è passato molto del movimento del Settantasette; quando avevo visto Lavorare con lentezza credevo, e soprattutto questo mi era piaciuto del film, che fosse dovuto ad una compenetrazione con i temi e i personaggi trattati, evidente sia nel montaggio che nella struttura narrativa; ho ritrovato tutto ciò in Le pere di Adamo, adattato alle diverse esigenze: è dunque qualcosa che ti appartiene indipendentemente, che ti caratterizza come autore?
È qualcosa che è venuta strada facendo; i miei primi film erano molto diversi, con la macchina molto ferma, tutto un altro stile; è venuta strada facendo e mi corrisponde molto del resto. Il mio prossimo film però sarà ancora diverso: dipende molto dalla storia che si vuole raccontare, io lascio che sia il film a richiedere un certo lavoro; è vero anche che vedo la realtà contemporanea molto sfuggente e frammentaria, e quindi un certo modo di raccontare, con la macchina che si muove o con il montaggio veloce, ne tiene meglio conto. Probabilmente il prossimo film, che racconta la storia di Maria di Nazareth, la sua gravidanza e la sua maternità, sarà un film che, essendo ambientato nel passato, essendo lei così tranquilla, serafica, pur all’interno di una storia non priva di elementi di ambiguità e frammentazione, dovrà contenere entrambi gli elementi.

 


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