Non è mai un compito facile quello di approcciare (e recensire) il lavoro di una cineasta che si considera spesso sopravvalutata: il rischio che si corre è quello di banalizzare un lavoro potenzialmente interessante a priori, o di volerne esplicitamente sottolineare i difetti anche quando fossero trascurabili. A questo ho pensato di fronte alla locandina dell’ultima fatica di Susanne Bier, prima di entrare in sala e raggruppare le idee intorno comunque ad un assunto di base: nonostante un indubbio talento visivo, infatti, la regista danese non è mai stata, a parere di chi scrive, in grado di mantenere lo stesso standard qualitativo per i suoi lungometraggi, facendosi spesso e volentieri cullare da un’altalena di risultati che, ad ogni nuova visione, ponevano dubbi che parevano fugati dall'opera precedente. Alle riserve sull’effettiva compiutezza della regista, si aggiungano poi quelle riguardanti una produzione che, come spesso è accaduto nel corso delle ultime stagioni cinematografiche, ha lavorato affinchè un nome promettente – in questo caso europeo – fosse “importato” per dare una scossa a quel cinema d’essai che tanto la cultura a stelle e strisce pare invidiare al resto del mondo: da Wong Kar Wai a Gonzales Iñarritu, passando attraverso Gavin Hood, i nomi che figurano in questa lista di “vittime” delle grandi produzioni sono, appunto, molti, e spesso altrettanto premiati nei festival di tutto il mondo. Non fa eccezione la Bier, che, proiettata negli States, lontana dai Dogma, si ritrova a dover gestire una pessima sceneggiatura e due superstar quali i premi Oscar Halle Berry e Benicio Del Toro, spalleggiati da un rispolverato David Duchovny, che, onestamente, trova una sua dimensione solo ed esclusivamente fra le pareti del piccolo schermo. Casualmente (?) i due protagonisti si ritrovano in ruoli che hanno consolidato la loro fama e, di certo, fatto esplodere la loro stella ad Hollywood: Halle Berry, così come in Monster's Ball – che le valse l’ambita statuetta – torna a piangere un marito perduto tragicamente, mentre il sempre più “maledetto” e bradpittiano Del Toro ricalca un ruolo che gli valse la nomination in 21 grammi. I dubbi sulla costruzione di quest’opera, ancor prima della scrittura non esemplare, aumentano quando, in misura maggiore nella prima metà della pellicola, inquadrature ad arte legate all’acqua e alla pioggia, alle lacrime e alla maternità, si insinuano fra uno stacco e l’altro, quasi a voler distogliere lo spettatore dalla pochezza dei passaggi chiave – e di semplice logica – dello script: ottima fotografia, scelte esteticamente azzeccate, simbolismi chiari, eppure troppo semplici ed imposti da risultare falsi, pretenziosi e vuoti, almeno quanto la stanca e ripetitiva colonna sonora di Santaoalla, anch’egli premio Oscar, anch’egli “importato”, anch’egli parte della nutrita schiera di autori figli di questo nuovo filone della Hollywood “impegnata”. Giunti nel mezzo, dell’opera e del pezzo, la domanda sorge dunque più che legittima: il lavoro di Susanne Bier vale il costo di un biglietto? O, più universalmente, può essere considerato un bel film? La risposta è chiara e non prevede dubbi: no. Eppure, se ribaltassimo le due domande, il risultato non cambierebbe: Noi due sconosciuti vale certo il prezzo del biglietto, se paragonato a moltissime altre opere regolarmente in programmazione nelle sale, e, a ben osservare, non è neppure un brutto film. Così, passo dopo passo, quasi fossimo compagni di riabilitazione di Benicio Del Toro, seguiamo la sceneggiatura districarsi dai luoghi comuni e dalle banalità ed evitare quella malsana idea che distribuzione e critico (cinematografico) sospetto suggeriscono fin dalla già citata locandina fuori dalla sala, distendere i nervi grazie ad un ottima spalla – il vero punto focale, dal punto di vista attoriale, della pellicola: John Carroll Lynch – ed alleggerirsi di quella forzata vena autoriale che tanto pare piacere ai radical chic d’oltreoceano, per chiudere, pur se non in bellezza, facendo tesoro di quello che di positivo ci si è ritrovati, come una mano non felice in una partita a carte o una dipendenza che costa fatica, costanza e determinazione affrontare un giorno dopo l’altro. O una perdita. Un senso, dunque, per il titolo originale della pellicola – legato appunto alla perdita, e non ad un supponente, forzato “romanticismo” – e per la pellicola stessa, che in quel piccolo “accetta il buono” figlio dei gruppi di sostegno trova la sua, per limitata che sia, dimensione, capace di spingere ancora una volta, con tutte le riserve possibili, ad affrontare la prossima prova della cineasta danese. Un consiglio che mi sento di dare se, come chi scrive, nutrite dubbi sul prodotto o la sua autrice, o, più direttamente, pensate quello che tutta la sua cornice pare suggerire, è, per l’appunto, di “accettare il buono” e tenere duro, quasi come steste affrontando la catarsi di una dantesca scalata per riveder le stelle: non sarà facile, lo ammetto, ma se avrete la pazienza di superare la grande crisi – e vi assicuro, ci sarà, e non sarà piacevole, da qualunque punto di vista venga guardata, da un lato all'altro della macchina da presa – gli ultimi passi saranno leggeri e senza pensieri. Potreste quasi supporre che tutto il male che pensavate all'inizio si sia convertito, sorprendentemente, in bene. La speranza, più che l'idea che possa essere svolto un lavoro migliore sull'ossatura dell'opera e sulla sua struttura, è che le grandi produzioni statunitensi comincino a rendersi conto che non è solo il nome esotico di un regista pluripremiato ai festival “colti” a trasformare una materia povera in una nuova potenziale Palma d'Oro. TITOLO ORIGINALE: Things We Lost in the Fire; REGIA: Susanne Bier; SCENEGGIATURA: Allan Loeb; FOTOGRAFIA: Tom Stern; MONTAGGIO: Pernille Bech Christensen, Bruce Cannon; MUSICA: Johan Söderqvist; PRODUZIONE: Gran Bretagna/USA; ANNO: 2007; DURATA: 118 min.
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