Tutto nasce da un fatto accaduto qualche anno fa in un monastero moldavo, dove una giovane donna perse la vita in seguito a un rito ambiguo ed inquietante, dalla natura tuttora incerta. Inquietante è anche il film sul quale Mungiu decide di lavorare, Oltre le colline, di cui scrive anche la sceneggiatura tralasciando però il sensazionalismo mediatico che aveva dato tanto risalto al fatto di cronaca, e scegliendo invece di insistere sugli elementi comuni del film con cui vinse a Cannes nel 2007, Quattro mesi, tre settimane, due giorni. Due giovani orfane, fin dall’orfanotrofio, si tengono compagnia l’un l’altra condividendo le giornate e la nascita di un sentimento che le terrà legate oltre il posto nel quale sono cresciute. Da grandi, però, Alina sceglie di scappare dalla famiglia adottiva e andare in Germania a lavorare lontano dal luogo d’origine, mentre Voichita sceglie di entrare in un convento e vivere secondo i precetti della chiesa. Quando Alina rientra per portare via con sé l’amica trova una persona ormai irrimediabilmente diversa. Da qui, la rabbia e l’isteria di Alina viene intesa nel luogo di Dio come la manifestazione del maligno che deve essere estirpato in ogni modo.
“Di cosa hai paura, di vivere o morire?”. Tra la lentezza dell’incedere, eppure decisa a raccontare senza prendere le parti, la regia di Mungiu sembra volersi imporre allo spettatore lasciandolo attonito, scosso perché la drammaticità dell’evento e della forza dei dialoghi si scontra con una macchina fluttuante eppure rigorosa, come un occhio indagatore di una realtà che non sa a chi dar ragione, all’amore, alla negazione dell'amore, alla fatalità, alla rabbia, al libero arbitrio oppure alla cieca obbedienza di una religiosità dogmatica. Le parole diventano perentorie, inflessibili, quasi granitiche, così come appaiono saldi i movimenti di una macchina che senza ricercare l’uso di sperimentalismi lascia che sia la luce a raccontare una verità che non ha bisogno di essere inseguita, cercata, scovata ma è lì, sotto gli occhi attenti di chiunque sia pronto a riceverla. Così, ancora due donne, ancora una storia condivisa, taciuta, temuta e sofferta, diventa la premessa dalla quale il film prenderà le mosse, mettendo in scena una esibizione sfacciata di continue dicotomie, registiche e narrative, contrapponendo il bianco e il nero, religiosità e laicismo, riverenza e isteria, fino a quelle più esibite delle due protagoniste, universi distanti ma frutto di una storia comune e delle loro idee sull’amore. Per una è lo slancio, la vitalità, la scelta di esibirlo contravvenendo alle regole, per l’altra è la rinuncia, la pacata rassegnazione a una vita silenziosa, lontano dal mondo chiassoso e confuso.
Da qui, la scelta dell’una di scappare, evadere, e dell’altra di rifugiarsi oltre le colline, dove il mondo scomposto, sottosopra, può smettere di interrogarsi. Nessuna domanda, ma la cieca speranza di trovare nella preghiera la quiete, tanto accogliente e rassicurante da rifugiarcisi. Precisa e nitida, la scelta di una regia tanto rigorosa lascia intendere di rivelare, più che raccontare, di mostrare l’evidenza dei fatti nella sua acritica esibizione, più che una amareggiata messa in discussione di una scelta, delle conseguenze alle quali conduce, al dubbio che una riverenza tanto devota non permetta di distinguere più cosa sia lecito o meno, cosa sia bene o male.
Titolo originale: Dupa dealuri; Regia: Cristian Mungiu; Sceneggiatura: Cristian Mungiu; Fotografia: Oleg Mutu; Montaggio: Mircea Olteanu; Scenografia: Calin Papura, Mihaela Poenaru; Costumi: Dana Paparuz; Produzione: Fonds Eurimages du Conseil de l'Europe, Les Films du Fleuve, Mandragora Movies, Mobra Films, Romanian National Center for Cinematography, Why Not Productions, Wild Bunch; Distribuzione: BIM; Durata: 150 min.; Origine: Romania/Francia/Belgio, 2012
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