Danton: Rivoluzioni a confronto PDF 
Anna Barison   

Andrzej Wajda è una figura di riferimento per il cinema polacco. Dal 1950, anno del suo primo lungometraggio Generazione, in cui decifrò tutta la sua disillusione intorno al cieco patriottismo e alla retorica della guerra, si è imposto nella scena culturale del suo paese con sensibilità e fervore, analizzando l’evoluzione storica e politica della Polonia e mettendo costantemente al centro della sua produzione il destino del suo popolo in relazione alle logiche politiche del Blocco Socialista. Wajda, tuttavia, rifiutò sempre di compromettersi nel trattare argomenti così spinosi, e in lui non si intravide mai l’ossequiosa ammirazione per il regime, ma anzi il suo è sempre stato un lucido percorso che inserisce tematiche universali e di derivazione americana (la ribellione adolescenziale, le lacerazione del dopoguerra, il simbolismo e l’allegoria delle immagini) in un contesto sociale polacco. Quella di Wajda è una filmografia vastissima, che negli anni più caldi della storia del Socialismo Reale vide maturare un coinvolgimento fortissimo per il nascente movimento di Solidarnosc di Lech Walesa. E pellicole come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro e soprattutto Danton manifestarono apertamente l’atto di devozione del regista per la nascente ideologia.

Danton, del 1983, rappresenta forse la continuità più forte tra due passati rivoluzionari: il passato moderno della Rivoluzione Francese e quello postmoderno della Rivoluzione cattolica e anticomunista di Walesa. Il film si apre a Parigi, nella primavera del 1974, secondo anno della Repubblica. Dal settembre del 1793 è in corso la prima parte del periodo del Terrore, quella in cui la fazione dei perdenti, e cioè dei meno estremisti, è condannata alla ghigliottina. La giovane Repubblica attraversa un momento di grave crisi. Le sue frontiere sono minacciate dalle forze realiste, mentre all’interno imperversano carestia, inflazione e la lotta tra le diverse fazioni. Il deputato montagnardo Danton (Gerard Depardieu), che con Marat e Robespierre è uno dei grandi protagonisti della Rivoluzione, allarmato dalle notizie che gli giungono dalla capitale, lascia la sua campagna ad Arcis-sur-Aube dove si era ritirato temporaneamente e ritorna a Parigi per cercare di arrestare il Terrore. Morto Marat, un baratro divide Danton e Robespierre. Benché abbia preso parte nelle stragi di pochi anni prima, sia stato Ministro della Giustizia e membro del Primo Comitato di Salute Pubblica, Danton ora vuole fermare il bagno di sangue: pensa che, abbattuta la monarchia, la Francia abbia bisogno di pace e tolleranza. Robespierre, al contrario, è convinto che per battere i nemici interni ed esterni, la Rivoluzione non debba arrestarsi: anche a costo di essere ingiusti e crudeli, bisogna realizzare tutti i principi banditi dalla Carta dei Diritti dell’Uomo. Persuaso che Danton, con la sua posizione moderata, metta in pericolo la politica della Convenzione e rischi di far leva sullo scontento del popolo, Robespierre dapprima cerca di staccarlo dal giornalista Desmoulins, poi affronta l’avversario a quattr’occhi nel corso d’una cena che dovrebbe riaffermare l'antica amicizia. Poiché il tentativo fallisce, ordina di arrestarlo insieme ai suoi sostenitori. Danton è sicuro che il popolo si solleverà in suo favore, si rifiuta di fuggire, e si difende dall’accusa di essere un controrivoluzionario con un’arringa sarcastica e ingiuriosa. Ma il processo è truccato, e come si voleva il verdetto è di morte. Mentre Danton sale la ghigliottina, e chiede al boia di mostrare la sua testa al popolo, Robespierre è a letto, in preda ad una febbre fortissima. Non sa che fra pochi mesi verrà anche la sua ora, ma nel delirio sospetta che la Rivoluzione sia perduta, che la democrazia sia un’illusione quando è imposta con la violenza.

La pellicola è ispirata al testo teatrale scritto negli anni Trenta dalla connazionale Stanislawa Przybyszewska, ed è un forte e preciso accostamento tra la non violenza di Danton e quella di Solidarnosc. Una vicenda umana che ripercorre quella dello stesso Wajda – il quale ha sofferto sulla propria pelle le conseguenze contraddittorie dell’ideologia marxista-leninista –, ma tuttavia sa ergersi al di sopra delle polemiche contingenti per contemplare con sguardo lucido il dramma della storia e del suo epilogo sanguinoso. Il popolo, per Wajda, ritorna ad essere il vero protagonista al centro della querelle storica. Un popolo da cui scaturisce la rivoluzione ma che allo stesso tempo diventa un pretesto per operare vendette trasversali e faziose lotte interne, una posizione che il regista inserisce in una prospettiva demagogica fuorviante che manifesta in sé tutte le carenze dell’ideologia più oltranzista, impersonata da Robespierre, che ne incarna il principio astratto, il calcolo e il cinismo politico. La sequenza dell’incontro tra Danton e Robespierre è esemplificativa in tal senso. L’incontro si svolge in una piccola stanza di un palazzo parigino, in un’atmosfera opprimente e claustrofobica. Danton viene mostrato come un buongustaio, ha fatto preparare una cena raffinatissima e beve vino durante tutta la scena. È solo lui che si alza, si muove, che occupa lo spazio, mentre nel frattempo spiega che si batte per il bene del popolo, affinchè possa ritrovare davvero la libertà che il governo del Terrore gli ha tolto. “Voglio che finisca il Terrore proprio perchè sono uno di quelli che l'ha instaurato. Tu dimentichi che noi uomini siamo fatti di carne ed ossa! Che ne sai tu del popolo? Vuoi fare la felicità del popolo se tu stesso non sai cosa voglia dire essere un uomo?”. Sono soltanto alcune delle frasi sferzanti che Danton getta in faccia al suo interlocutore, e nel suo impeto capiamo che quello di Robespierre è un dogmatismo freddo e distaccato, che inserisce l’idea di felicità del popolo in una sterile concezione teorica che non può essere più alimentata. Il popolo diviso tra due fuochi, tra due uomini che comunque ne usciranno sconfitti: Danton alla ghigliottina e Robespierre smarrito nelle sue incertezze.

Wajda porta sullo schermo la sconfitta del regime, una sconfitta derivata dall’impossibilità di sposare la politica alla giustizia e all'inevitabile violenza che scaturisce dalla fedeltà ideologica. Una trasposizione drammaticamente autentica della Polonia di inizio anni Ottanta, un doppio discorso sulla Rivoluzione Francese e su una Polonia che subiva in quegli anni il potere del generale Jaruzelski e di Mosca. Lech Walesa ricorda fortemente la figura di Danton. Fondò Solidarnosc, la prima organizzazione sindacale indipendente del Blocco Sovietico: attraverso il movimento operaio cattolico, dopo una lunga e difficile stagione di confronto col regime comunista, giunse alla guida della Polonia, portando a termine una rivoluzione pacifica che, muovendo da comuni radici cattoliche, restituì parte della libertà al popolo polacco. Una rivoluzione non violenta che annoverava gli stessi principi dell’ideologia stalinista, ma al contempo abbatteva quell’illegalità che ne aveva stravolto l’ideologia primitiva. Wajda riassume quelle istanze e allo stesso tempo se ne allontana criticamente per riconsiderare un principio fondamentale dell’uomo: la coscienza e l’appropriazione della libertà, un tema per il quale il regista fu tacitamente allontanato dal suo paese, bandito silenziosamente. E forse quando sentiamo dire per bocca di Danton: “È  vero, sono colpevole. Ho cospirato per la pace, per l’amnistia, per il rispetto delle leggi, per la tranquillità pubblica; ho cospirato per la felicità e per la giustizia”, abbiamo l’impressione che queste parole suonino come una personale e preventiva difesa di Wajda contro i totalitarismi.

TITOLO ORIGINALE: Danton; REGIA: Andrzej Wajda; SCENEGGIATURA: Jean-Claude Carrière, Jacek Gasiorowski, Agnieszka Holland, Boleslaw Michalek, Stanislawa Przybyszewska, Andrzej Wajda; FOTOGRAFIA: Igor Luther; MONTAGGIO: Halina Prugar-Ketling; MUSICA: Jean Prodromidès; PRODUZIONE: Francia/Polonia; ANNO: 1983; DURATA: 136 min.

 


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