Alberto Farina PDF 
di Fulvio Montano   

In questo proliferare di blockbuster farciti di mostri, spadate a gogo, supereroi e, naturalmente, cast che farebbero rabbrividire la più ambiziosa produzione paneuropea del momento, l'imperialismo mediatico a stelle e strisce sembra ormai padrone incontrastato del mercato cinematografico mondiale. Sostenuti da campagne promozionali sapientemente orchestrate da strategie di marketing raffinate da un secolo di storia, i film hollywoodiani (più raramente di altre cinematografie) sbancano al botteghino con sistematica prevedibilità, rendendo velleitario qualsiasi tentativo di imitazione, persino quando c'è.

Ma a frugare nel passato recente della cinematografia americana e precisamente in quella stagione unica a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, si è colpiti da un curioso precedente in quel cinema di exploitation che faceva da colonna sonora all'amoreggiare un po' trasgressivo in sale e drive-in di periferia.
Protagonisti di un cinema scalcagnato, sostenuto dall'unica, apparente pretesa di raddoppiare i magrissimi budget produttivi, i vari Ed Wood, Roger Corman e Russ Meyer (tanto per citarne alcuni) hanno fissato i codici di un genere per anni ignorato dalla critica e dal pubblico adulto e perbenista, ma nel contempo osannato da orde di ragazzini e cultori del non omologato.
Sangue, sesso e violenza costituivano gli ingredienti imprescindibili dell'exploitation, mentre manifesti rutilanti e svenimenti concordati in sala altro non erano che un valore aggiunto a film il più delle volte banali e prevedibili.

In cerca di conferme o di ulteriori suggestioni, Effettonotte ha incontrato Alberto Farina, critico cinematografico, regista, sceneggiatore di fumetti horror e in passato collaboratore del Fantafestival di Roma.
Oltre che autore della monografia su John Landis, Alberto ha pubblicato qualche anno fa, un interessante saggio sul cinema di exploitation dal titolo Sparate sul regista! (1).

La cosa che più mi ha colpito nel leggere il tuo Sparate sul regista, è stata quella sensazione di nostalgia suscitata dal rivivere la grande stagione dell'underground cinematografico indipendente, anni luce lontano dallo star system hollywoodiano e animato da una quasi viscerale passione nel fare cinema. Cito dalla prefazione di Samuel L. Bronkowitz: "I nostri film sono sempre più emarginati. Ancora oggi si chiamano exploitation movies, accusandoli di esser stati fatti solo per guadagnar soldi. Che diavolo significa? Tutti i film sono fatti per guadagnare soldi, anche quelli di Fellini e di Bergman." Che senso ha oggi, alla luce delle tendenze sviluppatesi soprattutto negli USA a partire dagli anni novanta, riproporre e ridiscutere quell'esperienza?

Beh, ammesso che un senso ci sia, direi che sta nel fatto che sempre di più andiamo verso un cinema-prodotto, realizzato sulla base di ricerche di mercato e con l'occhio alle sponsorizzazioni incrociate, al merchandising e allo sfruttamento di qualsiasi marchio-personaggio-concept su tutti i tavoli del mondo mediatico. Rivedere l'epoca del cinema di serie B può servire a ridimensionare le arie dei "B-movie di serie A" che sono oggi la colonna vertebrale del cinema statunitense, ma anche di imparare a pensare al cinema d'autore come a un'operazione che in ogni caso è tenuta a riportare a casa i soldi che ci sono investiti. Broncowitz cita Fellini e Bergman: e non e' un caso che Fellini, quando i suoi film hanno smesso di attirare il grande pubblico, si sia trovato in difficoltà a trovare i soldi per farne altri -mentre Bergman, il cui cinema richiedeva quasi sempre mezzi ridottissimi, non si è fermato praticamente mai.
Ogni spettatore e ogni critico non dovrebbe mai dimenticare che un film costa moltissimo. Questo non può naturalmente giustificare indulgenza verso un prodotto fatto male, ma dal dato economico non e' giusto prescindere.

L'epoca d'oro dell'exploitation è individuabile tra gli anni sessanta e settanta, quando negli Stati Uniti si sviluppa un vero e proprio circuito indipendente e parallelo al mainstream. Qual'è stata la situazione sino a quel momento?

Il B-movie risale al periodo della Depressione negli Stati Uniti -e quindi ai primi anni trenta. Fra i vari mezzi per portare il pubblico in sala nonostante la scarsità di denaro, uno era quello di offrire due o tre film al prezzo di uno. E' chiaro che il secondo e il terzo film costavano una frazione del primo, e quindi diventò una tradizione che il secondo film di ogni spettacolo fosse quantomeno più povero produttivamente di quello che lo precedeva. Il che non impediva che da esso spuntassero registi destinati a passare in serie A: in Inghilterra, ad esempio, i film di serie B erano i cosiddetti "quota quickies", film britannici che una legge protezionistica imponeva di affiancare ai grossi film americani, e da essi emerse fra gli altri un signor regista come Michael Powell.
Col tempo, la serie B rimase associata a un cinema privo di veri "production values" (ossia grandi divi o grandi budget) e che per sopravvivere doveva puntare su temi "forti". Con l'avvento della televisione, la serie B divenne sempre più un cinema sensazionalistico, che faceva suoi tutti i temi che sul piccolo schermo non si potevano sfiorare -il sesso prima di tutto, la violenza, i temi della droga e dei giovani ribelli.
Dato che questo cinema, libero da condizionamenti di perbenismo e spesso anche di gusto, seppe conquistarsi il culto di una generazione intera, divenne poi terreno d'azione di autori capaci di applicarne le formule nell'ottica di una professionalità nuova e più consapevole.
Le avvisaglie sono da ritrovare a mio avviso nel riflusso post '68: dopo alcune stagioni di impegno politico, il cinema americano si gettò di nuovo nello spettacolo, cavalcando il boom del cinema catastrofico e realizzando alcuni horror destinati a un successo strepitoso.
Dalla fine degli anni Settanta, con i trionfi commerciali di Lucas e Spielberg, orrore e avventuroso-fantastico sono diventati i generi favoriti dalle platee e sono stati finalmente realizzati con budget e talenti all'altezza delle aspettative. Ormai il cinema è diventato capace di mantenere le promesse dei manifesti rutilanti che, nei decenni precedenti, si limitavano in sostanza a ingannare il pubblico. E parallelamente si è sviluppato un forse inevitabile fenomeno di nostalgia per le serie B artigianali e spesso dilettantesche del passato: il che ha creato tutto un sottogenere di film intenzionalmente cialtroni, destinati a un pubblico che cerca il "così brutto da essere bello".

Qual è, a tuo avviso, il rapporto degli exploitation movies con le attuali tendenze del mainstream (Tarantino e Rodriguez, i remake a budget stratosferici, i blockbuster, il merchadising) e le sue strategie promozionali?

Uhm, di punti di contatto quanto al marketing vero e proprio non ne vedo molti: il mainstream può contare da tempo su di una potenza di fuoco che nessuno dei produttori di exploitation ha mai avuto a disposizione. Al di là della pubblicità vera e propria (manifesti, ma ormai soprattutto trailers e spot in televisione) c'e' un lavoro enorme di uffici stampa (che suggeriscono articoli tematicamente affini al film di imminente uscita, creando l'interesse un mesetto o due prima dell'uscita).
Il cinema di exploitation era, per definizione, povero anche dal punto di vista della promozione - era anche per questo che doveva, per suscitare interesse, attaccarsi ad argomenti provocatori o trasgressivi.
Se proprio si vuole trovare un punto di contatto, si può notare che oggi si applicano le tecniche più aggressive del marketing tradizionale anche a temi già di per sé appetibili su un piano di exploitation, rendendo molto difficile per i piccoli riuscire a farsi notare.
Gli anni ottanta e i novanta vedono l'emergere del trash come genere autonomo, sostenuto soprattutto da una forte componente di iconoclastia che spesso si limita alla semplice parodia scanzonata.

È giusto intendere il rovistare nella spazzatura come una versione matura e, abbozzo, d'autore dell'exploitation?

Credo che ci sia innanzitutto un errore di fondo nell'usare per l'exploitation espressioni come "maturo" o ancora -ugh- "d'autore". Lo spettatore di un film di exploitation e', forse necessariamente, immaturo e disattento: e chi realizza questo genere di prodotti era preoccupato della quantità dei biglietti staccati molto più che dell'espressione di una poetica personale.
Il cosiddetto trash degli anni Novanta mi pare semmai una degradazione dell'exploitation d'antan: dove l'errore, la mancanza di stile e di gusto, la poveracciata viene costruita a tavolino per sfruttare un nuovo mercato.
Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che -almeno per quel che mi riguarda- la trasgressività dell'exploitation non e' tanto nella capacità di spararle grosse, di essere più volgari, più stupidi o più stravaganti dei predecessori. Questa è una direzione di sviluppo che, alla fine, resta abbastanza prevedibile come nelle più banali delle formule dei generi codificati.
Invece, il gusto maggiore nel vedere un film di exploitation è nella possibilità della sorpresa inaspettata, e in una certa ingenuità disarmante che credo sia impossibile simulare.
Un'eccezione si può fare per il cinema del primo John Waters, autoproclamatosi autore trash: ecco un caso in cui la scelta di argomenti disgustosi era in un certo senso politica ed eversiva. Ma è un tipo di provocazione da tempo riassorbita dal mercato - il trash adolescenziale degli anni Novanta, ancora oggi non si sogna nemmeno di avere un simile impatto.

Alla luce delle cose dette sino ad ora, come immagini il futuro di un cinema asservito al marketing e a una ferrea pianificazione commerciale del lavoro? Davvero non c'è più posto per i sognatori?

Mah, il posto per i sognatori credo che ci sia sempre. Certo, diventa sempre più difficile trovarlo all'interno dell'industria americana, sempre più in mano a multinazionali interessate all'andamento delle azioni della società nelle settimane che ruotano attorno a una data di uscita più che all'effettivo incasso del film. Ma il cinema americano di oggi corrisponde in pieno al cinema contemporaneo solo per gli spettatori più pigri. Se qualcuno appena appena cerca di uscire dalle logiche della multisala sotto casa o del prime-time televisivo, nelle cinematografie di tutto il mondo emergono costantemente autori nuovi e nuovi film interessanti. E poi non dobbiamo dimenticare che alle nostre spalle esiste oltre un secolo di storia del cinema che non conosciamo se non in minima parte: e che è lì, a disposizione in homevideo o negli spazi meno frequentati della programmazione televisiva, in attesa di essere scoperta da chi è in cerca di film in grado di emozionare.
Per cui, se e' vero chi affronta oggi la storia del cinema si trova di fronte a una massa di titoli immensa rispetto a -per dire- cinquant'anni fa, è vero anche che il cercatore di pellicole di oggi ha da esplorare una miniera pressoché inesauribile.

Effettonotte online, a differenza della maggior parte delle riviste di critica cinematografica presenti sul web, non si limita semplicemente ad informare sui film in uscita e condensarne in dieci righe la trama, ma insiste nel proporre degli approfondimenti che a volte addirittura superano le due cartelle di rito. Alla luce dell'impressionante accelerazione impressa dalla rete e dallo sviluppo di nuove tecnologie alla comunicazione, come vedi il futuro della critica cinematografica?

Questo sarebbe un discorso veramente troppo ampio da fare qui.
In generale mi pare che sempre più si stia allargando la forbice fra la critica speculativa e quella che ambisce solo ad essere una guida alla visione.
A proposito di quest'ultima, è chiaro a tutti come sui nostri quotidiani lo spazio delle recensioni cinematografiche si sia da tempo ridotta a schedine sempre più succinte per un lettore disattento che vuole solo orientarsi su che film scegliere quel venerdì sera. Sempre più spesso, gli unici libri di cinema che capita di trovare a casa della gente sono i dizionari dei film - comunque insostituibili. Quanto alla critica speculativa, ma è un giudizio assolutamente personale, mi sembra lanciata senza ritorno sulla via di una pseudoanalisi del testo che nel peggiore dei casi si limita a orecchiare vaghe nozioni di semiotica e nel migliore si compiace di se stessa prescindendo volentieri dal film. Per quel che mi riguarda ho smesso da tempo di leggere riviste specializzate: trovo tutto quello di cui ho bisogno su un newsgroup, dove non mancano esempi estremamente variegati di critica con il vantaggio di poter mandare a stendere l'autore quando si ritiene che stia dicendo sciocchezze.
Penso, in tutta serietà, che frequentare un poco un ambiente del genere non farebbe che del bene a un bel po' di sedicenti critici.

Alberto Farina, Sparate sul regista! Personaggi e storie del cinema di explotation, Il Castoro, Milano 1997

 


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