Slipstream - Nella mente oscura di H. PDF 
Matteo Marelli   

ImageSir Anthony Philip Hopkins, alla sua seconda regia cinematografica, realizza un divertissement affollato e claustrofobico. Dopo il deludente esordio di August, brutta ricopiatura dello stile "ivoryano", lontana nel risultato dall'eccellenza del modello, Hopkins gioca a mandare in frantumi il fragile confine cinematografico che separa illusone e realtà, divertendosi a mostrare come i due poli non siano tra loro antitetici e reciprocamente escludenti.

Il protagonista del film, interpretato dallo stesso Hopkins, è uno sceneggiatore in balia dei personaggi partoriti dalla sua creatività, illusioni che egli vivifica nel quadro della propria esperienza sensibile creando una vera e propria sovrapposizione fra mondo virtuale e reale. La sua mente vacilla, destabilizzata da una condizione di sconforto psichico dovuta all'impossibilità di distinguere ciò che è realtà da ciò che è falso e illusorio. Questo stato di dissonanza cognitiva tocca anche lo spettatore, che viene letteralmente immerso all'interno dell'animo del personaggio, in quanto il regista non si limita ad adottarne la psicologia ma anche la lingua, trasferendo sul piano della messinscena la sua nevrosi, rappresentando i fatti attraverso il suo sguardo distorto. Inquadrature, montaggio, luce, scenografia, fotografia, tutto concorre a tradurre visivamente il mondo delirante dello sceneggiatore. Adottando queste soluzioni, che costituiscono poi la tecnica della soggettiva libera indiretta, Hopkins sfibra la narrazione in favore di un dispositivo visivo che ha la capacità di mimare lo sguardo nevrotico del suo protagonista, uno sguardo che si sofferma ossessivamente su persone e oggetti e che crea un cortocircuito tra il mondo reale e l'inconscio, ottenendo immagini cariche di straniante ambiguità. Il senso di smarrimento dello spettatore è lo stesso del protagonista, entrambi incapaci di dare un senso a ciò che vedono. La scelta della mimesis visiva consente ad Hopkins molta libertà stilistica, e gli permette di realizzare un film totalmente e liberamente espressionistico.

Il soggetto decisamente esile e ampiamente affrontato è riscattato da una messinscena irriverente e iconoclasta che fagocita le più disparate soluzioni visuali-linguistiche: sovrimpressioni, inserti pseudo-subliminali, immagini oniriche, effetti digitali, alternanza fra bianco e nero e colore, solarizzazioni, montaggio ejzenštejniano. Hopkins moltiplica e confonde le linee narrative, ammassa confusamente personaggi su personaggi, più o meno secondari, senza soluzione di continuità fra realtà e virtualità, mescola i generi sul modello della narrativa slipstream con la ferma intenzione di rendere difficilmente collocabile il proprio lavoro. Il modello di riferimento, questa volta, è il cinema di David Lynch. L'idea di mettere continuamente in crisi la linearità narrativa chiamando direttamente in causa lo spettatore, invitandolo a ricostruire indizi che raramente conducono ad ipotesi plausibili è ripresa da film come Strade perdute, Mulholland Drive, o Inland Empire, così come l'immagine-sogno svincolata dall'attività di un sognatore, e quella di un tempo che si avvolge su se stesso, che innesca un continuo senso di déjà-vu: tutto sembra già visto eppure tutto appare estraneo. La lezione lynchiana ritorna anche nel modo con cui Hopkins mette in scena i personaggi secondari, presentandoli attraverso microepisodi quasi indipendenti tra loro ma che sembrano trovare la loro collocazione in un disegno più ampio. Il film si presenta come un ipertesto sovraccarico di unità informative che rimandano a ricordi personali, avvenimenti e personaggi storici, icone universali della società dello spettacolo, una struttura multilineare la cui lettura si svolge su più livelli, della quale è impossibile distinguere un interno e un esterno.

L'opera seconda di Anthony Hopkins non mostra nulla di nuovo, recupera spunti teorici sulla post-modernità che tratta con molta superficialità, adotta sperimentalismi visivi e compositivi già collaudati, pecca di presunzione e di sovrabbondanza, anche se alla fine questa volontà di non porsi limiti premia il suo lavoro, che pur con tutti i difetti ha il pregio di non lasciare indifferenti. Hopkins affronta la regia con il fervore e la passione di un neofita desideroso di dimostrare di aver ben appreso gli insegnamenti. Non è però ancora in grado di comunicare una propria idea di cinema: è come se dietro la sua messinscena ancora non ci fosse un insieme strutturato di intenti espressivi e contenutistici.


TITOLO ORIGINALE: Slipstream; REGIA: Anthony Hopkins; SCENEGGIATURA: Anthony Hopkins; FOTOGRAFIA: Dante Spinotti; MONTAGGIO: Michael R. Miller; MUSICA: Anthony Hopkins; PRODUZIONE: Usa; ANNO: 2007; DURATA: 96 min.

 


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