Tutta colpa di Voltaire PDF 
Monica Pentenero   

On est laid à Nanterre/C’est la faute à Voltaire […] Je ne suis pas notaire/C’est la faute à Voltaire […] Joie est mon caractère/C’est la faute à Voltaire […] Je suis tombé par terre/C’est la faute à Voltaire (“Se sono brutti a Nanterre, la colpa è di Voltaire […] non sono un notaio, la colpa è di Voltaire […] la gioia è il mio carattere, la colpa è di Voltaire […] sono caduto a terra, la colpa è di Voltaire”), canta Gavroche, giovanissimo personaggio creato dalla fantasia di Victor Hugo per I miserabili: abbandonato dal padre, vive fra le barricate della Parigi insorta del 1832, dove trova la morte prematura, proprio mentre intona queste strofe.

Anche l’opera prima di Abdel Kechiche tratta di storie di miseria, nella fattispecie di miseria moderna e non intesa in senso esclusivamente economico: i suoi protagonisti sono senzatetto, maghrebini emigrati in Francia e persone segnate da problemi mentali. Dunque, il riferimento al titolo (che nell’originale francese è proprio La faute à Voltaire) pare inevitabilmente calzante. A far da sfondo alle prime scene, citata verbalmente e da locandine affisse alle pareti, è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, orgoglio della Francia rivoluzionaria promotrice di libertà, uguaglianza e fraternità. La Dichiarazione sancisce l’uguaglianza di tutti gli uomini, la libertà della persona, il diritto alla proprietà, alla sicurezza e alla resistenza all’oppressione, ma prosegue anche sottolineando che la libertà di ciascuno termina laddove risulti dannosa o limitante per la libertà altrui. Jallel, tunisino scappato dal suo paese verso la Francia, dove spera di trovare un lavoro e rosee prospettive di guadagno, non vede rispettati i suoi diritti, ma da parte sua tenta di risolvere la sua situazione con menzogne e sotterfugi illeciti che non riescono a garantirgli né sicurezza, né protezione. C’è da chiedersi se la Dichiarazione, piuttosto che messa sullo sfondo, non sia relegata in secondo piano.

Tutta colpa di Voltaire è nettamente diviso in due parti: nella prima Jallel cerca di ambientarsi nella sua nuova città e di regolarizzare la sua situazione a livello burocratico, sostenuto dall’incontro con Nassera, nella seconda, poi, prosegue la sua ricerca di una possibile vita dignitosa a Parigi, affiancato da un nuovo personaggio femminile, Lucie. Kechiche costruisce una parabola discendente che ha il suo vertice nel momento del mancato matrimonio bianco (per ottenere la cittadinanza francese, ma non solo…) fra Jallel e Nassera, evento che segna l’inizio della discesa di Jallel, che si concluderà con il rimpatrio e la separazione da Lucie, con la quale ha intessuto a fatica una difficile relazione. Il meccanismo alla base del film è l’amaro rapporto illusione/delusione, che si ripresenta più e più volte e coinvolge personaggi differenti, tanto che l’amarezza traspare prepotentemente in più occasioni, culminando nel finale con l’inatteso arresto di Jallel, quando il tunisino sembrava finalmente aver trovato un poco di stabilità. Jallel passa molto tempo a contatto con le linee della metropolitana della Ville Lumière, perché il primo lavoro che trova a Parigi è vendere frutta esotica e, dato che la sua condizione non ha nulla di regolare, è costretto a farlo proprio nei sottopassaggi della metro, dove è più facile sfuggire ai controlli della polizia. Ad appagarlo maggiormente sarà la sua seconda attività (sempre irregolare): da venditore di frutta “stanziale” a venditore di rose ambulante nel metrò, nei ristoranti e nei cafè di Parigi, perché questo lavoro gli permette di camminare, dandogli l’illusione di viaggiare, come ammette egli stesso. Un giorno come tanti, Jallel scende in uno dei sottopassaggi della metro parigina, ma qualcosa va storto: la polizia lo nota e lo arresta. Quest’ultimo episodio viene relegato nel fuori campo: la macchina da presa mostra Jallel mentre viene inghiottito dal ventre di Parigi, quindi rimane fissa sull’accesso alla metropolitana per un lungo momento, come attendendo la risalita in superficie del protagonista, che effettivamente riappare, ma è tristemente scortato da alcuni poliziotti. Il suo desiderio di viaggiare viene beffardamente esaudito dal viaggio di rimpatrio cui è costretto dalla sua condizione di clandestino, immagine che chiude amaramente il primo film di Kechiche. 

Come accennato, quella dell’emigrazione clandestina è solo la prima delle realtà di emarginazione narrata dal regista: in seno alla situazione del protagonista, Kechiche descrive una seconda forma di esclusione, quella di cui è vittima la giovane Lucie, ninfomane che Jallel conosce quando viene temporaneamente ricoverato in una struttura per persone affette da disturbi psichici, a seguito dell’inaspettato abbandono da parte di Nassera. Lucie si innamora di Jallel, ma, benchè accettata da quest’ultimo, non riesce ad inserirsi a pieno nella società che la circonda, al punto da distaccarsene anche sul piano cromatico: quando, per stare vicino a Jallel, affronta il mondo all’esterno della ristretta realtà della clinica, indossa una sgualcita giacca rossa che la distingue dalle altre persone sulla scena, caratterizzate da tonalità spente che vanno dal grigio al marrone. Numerosi inserimenti di lingua (non tradotta, né sottotitolata) e di musica araba extradiegetica, ma soprattutto intradiegetica, contribuiscono a creare un’atmosfera credibile e completano il quadro di Tutta colpa di Voltaire, distribuito nelle sale nel 2000 e valso al regista tunisino il premio per la miglior opera prima alla Mostra del Cinema di Venezia.

TITOLO ORIGINALE: La faute à Voltaire; REGIA: Abdellatif Kechiche; SCENEGGIATURA: Abdellatif Kechiche; FOTOGRAFIA: Dominique Brenguior, Marie-Emmanuelle Spencer; MONTAGGIO: Annick Baly, Tina Baz; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2000; DURATA: 131 min.

 


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