TFF 29/Sentieri per l’anima: il cinema di Eugène Green PDF 
Nicolò Vigna   

Ciò che colpisce di Eugène Green è l’estrema coerenza del suo lavoro, sia dal punto di vista dello stile adottato, che da quello della poetica intrapresa. Fin dal suo primo film, Toutes les nuits - che, nel 2001, vinse il Premio Louis-Delluc come migliore opera prima -, il cinema di Green segue delle precise coordinate stilistiche, debitrici, sì, di cinematografie quali quelle di Robert Bresson e Jean-Luc Godard, ma in parte assolutamente personali, e che necessitano di una riflessione più attenta. Fin dal suo esordio, infatti, Green sviluppa un cinema basato su di un’estetica asciutta e rarefatta, in cui, però, trapela una grande emotività, una profonda passione per i personaggi e per le loro storie. Attraverso un superamento dell’intellettualismo tipico di certo cinema francese, Green giunge nel profondo dei suoi personaggi, più umani e vitali di quanto la fredda messa in scena potrebbe far supporre. Un vero e proprio “sentiero” per giungere all’anima profonda delle cose, che il regista realizza attraverso quattro lungometraggi e tre corti (o, come preferisce chiamarli lui stesso, “mini-film”), che il Torino Film Festival ha celebrato attraverso la prima retrospettiva italiana a lui dedicata.

Per affrontare il cinema di Green bisogna considerare alcune questioni determinanti. Innanzitutto, la sua formazione culturale comprende non solo il cinema, ma anche il teatro e la poesia. Prima di svolgere l’attività di regista cinematografico, Green ha scritto molto e, soprattutto, si è cimentato nel ruolo di regista teatrale. Questo approccio è riscontrabile nei suoi film, soprattutto per quanto riguarda l’importanza della parola, come elemento “attivo” e determinante per l’azione, e dei dialoghi, spesso recitati in maniera distaccata e straniante, prossimi alla lezione brechtiana. Ma la complessità della poetica di Green risiede anche nelle sue condizioni di regista “senza patria”: benché naturalizzato francese, le sue origini sono, infatti, americane. Egli rinnega però gli Stati Uniti, che considera una sorta di “barbarie culturale e linguistica”. Scaturisce così nel suo cinema l’interesse viscerale per temi come l’identità e la parola. Si insinua una ricerca del senso nel mondo, attraverso personaggi che peregrinano nelle città, che si incontrano, si lasciano, si ritrovano, e che, soprattutto si cercano l’un l’altro. Per raccontare queste storie, Green utilizza uno stile preciso e consapevole, già tutto iscritto nel suo primo lavoro, Toutes les nuits, ma che troverà, nei film successivi, sfumature e imprevedibili contrappunti. Toutes les nuits, immerso in un’atmosfera sessantottesca, racconta l’amicizia tra due giovani studenti parigini, Henri e Jules, dalla seconda metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. Due destini diversi - uno vivrà per molto tempo negli Stati Uniti, l’altro resterà con la donna che ama in Francia -, ma per sempre legati da quelle fondamentali esperienze condivise nell’adolescenza. Green adotta uno stile asciutto, vicino alla rarefazione bressoniana, inquadrando spesso mani che si stringono e piedi che camminano, ricercando in questo modo il senso stesso delle azioni umane. Così, i dialoghi, spesso scanditi da campi e controcampi di assoluto rigore - e che diventeranno una cifra stilistica del regista -, impongono, al tempo stesso, una riflessione allo spettatore e una partecipazione emotiva, determinata dal restringimento progressivo dei campi dell’inquadratura.

Il buon successo del primo film permette ad Eugène Green di continuare l’attività cinematografica appena intrapresa, creando attorno a sé una stretta cerchia di collaboratori e attori, che ritornano spesso nei suoi film. I protagonisti di Toutes les nuits - Adrien Michaux e Alexis Loret - sono, infatti, i protagonisti di tutti i suoi film successivi. Così come Christelle Prot diventerà il consueto volto delle donne del suo cinema, materne e spirituali. Dopo questa prima fase, in cui Green affronta il tema della gioventù e dell’“educazione sentimentale” - Toutes les nuits si ispira al testo di Flaubert -, il suo cinema si apre ad una digressione favolistica e più divertita. Con Le nom du feu e soprattutto Le mond vivant, infatti, il cinema di Green, pur mantenendo lo stile già perfettamente definito del film precedente, si lascia trasportare in un’atmosfera diversa. Se in Le nom du feu l’accenno al fantastico è dato dalla presenza di una maschera tipica come quella del lupo mannaro, in Le mond vivant la componente favolistico-fantastica ha un maggiore sviluppo. Il film  (prodotto dai fratelli Dardenne) racconta, in un medioevo prossimo al Lancillotto e Ginevra di Bresson, le gesta del Cavaliere del Leone e della sua lotta per liberare la principessa dall’orco. Ma il film è soprattutto un gioco divertito, in cui riescono a convivere teatro dell’assurdo, elementi naïf e momenti di assoluta delicatezza formale.

Nel film successivo, invece, Green ritorna a temi più sofferti e sentiti. Si tratta di Le pont des arts, un film di ricerca e formazione nella Parigi culturale e artistica dei nostri giorni. Nel film, due coppie di giovani - una dedita agli studi di filosofia, l’altra all’opera classica -, pur non incontrandosi quasi mai durante il film, si legano spiritualmente l’una all’altra. In particolare, il giovane Pascal, dopo aver tentato il suicidio, si “darà” spiritualmente alla triste Sarah, giovane cantante morta suicida dopo essersi gettata da un ponte di Parigi. In un improbabile, e per questo greenianamente cinematografico finale i due si incontreranno sul ponte, non-luogo tra la vita e la morte, e cercheranno di dare un senso alle loro esistenze. Nel film torna nuovamente il tema della parola e della “significanza”, ben incarnato nella figura dell’Innominato, terribile maestro di Sarah che la spingerà al suicidio, unico vero personaggio negativo della filmografia greeniana. Ai due soliti attori di Green, Michaux e Loret, si affianca la talentuosa Natacha Règnier, il cui volto esprime perfettamente la grazia di Sarah. Nel film, oltre ai silenzi e all’asciuttezza dei dialoghi che già aveva caratterizzato i film precedenti, si fa strada l’interesse per la contemplazione. Spesso, infatti, le musiche di Monteverdi interrompono la narrazione, per lasciar spazio a momenti di pura “audiovisione”.

Seguono due cortometraggi, Les signes e Corrispondences. Il primo è un film sull’attesa, costruito su lunghi monologhi e caratterizzato dall’importante presenza di Mathieu Amalric, figura di spicco del nuovo cinema francese. Corrispondences è invece il film più rarefatto ed etereo di Eugène Green. Attraverso l’espediente della corrispondenza “moderna” - ovvero attraverso la mail e internet -, il regista riesce ad esprimere nuovamente quel senso di “ricerca” tra le persone, che costituisce il senso del mondo e dell’esistenza. Un senso spirituale dai connotati hegeliani, che il regista traduce attraverso silenzi e voci off che chiamano in causa operazioni di registe come Marguerite Duras (India Song) e Chantal Akerman (News from Home). Del 2009 è l’ultimo film di Green, ovvero A religiosa portuguesa. Con il classico espediente del film-nel-film, il regista racconta i giorni di peregrinazione per Lisbona della protagonista Julie, attrice cinematografica nella città per girare un film. La scelta di Lisbona è indicativa in quanto meta tipica di registi “apolidi” come Green, basti pensare a Wim Wenders, che a Lisbona gira Lisbon Story, o, più recentemente, al cileno Raul Ruiz, con il suo enigmatico Misterios de Lisboa. Ma Green, ancora una volta, si concentra sui suoi personaggi, e sulle loro ricerche esistenziali. L’attrice parigina ha dunque l’occasione di fare alcuni incontri, di cui uno fondamentale. Conosce, infatti, il piccolo Vasco, un orfano che vive con un’amica di famiglia, e che, forse, diventerà il figlio adottivo dell’attrice, una volta tornati in Francia. Nel suo ultimo film, dunque, il regista affronta ancora una volta una storia di esseri assolutamente “umani”, cui il destino (e il cinema) può far incontrare. Non trascurando però qualche nota divertita, concedendosi il ruolo del simpatico regista nel film.

In un incontro al Torino Film Festival, Eugène Green spiegava che, nei suoi film, egli cerca di mostrare l’“invisibile” nelle “cose visibili”; di non utilizzare “simboli”, perché troppo complessi, quanto piuttosto “segni”; di voler fare un cinema non tanto “intellettuale”, quanto piuttosto “intelligente”. Nel visionare i suoi film non possiamo che essere d’accordo. Il suo cinema abbandona fin da subito il sentiero della mera intellettualità, per darsi in maniera sentita agli spettatori, utilizzando però mezzi alquanto inusuali. Lo dimostra il momento più emozionante di tutto il suo cinema, ovvero il tentato suicidio di Pascal in Le pont des arts. Pur sfruttando un découpage raggelato, che segmenta lo spazio in maniera tipicamente bressoniana - Pascal che apre il gas, chiude la porta della stanza, mette la musica di Monteverdi -, non ci sentiamo straniati, ma coinvolti. In un “crescendo” emotivo, determinato anche dalla musica off, Pascal interrompe la sua fredda condanna a morte. Qualcosa lo turba: chiude improvvisamente il gas e si getta fuori sul balcone per respirare. E vede finalmente il cielo. Un intenso primo piano del ragazzo che piange dalla felicità chiude la sequenza. Ecco, la grandezza del cinema di Green forse è tutta qui: nel riuscir ad emozionare non con la maestosità, ma con la semplicità. Scoprendo forse, proprio attraverso questa semplicità (mai semplicistica) il vero senso delle cose e del mondo.

 


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