François Ozon: cinema da camera (ardente) PDF 
Simone Dotto   

Sul conto del suo ultimo Ricky - Una storia d’amore e libertà penne cinefile di pari importanza hanno scritto tutto e il suo contrario. C’è chi ha percepito con non poco fastidio la mancanza di un impianto “di genere” chiaro e di una scrittura sufficientemente solida che contenessero i voli di fantasia da parte del regista, mentre secondo altri è proprio nell’assenza di rigide regolamentazioni che va individuata la forza di un cinema anarchico e profondamente insofferente verso ogni convenzione o obbligo meramente strutturale.

Mettendo da parte i giudizi per tornare al film in sé, Ricky è una fiaba surreale raccontata con i toni di un realismo crudele. La storia di una madre lavoratrice, messa incinta dall’amante operaio che poi se ne andrà di casa, ha tutto il sapore sommesso di un dramma kenloachiano, almeno fino a quando al figliolo non spunteranno un paio di alette dalla schiena: da allora il film prende tutt’altra piega, filtrando attraverso le atmosfere grigie che lo avevano in prima battuta caratterizzato uno strano tipo di leggerezza luminosa. L’immagine del bimbo con le ali è solo l’ultima, efficace incarnazione di un forte desiderio di fuga dal quotidiano che da sempre ossessiona François Ozon. In fondo non era tanto diversa la storia del suo lungometraggio precedente, Angel - La vita, il romanzo, dove un’altra figlia della working class – significativamente battezzata con il celestiale nome del titolo – arriva al successo come scrittrice di romanzi d’evasione, riesce ad andare a vivere nella dimora dei propri sogni (la casa Paradise) e là comincia a scambiare progressivamente la vita reale con la fantasia. Entrambe le vicende pongono i loro sviluppi surreali in modo problematico, e se sono in tanti a tarpare le ali – letteralmente – al piccolo Ricky (evocando così anche il tema dell’accettazione del diverso all’interno della società) anche la vita “da sogno” di Angel non è priva di ostacoli, a cominciare dall’amara visione del mondo espressa dal pittore suo amante, che funge da disilluso contraltare. A questo si aggiunga uno sguardo autoriale mai completamente identificato con la storia che va raccontando, e un umorismo sempre abilmente dissimulato ma che, all’occorrenza, sa esercitare la giusta distanza dai personaggi, fino a ribaltare le loro tragiche vicissitudini in un esito spesso ridicolo e grottesco.

Così stando le cose, riesce ancora piuttosto difficile parlare di una poetica “ottimista”: eppure è certo che, per scovare una via di fuga, sia Angel che Ricky mirano verso l’alto (“le ali” della libertà, la fantasia evasiva…) laddove invece le prime opere del regista francese guardavano molto, molto più in basso, talvolta spingendosi persino a proporre la morte come unica scappatoia possibile da una realtà opprimente, che “ci si chiude addosso”. Al cinema di Ozon è stata spesso diagnosticata una sindrome teatrale che solo in alcuni casi riconosce cause fisiologiche (Gocce d’acqua su pietre roventi e Otto donne e un mistero sono tratte rispettivamente da un copione del giovane Fassbinder e da una piece di Robert Thomas). Più spesso il suo è un teatro metaforico, simbolico, dove le unità di spazio e di azione non sono semplicemente “date”, ma vengono anzi cercate e rimarcate con forza. Si prenda ad esempio Sitcom (1998), l’esordio al lungometraggio che avrebbe lanciato il cineasta parigino ventiseienne sul circuito nazionale e che, fin dal (sarcastico) titolo, richiama le ambientazioni casalinghe e artificiose tipiche delle serie televisive per famiglie. Oppure proprio Gocce d’acqua su pietre roventi (1999), in cui la casa di Leopold, al pari del suo affascinante proprietario, esercita un fascino magnetico sulle sue prede amorose e, in genere, su chiunque ne varchi la soglia. O, ancora, uno dei maggiori successi di Ozon, quell’Otto donne un mistero (2002) dove tutte le componenti femminili di un’altolocata famiglia francese si ritrovano costrette nel luogo del delitto da un eccesso di sfortunati fattori esterni (la neve sulla strada, i telefoni isolati, le macchine che non partono, i cancelli misteriosamente bloccati …). È solo a questo punto, quando anche l’ultima porta si è chiusa e tutte le uscite sono state serrate, che tutti i personaggi possono dare inizio al loro teatro o, per meglio dire, al loro “teatrino”: solitamente si parte all’insegna del “sediamoci e parliamo” di conio ibseniano per sfociare rapidamente in un frenetico “giuoco delle parti” e delle maschere, così come lo spiegava un altro illustre esponente della prosa del teatro borghese quale fu Luigi Pirandello. Un banale pretesto basta a far crollare il fragile equilibrio di partenza sotto il peso di tutte le sue ipocrisie e costringe i personaggi di scena a rinunciare alla propria parte e “denudarsi” delle rispettive maschere.

È nell’innescare e nel dosare queste dinamiche che Ozon rivendica il suo vero posto di regista, un burattinaio che scruta le sue marionette dall’alto e che, con sadico piacere, le muove ora verso la tragedia, ora verso il comico e l’assurdo. Il confine fra i due territori è sempre piuttosto sottile, se basta una disgrazia in più messa sul conto di uno qualsiasi degli sventurati per passare da un destino melodrammatico ad una sorte da operetta buffa. In questo modo, l’eccesso di “devianze” e di trasgressioni all’interno della famigliola di Sitcom acquista un gusto ridicolo, una sfumatura grottesca e surreale. In questo è molto abile, Ozon: nel mantenere segreto fino all’ultimo momento il suo reale sguardo sulle storie che racconta, e nel saperlo poi svelare gradualmente, pigiando sempre di più il piede sull’acceleratore del grottesco, talvolta fino a sforare nel nonsense puro. Gli estemporanei balletti camp che coinvolgono i protagonisti di Gocce d’acqua su pietere roventi e di Otto donne e un mistero vanno allora interpretati in questo senso, come un’ultima prova dell’esistenza di un deus ex machina con la facoltà di tirare le fila delle loro esistenze e che pare divertirsi un mondo a “farli ballare”.  

In questo forsennato giro di walzer generale, a rimanere ferma è soltanto la claustrofobica sensazione di sentirsi in trappola, prigioniero di un labirinto che non lascia vie d’uscita: chi ci si trova chiuso dentro da vittima degli eventi è già spacciato prima ancora di morire. Fa, come si dice, “la fine del sorcio”. E non è un caso che a gettare scompiglio nella casa di Sitcom sia proprio un topolino, portato in dono dal pater familias, che ben presto ne prenderà le sembianze per poi venire addirittura divorato dai suoi stessi parenti. Seguono il percorso inverso gli Amanti criminali (1999) protagonisti dell’opera seconda del francese, una riedizione della fiaba di Hansel e Gretel in versione horror nella quale Bene e Male si avvicinano fino a scambiarsi di posto. Una sequela di peccati tra “eros e thanatos” conduce  i due nella tana di un orco cannibale, dove Luc proverà un inaspettato amore omosessuale nei confronti del carnefice, mentre Alice resterà a lungo prigioniera sotto il pavimento, accanto al cadavere dell’amico che lei stessa ha voluto uccidere: una situazione di pre-morte che altro non fa se non anticipare la triste fine della ragazza. Le scene conclusive di Otto donne e un mistero e Gocce d’acqua su pietre roventi offrono ancora due casi esemplari, rispettivamente per il registro comico e per quello tragico: nel primo, infatti, il capofamiglia Marcel (che, d’accordo con la figlioletta minore, ha inscenato il suo stesso omicidio) udirà ciascuna delle donne della sua vita confessare un incredibile assortimento di segreti, meschinità e tradimenti, fino a decidere di farla finita sul serio (“ma papà…era solo un gioco!” protesterà la figlioletta). Così come in Gocce d’acqua su pietre roventi è di grande impatto la sequenza finale, che vede il giovane Franz, venuto a noia all’incontentabile amante Leo, inghiottire una manciata di psicofarmaci e lasciarsi morire sul tappeto. Alla vista del cadavere, Vera si alza e tenta istintivamente di aprire la finestra, senza riuscirci. Rimane con le mani disperatamente premute sul vetro, mentre la macchina da presa si allontana. L’appartamento e l’attrazione verso Leopold tiene lei e gli altri abitanti in una condizione di prigionia, e l’estremo gesto compiuto da Franz si conferma, di fatto, come l’unica soluzione possibile per liberarsene.

La morte nell’universo di Ozon subisce una graduale ma radicale mutazione di ruolo lungo quella che l’autore ha annunciato come una Trilogia del Lutto, ma che ad oggi conta soltanto due episodi. Quello d’apertura, Sotto la sabbia (2000), rientra fra i lavori di consacrazione del regista e narra la storia di Marie, il cui marito scompare misteriosamente durante una giornata in spiaggia. Senza poter contare su prove o resti che ne confermino la morte, Marie fatica ad accettare la dipartita del coniuge e si trincera dentro di sé, nel tentativo di ricostruire la sua vita di sempre. Per la prima volta la morte smette di essere indagata nei suoi aspetti più fisici e lugubri (tutti i decessi precedenti erano casi di omicidio, suicidio o addirittura di cannibalismo): ne viene, anzi, depurata, per rimanere solo “vuoto”, pura assenza dell’altro. La fine dell’esistenza non rappresenta più l’agognata scappatoia da una realtà asfissiante, ma diviene essa stessa un occludente spazio di vita per coloro che rimangono in vita. Nella sua esistenza senza marito, Marie è chiusa e soffocata come Vera nell’appartamento di Leopold, e tenta di uscirne usando la forza dell’immaginazione: un tema, questo, destinato ad essere approfondito e sublimato nei toni onirici del successivo Swimming Pool (2003) e del già citato Angel.

La riflessione sulla morte, dalla sua, troverà ulteriori e più raffinati sviluppi nel secondo capitolo della Trilogia, Il tempo che resta (2005): se Otto donne e un mistero rimane infatti il film più eccentrico e rappresentativo del grottesco istrionismo ozoniano, a Il tempo che resta va senz’altro riconosciuto il pregio di sintetizzare gli aspetti meno eccessivi e l’indole più matura della sua poetica. Romain, giovane fotografo di moda, scopre di essere malato di cancro e di avere ancora pochi mesi di vita a sua disposizione: rifiuta allora l’opportunità di curarsi con la chemioterapia e usa il “tempo che (gli) resta” per appianare i rapporti con la famiglia e con l’ex compagno, dai quali si congeda senza mai far parola della sua malattia. A differenza di quanto accadeva nel primo capitolo della trilogia, stavolta è la stessa persona a rimanere e ad andarsene contemporaneamente: il tempo che gli resta da vivere è quindi anche la stessa realtà che stritola Romain dentro di sé, costringendolo a pensare ad una propria strategia di fuga. Ma a differenza di Marie, che si rifugiava nella fantasia, Romain sceglie di fuggire prendendo il coraggio per riappacificarsi con la realtà. Tutti i leitmotiv classicamente antiborghesi sui quali Ozon ha insistito nel suo cinema (l’incomprensione nei rapporti famigliari, l’amore omosessuale …) ne escono ribaltati in positivo e, si potrebbe dire, quasi risolti da una presa di coscienza più adulta. Persino il rapporto sessuale a tre, cui il giovane fotografo si presta sotto esplicita richiesta di una coppia sterile, abbandona ogni valenza di trasgressione per assumere un significato più costruttivo: il frutto di questo incontro nascerà troppo tardi perché Romain e lo spettatore possano conoscerlo, ma è comunque la consapevolezza del suo avvento che rappresenta la vera “via d’uscita”, la luce alla fine del tunnel. L’inizio di una vita che, seppur in lontananza, riesce a dar senso alla fine di un’altra.

 


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