Agora PDF 
Gianmarco Zanrè   

La carriera di Alejandro Amenábar ha avuto la curiosa caratteristica di formare, qualitativamente parlando, una sorta di parabola discendente che ha clamorosamente invertito la marcia del talento con l’aumentare dei fondi messi a disposizione del regista. Dal promettente esordio di Apri gli occhi, infatti, il cineasta di Santiago ha iniziato una lenta ma inesorabile discesa verso quello che è, a tutti gli effetti, il cinema finto-autoriale che tanto piace ad ogni tipo di pubblico, sia questo una giuria severa o gli spettatori di una sala gremita durante il weekend. Se, poi, all’approccio registico e produttivo aggiungiamo un tema scottante, capace di creare aspettativa e polemica, il gioco è fatto.

È il caso di quest’ultimo Agora, che mescola il grande spettacolo visivo finto-antico de Il gladiatore e l’antico gioco dell’eroe senza macchia vessato dal mondo malvagio dei peplum, il tutto infarcito del sempre attuale “problema” religioso. Eppure, in questo meccanismo sapientemente studiato, così come nel cerchio perfetto che si credeva dominasse le armonie astronomiche del cosmo, è presente più di un difetto, che rivela quanto a volte l’imperfezione (o presunta tale) di un'ellissi possa risultare più efficace di ogni altra più “alta” forma. Non che Agora sia necessariamente un brutto film: il problema sta nel fatto che non conquista – neppure lontanamente – rispetto alle (alte) pretese che si pone e allo sforzo produttivo messo in campo per la sua realizzazione. E nonostante la confezione risulti a tratti stucchevole, così come il cast e la fotografia patinata, i difetti più gravi si riscontrano proprio nella fase di script e di direzione. La sceneggiatura, priva di una vera identità, pare combattuta fra l’approccio della biografia romanzata e romantica di una donna che fu – a quanto pare – pioniera della scienza e della posizione della donna nella società del suo tempo, ma fu del tutto incapace di costruire un rapporto che non fosse con la sua ricerca, e una pesante critica riferita al mondo delle religioni, e in particolare a quella cristiana, non tanto per la fede o i suoi argomenti, quanto per lo sfruttamento che ne fecero gli uomini che la guidarono (e la guidano?), senza mai riuscire a risultare nettamente centrata su una o sull’altra parte. La regia, dal canto suo, sfrutta poco e male la protagonista – Rachel Weitz, mai così monocorde – e il cast, perdendosi in inutili quanto vuoti voli pindarici che dalle alte sfere del cielo ci conducono alle strade di Alessandria, o ribaltando inquadrature che potevano risultare infinitamente più efficaci se fermate nel più classico dei campi di ripresa.

Insomma, pare quasi che Amenábar abbia ancora ansia di dimostrare qualcosa ai suoi spettatori, di stupire come fosse ancora il più sbruffone dei registi additati come nuovi talenti al loro primo lavoro da professionisti. Peccato davvero, perché la storia di Ipazia, vera o romanzata che sia, rappresentava un’ottima possibilità per mostrare ed affrontare temi che vanno ben oltre le semplici e semplicistiche accuse al sistema delle religioni e del potere che muovono e regolano, e che toccano il diritto alla libertà di pensiero e parola. E non c’è bisogno di un regista con il desiderio di stupire che mostri un rogo di libri per capirlo: sinceramente, di immagini come quella la Storia – quella documentata purtroppo – è già piena, e con essa un immaginario collettivo che, forse, avrebbe bisogno di stimoli e motivazioni per voltare pagina, invece di concentrarsi su visioni sconvolgenti, o disegnate appositamente per l’uso. In quest’ottica, perde valore anche l’uso “romantico” dei personaggi, da Oreste a Davo, tutti mossi da sentimenti umani giustificati e celati, appunto, dietro politica e religione. E con loro perdono potenza e magnetismo anche le scene che li vedono protagonisti, e che invece di renderli più umani, li trasformano in fantocci da sceneggiato tv.

Quella che sarebbe potuta diventare un’ottima, quasi shakesperiana riflessione sui meccanismi tutti umani celati dietro il potere e sul valore del libero arbitrio e pensiero, è purtroppo finita per rimanere imprigionata fra il denaro di una produzione troppo magniloquente e le ambizioni di una regia ridondante.

TITOLO ORIGINALE: Agora; REGIA: Alejandro Amenábar; SCENEGGIATURA: Alejandro Amenábar, Mateo Gil; FOTOGRAFIA: Xavi Giménez; MONTAGGIO: Nacho Ruiz Capillas; MUSICA: Dario Marianelli; PRODUZIONE: USA/Spagna; ANNO: 2009; DURATA: 126 min.

 


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