Il cinema dei Taviani: utopia del latte e del miele PDF 
Francesca Dimasi   

Ci sono voluti vent'anni, per la precisione ventuno per riconquistare Berlino. Ce l'hanno fatta i sempiterni fratelli del cinema italiano, Paolo e Vittorio Taviani, con il loro Cesare deve morire, un film che al primo sguardo pare un'opera prima e sembra riportarci indietro di almeno sessant'anni, all'epoca in cui i giovani Taviani allattavano al seno del Neorealismo più ortodosso (quello di Zavattini) e muovevano “i primi sguardi” al seguito di Joris Ivens. Già, poiché la prima chiamata al cinema dei Taviani è come un battesimo del fuoco, un singolare incrocio tra due estetiche del realismo, l'una di “lirica del pedinamento”, l'altra di “lirica della meccanica”. Probabilmente è proprio questa curiosa ibridazione a costituire una delle piste più suggestive nell'esplorare il cinema dei due autori, un cinema disseminato di segni del reale eppur sempre a un passo dalla trasfigurazione.

Bisogna dire che la comparsa dei Taviani sullo scacchiere neorealista avviene in un momento in cui le crepe teoriche sono già vistose e autori come Antonioni (pensiamo al “neorelismo interiore” de Il grido) Fellini, Pasolini e lo stesso Rossellini stanno deviando il tiro zavattiniano verso posizioni meno dogmatiche. Per esempio il Visconti de Le notti bianche, con le sue ambiguità e le sue aperture a un versante meno fisiologico e meno cronachistico di realismo, ma piuttosto lukàcsiano e dialettico, aveva persuaso Aristarco dell'urgenza di riportare il regista sul fronte della prospettiva neorealista. E infatti il film successivo fu Rocco e i suoi fratelli. È lo stesso Aristarco, propugnatore del “nuovo realismo” prima e del semplice “realismo” poi (di un realismo cioè che tollerasse procedimenti allegorici) a indicare nei Taviani di Un uomo da bruciare, San Michele aveva un gallo, Sotto il segno dello scorpione e Allonsanfan, i prosecutori della tradizione realista e insieme fra i promotori di quel rinnovamento che attraversa il neorealismo italiano.

Sin dagli esordi di San Miniato '44 (1954), opera che ripercorre lo sterminio di un gruppo di civili del paesino toscano durante l'occupazione nazista, i fratelli Taviani manifestano una sorta di oscillazione tra lo sguardo ruvido al territorio, ai suoi fatti aneddotici ed esemplari, e uno sguardo di ricerca della totalità attraverso il condotto della storia. La dimensione storica dell'umano è qui quel complesso di relazioni psicologiche, comportamentali, sociali che danno l'uomo come totalità, ma si tratta di una totalità che astrae ognuna di queste componenti in un insieme. Come vedremo in quella che ufficialmente è l'opera prima dei Taviani, Un uomo da bruciare (1962), lungometraggio ispirato alla storia di Salvatore Carnevale, uno dei primi martiri della mafia interpretato da Gian Maria Volonté (al suo primo ruolo da protagonista), la lezione neorealista è ancora vivida ma disciolta nello sciroppo dell'omaggio. L'incipit del film (il ritorno di Salvatore in Sicilia dal continente e il rigurgito delle immagini della città e della donna lasciata) ci accoglie in un quadro più introiettivo, come a voler prefigurare un umore della pellicola tutto teso a enfatizzare lo stridore tra la condizione intimo-personale dell'uomo e quella quasi coatta dell'impegno ideologico. E invece, la dimensione nucleare e personale di Salvatore viene presto rigettata in una rete di relazioni d'insieme: l'insieme sociale del piccolo centro, l'insieme politico dei congressi, l'insieme familiare del rapporto materno, l'insieme storico che vede l'insorgere di una nuova mafia.

Ecco dunque che il quadro di centralità del singolo prospettatoci in apertura viene subito respinto sul banco della Storia. Da qui comincia una linea di composizione a cui i Taviani rimarranno a lungo fedeli, quella che va dal singolo al piano della contaminazione col gruppo, dall'episodio alla favola. Nel caso dei Taviani il gruppo assume configurazioni affatto particolari: non siamo davanti al corpo imponente e sinistro delle masse cui tanto cinema ci ha abituati e neppure dinanzi alla solitaria resistenza dell'individuo al magma amorfo della folla; l'insieme sociale nel loro cinema è appunto “gruppo”, manciata di elementi sparuti (ancorché “affini” come ne La notte di San Lorenzo e ne Le affinità elettive) lontani dal produrre aggregazione nel venire a contatto e anzi inclini a un'immediata dispersione. A questo proposito pensiamo ai molteplici esempi della piazza in San Michele, della frantumazione delle due comunità in Sotto il segno dello scorpione, alle molte occasioni di raduno in Un uomo da bruciare, per finire con La notte di San Lorenzo, il cui campo visivo viene continuamente occupato da piccoli gruppi di soggetti in raccolta o in marcia, per poi deflagrare in immagini sgombre e mute da ogni brulichio.

Questa prima fase del lavoro dei Taviani, che prosegue con I fuorilegge del matrimonio (1963), apre una breccia nella matrice neorealista perseguendo una vocazione al sentimento storico, del Neorealismo vi permane l'emancipazione dalla macchina narrativa cui i due autori imprimono una maggiore inflessione analitica. Ne I fuorilegge come nel successivo I sovversivi (1967) si passa dal dato (o dal privato) a una latitudine che va ben al di là del dato stesso. Fermiamoci a I sovversivi. La dimensione astrattivo/collettiva è ancora una volta la Storia, precisamente la morte di Togliatti, evento che accoglie in sé il riverbero di microstorie disconnesse l'una dall'altra. Dice bene Goffredo Fofi nel definirlo un film nostalgico, indubbiamente è una sorta di requiem generazionale, un saluto alla gioventù stessa che qui canta la fine della Storia e il precipizio dell'incertezza. Ma c'è dell'altro: un intervento più programmatico e sottile sul narrato costruito a compartimenti stagni (le quattro storie separate nella trattazione) e poi fatto detonare di modo che ogni storia nel frantumarsi si comporta come una mina vagante all'interno del testo. Questo senso di frammentazione e sgomento lo si ritrova al corteo funebre laddove appunto non resta che raccogliere i lapilli di un'utopia.

Ed eccoci a Sotto il segno dello scorpione (1969). La scoperta del colore si rivela fortunatissima e pare corroborare lo sforzo degli autori di codificare e “illuminare” una serie di valori visivo-simbolici che ritroveremo in tutto il corso della loro filmografia: le rocce dei terreni aspri e sassosi, l'albero del ritrovo, la pietra ruvida delle dimore, la bestia torturata... Una storia, quella di Sotto il segno, senza epoche né luoghi, un racconto favoloso e ancestrale sull'idea stessa di comunità dai richiami fortemente pasoliniani che non si limitano al piano figurativo. La drammatizzazione dell'antinomia vecchio-nuovo, su cui nello stesso anno Pasolini ritorna con Medea, è la dominante drammaturgica di quest'opera in cui la prepotenza del nuovo (il progressismo continentale del gruppo comparso sull'isola) annienta il vecchio (il gruppo autoctono legato all'isola e alla conservazione). È ancora dallo scarto tra il vecchio e robusto spirito anarchico e un più cinico e moderno socialismo che ha origine quella follia che vedrà perire il Giulio anarco-internazionalista di San Michele aveva un gallo (1972). Comincia da qui, dal racconto Il divino e l'umano, il felice incontro tra il cinema dei Taviani e Tolstoj (e la letteratura in genere da Pirandello a Goethe passando per Gavino Ledda).

Con San Michele si ha a nostro avviso la svolta, non un vero e proprio cambio di rotta ma una concentrazione del testo su quei segni che più veicolano il rapporto degli autori con le cose, in breve il loro senso del realismo. L'epicentro testuale è ancora lo sfasamento tra l'uomo e la Storia, tra la possibilità applicativa di una personale fede ideologica e il mutamento ideologico occorso nel Paese. Il centro è dunque tutto riversato nella scena della prigionia in cui Giulio improvvisa un dialogo immaginario coi compagni sdoppiandosi anzi trimezzandosi nei Negrini, Mammoni, e Battilana. “Non sono un pazzo - dice Giulio - ma mi sento ridicolo... meglio ridicolo che rassegnato!”. In questa frase c'è buona parte del cinema dei Taviani, di quel loro modo semplice e organico di guardare alle cose del mondo pur sapendone l'ambiguità, la “triplicità”, la profonda impenetrabilità: ci si sente ridicoli all'idea di poter cogliere il reale così com'è ma non ci si rassegna e lo si indaga nelle sue apparenze, nel suo modo di manifestarsi “così com'è” a patto di conservarne e celebrarne il margine di inaccessibilità. Si ripete come un mantra la filastrocca di quel gallo bianco, rosso, verde e giallo a cui San Michele, per addomesticarlo, dava latte e miele. Con il miele e con il latte (motivo iconografico costante nell'immaginario dei Taviani da Sotto il segno fino a Le affinità elettive), con la modestia e l'ingenuità delle cose ha inizio la ricerca del reale, di quel reale cangiante, sfuggente che si declina in mille modi, quel gallo bianco, rosso, verde e giallo che si addomestica appunto solo col latte e col miele. L'utopia del cinema dei Taviani risiede in questo postulato: partire dalle origini, dal grado zero delle cose e lasciare che sia la molteplicità di valenze che esse assumono (anche solo quelle cromatiche) a restituirne i contrasti, le polisemie (pensiamo per esempio alla scena in Tu ridi in cui il vecchio dottore mostra al pastore il mondo attraverso un filtro prima verde e poi rosso). Lo stampo brechtiano che da più parti si attribuisce ai fratelli (più che altro riferito alle pose del distanziamento che il loro cinema sembra assumere) emerge, diciamo, in questa loro tendenza “illustrativa”. Laddove per illustrativo non intendiamo quell'eccesso didascalico che Grazzini ravvisa nel successivo Allonsanfan (1974), bensì quella maniera di segnalare le cose, di il-lustrarle (darne lustro) semplicemente indicandole.

Una tendenza questa, che si rafforza prepotentemente in Padre padrone (1977), opera in cui il rapporto con la parola (col testo di Ledda) si fa più marcato. Le lunghe sequenze narrate dalla voce del protagonista si giustappongono a immagini fortemente indicative. L'illustratività che qui praticano i due autori e la forte letteralità delle immagini è un'operazione di assoluto interesse. Indicare una parola con un'immagine non è integrarla, non è fornirne un accompagnamento visivo o calligrafico, è piuttosto proclamare l'indissolubilità fra la parola (il concetto) e la sua figurazione, tra il pensiero e l'immagine, è la parola stessa che si dispone nei segni della rappresentazione visiva. In Padre padrone vi è una forte tracciabilità del testo: tracce visive (l'essenzialità di secche carrellate, di frontali, laterali, di dettagli stretti sul mulo, il cane, la serpe, il bambino) tracce sonore (il suono della musica e quello della parola che a turno si contendono il campo visivo, come nella scena delle percosse al bambino davanti a un albero: l'immagine rinuncia a mostrare ma ecco intervenire il rumore assordante dei colpi). Siamo qui giunti al culmine del linguaggio dei Taviani la cui ricerca e stilizzazione del visivo proseguirà col già citato La notte di San Lorenzo (1982) e Kaos (1984), dopo la parentesi rosselliniana de Il prato (1979).

Dopo le stelle dei titoli di testa, La notte di San Lorenzo si apre con un albero totemico e solitario della campagna toscana e ci introduce all'urgenza di riaprire la questione, bisogna tornare a quel San Miniato '44. Il documentarismo del primo cortometraggio lascia il posto alla favola e alla filastrocca scacciapensieri. L'evento è sempre l'avanzata nazista sui territori toscani agli sgoccioli della guerra, ma il metodo oramai è quello del latte e del miele. E allora l'inquietudine e la paura si infrangono sulle distese assolate dei campi di grano, le filastrocche e i cantastorie scacciano dalla mente i suoni marziali, l'eroica Iliade diventa una fiaba illustrata e alla cronaca si sostituisce il dolce canto dell'elegia. In questa sinfonia del racconto anche quella tendenza di cui dicevamo del gruppo in esodo dal quadro visivo, si inscrive nella ritmica composta di un'opera tanto dolce alla vista. “Io dunque sono figlio del Kaos, e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perchè sono nato in una nostra campagna che trovasi in un intricato bosco, denominato Càvusu [...]”. Per destreggiarsi nell'umano kaos ci vuole Pirandello, il filtro prediletto dalla retorica dei Taviani per sfuggire alla cronaca del reale, al suo muto accadere. Tratto da Novelle per un anno e strutturato in forma episodica, Kaos è il piacere stesso del narrare la scoperta della latitudine, della cosmicità dei segni. Pirandello guida nel kaos i nostri autori attraverso quella linea rossa della violenza, del terrore, del disprezzo e una linea azzurra della pietà, dell'apertura. Due direttrici che da sempre investono il racconto dei Taviani.

Nel 1987 esce Good Morning Babilonia, opera non sempre chiara, quasi crocevia di ricognizione tematica in cui lo slancio verso la Hollywood dei padri (i luoghi dell'immaginario cinematografico e le citazioni dei maestri ispiratori) convive col sentimento patriottico e la pietà per i due giovani immigrati. Bisogna riconoscere che in questo film, più che in altri, i Taviani sperimentano il gusto dell'impianto spettacolare come omaggio al cinema stesso ingegnando una struttura composita e ricca di elementi narrativi e visivi. I fratelli tornano poi a Tolstoj ne Il sole anche di notte (1990) (ispirato al racconto Padre Sergio). Sergio, giovane e brillante soldato nominato aiutante di campo del re, finisce per scoprire che la sua promessa sposa ne era stata l'amante e arriva a compiere un radicale ritiro dal mondo prima facendosi monaco e infine eremita. L'albero di Padre padrone, Sotto il segno dello scorpione, La notte e Kaos, diventa qui un vero e proprio totem, luogo facile e riconoscibile, cosa del mondo organica e viva. Ne Il sole... quell'albero solitario posto alla fine di un lungo sentiero ci informa della necessità dei Taviani di tornare al singolo provando a isolarne i contorni al di qua dell'insieme. In effetti la parabola narrativa comincia dall'uomo (eccezionale, dotato e promettente) visto nel suo insieme storico-sociale per poi proseguire e finire con l'immagine dell'unità nell'uomo solo. Si allenta dunque la presa dell'insieme sul singolo resa possibile mediante un isolamento (non forzato come quello di Giulio di San Michele..., bensì volontario, diremmo formale) del soggetto inquadrato in una lucida e a tratti gelida composizione. Quella intrapresa qui dai fratelli è la ripresa di un filantropismo più elitario che stringe il fuoco sull'allegoria del singolo più che sull'astrazione. Ciononostante il personaggio di padre Sergio è meno caratterizzato e meno volumetrico dei personaggi Giulio, Salvatore o Gavino e questo enfatizza il procedimento stesso più che l'esito.

Con Fiorile (1993) siamo davanti a un melò dalle tinte più vicine all'estetica da telenovela, in cui la grande Storia torna irriverente a gettare scompiglio nella vita di un giovane, mentre invece di affascinante confronto possiamo parlare a proposito di Le affinità elettive (1996), tratto dall'omonimo libro di Goethe, opera classicheggiante e di sapore greenawaiano. L'immagine del latte (un'immagine a tratti torbida ed erotica nel precedente Il sole...) diviene metafora di una volontà sottrattiva, chiarificatrice del lavoro dei Taviani, votata alle “forme bianche”, alle architetture geometriche e alle corrispondenze simmetriche (i motivi architettonici della cattedrale e degli interni della villa, come anche il quadrato delle due coppie di elementi affini ABCD). Il reale si manifesta nella duplice accezione di ordine (Carlotta) e kaos, mistero delle forme (Edoardo), due entità che si scontrano in un gioco sospeso e inquieto che rimescola gli elementi in campo (la ricombinazione delle coppie, la dispersione e il trauma della morte) per poi tornare alla ricomposizione del tutto, probabilmente nel cerchio di un ordine forzato. Le sfumature sul bianco del latte e della neve, la forte linearità del tournée con inquadrature a camera fissa e brevi carrellate vengono turbate solo dall'affacciarsi della minaccia (l'arrivo di Ottilia, la desolazione del raccoglimento intorno al pianoforte...) e da improvvisi zoom e carrellate oscillatorie, o da una semplice macchia di sangue sulla neve. Anche in questo caso l'emancipazione dall'insieme è compiuta, sebbene è di un insieme che si tratta, ma fortemente nucleare e combinatorio che anche quando espelle le sue parti (la morte di Ottilia ed Edoardo) rimane integro almeno in forma duale (Ottone e Carlotta).

Di nuovo Pirandello nelle due storie della commedia Tu ridi (1998), forse il più metacinematografico tra i film dei Taviani, con quella scena fra il dottore sequestrato e il pastore carceriere in cui il secondo giura sulle stelle che vede e il primo gli svela l'inesistenza di ciò che vede: luce stellare che ha impiegato migliaia di anni per raggiungere la terra e che probabilmente è solo lo scialo di un astro già morto. Puro riflesso di ciò che non esiste più. Il cinema è forse altro? Dopo la trasferta televisiva di Resurrezione (2001) e Luisa Sanfelice (2004), entrambi tentativi di realizzare quell'utopia del mezzo televisivo come focolare di affabulazione, il penultimo lavoro al cinema dei Taviani è il poco generoso La masseria delle allodole (2007), dramma familiare che si sviluppa intorno ai tragici eventi dell'eccidio armeno da parte dei Turchi.

Ultimo viene Cesare. Torniamo dunque da dove siamo partiti, a Berlino. Abbiamo evitato sinora di usare il termine capolavoro... in questo caso però la tentazione è forte. Cesare deve morire (2012) sembra un'opera prima al di là di ogni riverbero neorealista. In essa è contenuto tutto lo slancio verso la prima esperienza delle cose, tutto il fremito del primo tocco della macchina da presa, tutto quel voler saggiare il proprio sguardo al primo contatto col mondo. Ma si sa, i due fratelli del cinema non sono proprio degli imberbi e nel “rinverginire” il piglio non si sono lasciati sedurre dal seme del voyeurismo che alberga in ogni opera prima, quella sindrome da violazione della città proibita che ogni giovane cineasta avrebbe assaporato nell'entrare all'inferno. Perché di inferno si tratta. Sezione di “alta sicurezza” del carcere di Rebibbia. Tradotto: fine pena mai, “... lasciate ogni speranza oh voi che entrate”. Un gruppo di detenuti si prepara a portare sulla scena il Giulio Cesare di Shakespeare, vengono i brividi al solo pensiero, la mente corre a quel Macbeth di Harlem di Orson Welles. Dietro quelle sbarre si consuma tutta la storia dell'umanità, si racconta di colpe, di traditi e traditori, di lame affilate... l'impressione è quella di sbirciare il centro della terra gambe a penzoloni sulla bocca di un vulcano. Con Cesare il cerchio si chiude, l'insieme ha riguadagnato il suo centro: l'uomo, il singolo, il malfattore, il condannato. La manciata di elementi che compongono questo nuovo gruppo non diserta la scena, né il singolo da parte sua se ne separa per affermare il proprio statuto ma entrambe le istanze (di insieme e di singolarità) lottano sul terreno comune della reciproca identificazione, dell'uomo cioè che si riconosce come insieme e dell'insieme che si riconosce nell'unità.

Caso quantomai bizzarro se parliamo di un insieme forzato (quello della prigionia) e di un uomo degradato a ombra, e forse il segreto sta proprio qui, nel tentativo disperato di ristabilire l'insieme comunitario da cui si è stati espulsi e la nominalità che si è persi. E i due cineasti assecondano a taglio netto tanto il singolo quanto la dinamica dell'insieme riscoprendo una regia severa, monumentale, fatta di quadri bilanciati come a voler stringere in una morsa, immortalare (fare immortali) questi traditori/principi. Paolo e Vittorio Taviani mettono in scena il senso stesso del tragico restituendo al bianco e nero della Storia questi uomini, esaltandone la continuità dell'esistenza a colori, incoraggiandone la “... corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo” (Pirandello). In questa singolare lirica della colpa ognuno di questi dannati è al contempo un princeps e un traditore, e conclude la parabola umana tracciata dai perseguitati Salvatore, Giulio, Gavino, Sergio. Ma di questa schiera i dannati di Rebibbia non entreranno a far parte poiché colpevoli e poiché veri. A loro non resta che Shakespeare. Da più parti si contesta la ridondanza delle interviste ai carcerati, delle scene in cui ognuno di loro si racconta allo specchio della cinepresa. Qui più che altrove interviene, al contrario, la poetica del latte e del miele, contrassegno dell'agire dei Taviani, poiché in quegli spazi privilegiati di unicità, di singolarità, spazi assai remoti per i vari Cesare, funziona ancora il vecchio metodo Rouch, quel modo innocuo di confessarsi alla macchina da presa. Per poi scoprire che essa si comporta esattamente come uno specchio: muto e riflettente. E dunque è indolore e terrificante allo stesso tempo. Le opere d'arte non danno assoluzione.

 


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