Conversazione con Fernando Trueba PDF 
Francesca Dimasi   

Vorrei che cominciassimo a parlare del suo cinema nel contesto del cinema post-franchista. In particolare di L'artiste et son modèle. Rispetto a questo film non si può fare a meno di pensare a La belle Noiseuse di Rivette, e soprattutto alle differenze con questo film. Il senso di morte per esempio, che nell'opera di Rivette è molto presente, nel suo film diventa senso di “plenitudine” (è lei stesso a parlarne), nonostante sia ambientato durante la guerra. Ecco, ci spieghi meglio come si conciliano questi due sentimenti: la morte e la plenitudine.
Beh, L'artiste e son modèle è un film in cui il senso di morte è molto presente. Innanzitutto perché è la storia di un uomo che avverte la sua morte come prossima, e che accetta di morire. Dall'altra parte però, ho sempre considerato questo film come un inno alla vita, un film vitalistico. Lei ha citato non a caso il film di Rivette, ed è un film che purtroppo non amo molto. Mi ricordo quando ho dato la sceneggiatura a Jean Rochefort (l'attore protagonista di L'artiste et son modèle), fu un incontro molto bello. Dopo averlo letto mi chiese anche lui se conoscessi il film di Rivette, e io risposi che non mi piaceva molto. Lui mi abbracciò e mi disse: “Va bene, cominciamo da qui!”. Il motivo per cui non amo molto il film di Rivette è che dà un'idea dell'artista completamente sbagliata, ecco perché non credo vi siano molte relazioni col mio film. La morte, nel mio film, è presente sotto forma di guerra e soprattutto travaglio interiore. L'artista affronta una fase di profonda depressione e sfiducia nel genere umano (ha vissuto due guerre), ma sul fronte storico la presenza dei macquisards (i resistenti) apre a un nuovo spiraglio di vita, così come anche sul fronte personale ci sono segnali di apertura alla vita.

Il cinema post-franchista spesso dissacra i dogmi del cinema franchista e i suoi tre concetti fondanti di patria, sangue e altare. Non di meno, il suo cinema svuota di sacralità dogmatica questi concetti. Per esempio, mi sovvengono le parole del vecchio pittore anarchico di Belle Epoque, quando afferma di non poter essere ribelle in nessun ambito istituzionale quasi per ironia della sorte. Ecco, l'impressione è che in questo film vi sia non solo una de-mitizzazione dello Stato, della famiglia e della Chiesa, ma della ribellione stessa.
Si, sicuramente i miei film tendono a liberarsi degli strascichi della dottrina franchista nel cinema, ed è per questo che nei miei film rifiuto ogni sorta di ideologia. Cerco di concentrarmi sulla storia e sui personaggi. Per esempio, ci sono registi che riescono a creare personaggi terribili, neri, mentre io ho sempre avuto un legame d'amore con i miei personaggi. Ciò che posso dire è che i miei personaggi sono sempre scettici rispetto alla loro epoca e soprattutto alla religione o alle istituzioni in generale, che sono istanze nelle quali io non credo.

Un critico dei Cahiers du Cinèma, a proposito di Belle Epoque, sottolineò come si tratti di un film anomalo nell'ambito della cinematografia spagnola contemporanea, e questo vale per buona parte dei suoi film. Vale a dire che mentre il cinema spagnolo è spesso votato al capriccio, al barocco, lei sembra avere un tocco più dolce, più vicino al classicismo. E a questa grammatica che lei guarda con maggiore interesse?
Sì, devo dire che sono molto affascinato dal racconto classico, tanto in letteratura quanto nella cinematografia. Il fatto è che credo molto nella chiarezza, quando si tratta di narrare. Trovo che i film degli ultimi anni, cito Lars Von Trier si tutti, siano un po' pretenziosi. Per esempio, il regista danese si pone sempre al di sopra dei fatti e dei personaggi che racconta, ma anche al di sopra del suo pubblico, con umore sinistro. Invece io cerco di raccontare delle storie nel modo più chiaro possibile. Io amo molto il cinema di Renoir e Keaton, proprio per il discorso della linearità.

È per questo che ama molto Billy Wilder?
Sì, sicuramente. Nei suoi film troviamo l'ironia, il dramma e la chiarezza di cui parlavo poc'anzi.

Passiamo a Chico e Rita. Perché una storia come questa poteva essere raccontata solo attraverso il linguaggio dell'animazione?
Tutto è nato dall'incontro con Javier Mariscal, che adesso è un mio grande amico. Amo molto le sue opere, i suoi disegni, i suoi quadri. Conoscendoci abbiamo scoperto che abbiamo la stessa passione per Cuba e la cultura latina in genere. Con lui ho scoperto il potere dell'animazione, le sue enormi possibilità, è stata una grande scoperta per me. Adesso, per esempio, sto lavorando con lui a un nuovo progetto.

A che tipo di soggetto sta lavorando?
Per molti anni ho girato del materiale documentario, facendo interviste e ricerche. Adesso sto pensando, a partire da questo materiale, di trasformarlo in un film d'animazione, sempre con la collaborazione di Javier. È una storia ambientata nel Sud America degli anni Settanta, dove politica e musica si mescolano. Credo molto in questo nuovo progetto e in tutto ciò che di nuovo mi si presenterà, perché cerco sempre di non ripetermi e di esplorare territori sconosciuti.

 


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