L’altra verità PDF 
Michele Segala   

Il cinema di Ken Loach è, da sempre, un cinema di semplicità e di compassione, ma anche un cinema di analisi sociale e denuncia: che il tema trattato sia storico (Il vento che accarezza l’erba, Terra e libertà) o di stretta attualità come quest’ultimo L’altra verità, il regista inglese non ha mai fatto mancare ai propri personaggi una profondità psicologica tale da portare il pubblico a simpatizzare con loro, e permettere al contempo allo spettatore di andare al di là della (talvolta) eccessiva rigidità programmatica delle tesi politiche e sociali del singolo film. È così, infatti, che in passato anche le sue pellicole meno riuscite, come per esempio Paul, Mick e gli altri, riuscivano a risultare comunque godibili: personaggi ben delineati, un discreto background psicologico e familiare e degli ottimi dialoghi. L’arte del cinema in Loach è, insomma, sempre legata a doppio filo alla capacità di farci credere nella parabola della vita dei singoli protagonisti. Un lavoro questo, per l’avvocato/sceneggiatore Laverty, che qui si dimostra più difficile del solito.

Frankie e Angus sono amici sin da bambini: nella Liverpool della loro infanzia stringono il patto che li porterà a viaggiare lontano dall’Inghilterra e dalla loro vita grigia. A decenni di distanza, nel presente della narrazione, Frankie è morto, ucciso sulla strada che porta all’aeroporto di Baghdad, la più pericolosa del mondo. Lì lavorava come contractor (i mercenari che svolgono lavoro di protezione  al soldo delle imprese private in zone di guerra), dopo essere stato convinto dall’eterno amico Fergus a seguirlo anche in Iraq. Ma a  Liverpool, nei giorni successivi al funerale di Frankie, Fergus non si dà pace: muove i suoi contatti e pedina un manager della società che gli aveva appaltato il lavoro, nella convinzione che la morte di Frankie non sia stata il solito “incidente” sulla famigerata Route Irish, ma bensì un omicidio, commissionato dalla stessa società per cui entrambi lavoravano.

Come già detto, il realismo del cinema di Ken “il rosso” Loach è totalmente al servizio della sceneggiatura. Nei suoi film il regista sembra farsi sempre da parte, limitando al minimo la propria presenza, preferendo piuttosto lasciare i personaggi e la storia parlare da sé. Altra caratteristica di Loach è la capacità di raccontare la vita della working class inglese bene come nessun altro: si tratti dei disoccupati di My name is Joe o dei nuovi precari di In questo mondo libero, la sua narrazione semplice e classica non manca (quasi) mai di mettere a nudo una realtà spesso molto cruda, e di mostrare senza alcun filtro un mondo (quello del lavoro soprattutto) che solitamente viene snobbato da molto cinema, anche d’autore. Certo, l’ha fatto spesso in passato, e quello del film “di Ken Loach sul mondo del lavoro” è diventato quasi un sottogenere filmico come “il film sulla psicanalisi di Woody Allen”: più che un sottogenere (per alcuni) quasi un cliché. Ma, a settant’anni suonati (come Allen), non solo il regista inglese non demorde e continua a sfornare film con la media di uno ogni due anni (sempre meno del collega americano, a ben vedere …), ma riesce spesso a mantenere una grande integrità e un livello qualitativo invidiabile. Perché, se Il mio amico Eric del 2009 può non essere annoverato tra le sue opere migliori, tutt’altra storia è quella del precedente In questo mondo libero, lungometraggio duro, con una protagonista tutt’altro che simpatica, ma che dall’inizio alla fine riesce sia a dipingere il mondo del sottoproletariato moderno che ad appassionare emotivamente. Quasi come un film dei Dardenne cui venga tolto il minimalismo severo.

E proprio il confronto tra In questo mondo libero e L'altra verità sembra essere particolarmente calzante: entrambi i film hanno infatti come protagonisti dei personaggi che, a differenza della maggior parte dei precedenti lungometraggi di Loach, sono tutt’altro che simpatici, molto lontani dagli arruffati Joe di My name is Joe, George di La canzone di Carla, e dallo Steve di Riff Raff: la Angie della pellicola del 2007 diventa ben presto un’opportunista senza scrupoli, pronta a sfruttare ogni poveraccio, così come il Fergus de L’altra verità è un macho di poche parole che per riparare un torto sa usare solo la violenza. Quello che però manca a Fergus, e di conseguenza a tutto il film, è una narrazione di contorno che ci mostri per intero le sue motivazioni, le sue paure, le sue debolezze, e che, in pratica, riesca a renderlo qualcosa di più di una marionetta in un’opera tesa a dimostrare l’inutilità della violenza o l’arbitrarietà con cui vengono “amministrate” giustizia, vita e morte nell’Iraq occupato dalle forze britanniche ed americane. Si potrebbe a questo punto argomentare che tanto più Loach si allontana dalla sua fonte originaria di ispirazione (la working class che vive e lavora nel Regno Unito) tanto più arranca il suo cinema, come è stato con il poco ispirato Bread and Roses. Ma in realtà non è così. Basti pensare, ad esempio, a film “difficili” come Terra e libertà o Il vento accarezza l’erba, entrambi film storici, il primo addirittura ambientato durante la guerra civile spagnola, e che risultano essere grandi prove d’autore, di grande trasporto emotivo e di grande rigore. Oppure a La canzone di Carla (1996), prima collaborazione tra Loach e Laverty, per il suo avere in comune con questo L’altra verità una guerra in una terra lontana, geograficamente, dal Regno Unito: là il Nicaragua dei Sandinisti, qui l’Iraq dei contractors …

Ma alla fine si ritorna sempre al vero cuore di questo film e a quello di tutte le pellicole di Loach: la sceneggiatura. Che ne L’altra verità non trova mai il registro giusto: non sa essere un dramma sociale (vicino allo spirito registico di Loach) né un thriller sociopolitico, come spesso tenta di essere (e qui il regista di Nuneanton sembra trovarsi alquanto sprovvisto delle armi giuste per creare suspense). Il risultato è qualcosa che sta nel mezzo, notevolmente appesantito inoltre da tesi ideologiche che, seppure sempre presenti in Loach, non erano mai state così drammaticamente inerti.

TITOLO ORIGINALE: Route Irish; REGIA: Ken Loach; SCENEGGIATURA: Paul Laverty; FOTOGRAFIA: Chris Menges; MONTAGGIO: Jonathan Morris; MUSICA: George Fenton; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Francia; ANNO: 2010; DURATA: 109 min.

 


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