Arnaud Desplechin. Poetica, fortuna e destino di un autore francese PDF 
Enrico Maria Artale   

Arnaud Desplechin è un nome di cui probabilmente abbiamo sentito già parlare, vagamente, magari a qualche rassegna o festival. Non ci suona del tutto sconosciuto. Eppure siamo sicuri di non aver visto mai un suo film, anche se forse una volta stavamo per andare, ma no probabilmente era un altro, un altro regista francese…

È probabile che la maggior parte delle persone, almeno tra gli appassioanti e gli addetti ai lavori, reagisca all’incirca così sentendo pronunciare il nome di Arnaud Desplechin, regista francese nato a Roubaix nel 1960. Questo perché dei suoi sette lungometraggi (escludendo i documentari) ne sono stati distribuiti in Italia a malapena due (il primo di questi, I Re e la Regina, praticamente solo in DVD). Così, grazie alla disgraziata benevolenza dei distributori, il suo cinema può costituire una sorprendente scoperta per chi abbia la voglia di lanciarsi nella faticosa ricerca dei singoli lavori. Una scoperta se non altro perché, fin da subito, ci si accorge di essere di fronte ad un autore assolutamente formato, con interessi peculiari, con un tocco registico molto personale ed intenso che rivela influenze importanti ma ben assimilate. Non si tratta insomma di un paio di film fortunati, ma di un’opera significativa per estensione, unicità ed eterogeneità interna. Ci sono i primi lavori, La Vie des morts e La Sentinelle, in cui il talento del regista è già in evidenza, in cui siamo lontani dalle grandi forme di narrazione sperimentate successivamente; ci sono lavori minori, meno accessibili ma interessanti, come il film di derivazione teatrale Léo, en jouant "Dans la compagnie des hommes", o il toccante documentario L’Aimée, ma ci sono soprattutto i quattro grandi lungometraggi della maturità, che hanno scandito con precisa cadenza quadriennale l’attività del regista dal 1996 ad oggi: in ordine, Comment je me suis disputè…, Esther Kahn, I Re e la Regina, Racconto di Natale. Si tratta di quattro grandi film accomunati in prima battuta dall'applicazione di una forma di narrazione quasi epica ad un contesto sentimentale molto intimo, il che si traduce in una grande ricchezza di personaggi e caratteri, nonché in una durata estremamente superiore alla norma, tra le due ore e mezza e le tre. Fa in un certo senso eccezione alla regola Esther Kahn, poiché qui la focalizzazione sulla protagonista è strettisstima, lasciando poco spazio a tutto il resto per far rientrare la grande narrazione ottocentesca in un affascinante minimalismo.

In questo corpus di opere le ricorrenze tematiche e stilistiche sono molteplici e costituiscono una complessa omogeneità, per quanto si può ravvisare facilmente un progressivo mutamento dello stile. Addirittura i nomi dei personaggi ritornano di film in film, lasciando lo spettatore libero di avventurarsi in varie ipotesi interpretative che forse meriterebbero uno studio più analitico di quello che qui abbiamo modo di svolgere (un esempio che vale la pena di ricordare è quello di Paul Dedalus, nome già enigmatico e simbolico di per sé). Nel cinema di Desplechin la costruzione dei personaggi procede mediante l’indagine psicologica, che spesso coincide con l’intero percorso narrativo. Ciò comporta una progressione molto lenta: non c’è una caratterizzazione del personaggio iniziale, stabile e introduttiva, cui far seguire gli avvenimenti che lo modificheranno interiormente. Questo modello convenzionale di sceneggiatura, che nei manuali americani segue il famoso “arco di trasformazione del personaggio”, è del tutto assente, poiché non vi sono azioni che cambiano i personaggi, ma è piuttosto lo spettatore ad essere condotto attraverso un carattere per scoprirne progressivamente tutte le sfaccettature. Si potrebbe dire a ragione che, anche in questo caso, Esther Kahn costituisce un eccezione, dal momento che, in un certo senso, il film potrebbe essere portato ad esempio come applicazione essenziale di trasformazione del personaggio (certo non in osservanza dei principi convenzionali che dovrebbero regolare la distribuzione degli eventi nella storia). Ma in questo film la focalizzazione sulla protagonista, una giovane ebrea che cerca di diventare un attrice teatrale, è talmente intensa che gli eventi e le situazione che segnano la narrazione appaiono relegati sullo sfondo, distanti dallo spettatore allo stesso modo in cui il personaggio di Esther è distante da tutto e da tutti. Così, nel finale, non si tratta tanto di una trasformazione del personanggio in seguito all’accaduto, quanto della scoperta di un aspetto del suo carattere che è sempre esistito e che solo adesso ha modo di dilagare al di fuori della chiusura soggettiva. Una scoperta che Esther e lo spettatore fanno nel medesimo istante.

Questo particolare metodo di caratterizzazione dei personaggi, che certo non è un’invenzione di Desplechin, ma che trova nel suo cinema un’applicazione rigogliosa ed estremamente espressiva, non deve far pensare alla povertà di azioni che ne consegue come ad una narrazione assolutamente debole. La particolarità di questo regista consiste, tra le altre cose, nel saper evadere gli schemi della narrazione debole mediante l’incontro di situazioni forti, potentemente drammatiche. È il caso felice de I Re e la Regina, in cui vediamo una donna alle prese con la malattia e la morte del padre, ed un uomo internato in una clinica psichiatrica dai suoi familiari. Punto di forza del film è il differente atteggiamento filosofico e cinematografico che il regista adotta per le due situazioni, dando vita ad una dialettica straordinaria capace di dinamizzare anche i momenti più statici. L’incontro con la morte possiede sempre, nel cinema di Desplechin, il carattere di un incontro decisivo: il suo talento cinematografico emerge proprio in alcune di queste sequenze, come in quella straordinaria in cui Esther Kahn assiste alla morte della nonna, che rivela in tutto e per tutto la fondamentale influenza di Bergman. Malgrado Desplechin intrattenga infatti una relazione ideale con molti degli autori della nouvelle vague, e con diversi registi francesi contemporanei, Ingmar Bergman è senza ombra di dubbio il cineasta che ha segnato il suo cinema più in profondità: citazioni (il sogno in Esther Kahn richiama quello de Il posto delle fragole), assunzioni formali (la confessione allo spettatore, con il primo piano in camera, o i dettagli delle parti del viso), ma soprattutto nuclei tematici come la descrizione attenta e la riflessione sulla malattia come momento chiave del rapporto con la morte, il dialogo con i defunti, la crudeltà inconfessabile delle relazioni umane. Come Bergman, inoltre, il regista di Roubaix dispone il proprio orizzonte creativo a partire dal proprio vissuto autobiografico, in particolar modo infantile e adolescenziale. Così la famiglia diviene spesso l’oggetto prediletto del suo cinema, in versioni assai poco convenzionali, che prevedono amori incrociati, figli adottivi, e nonne omosessuali. Se ciò sembra allontanrlo non poco dal mondo bergmaniano, segnato da un’austera tradizione, il bellissimo documentario L’Aimée, in cui Desplechin cerca di ricostruire la vita della nonna scomparsa quando il padre aveva pochi mesi di vita, ci offre la possibilità di scoprire la vera sorgente vitale a cui il regista ha potuto attingere per il suo lavoro, non diversamente da quanto facesse il maestro svedese. In questo senso l’autore francese è uno dei suoi eredi più significativi, anche e soprattutto perché egli appare altrettanto consapevole della lezione che altri grandi registi hanno imparato da Bergman, assimilando il suo cinema per sottoporlo a radicali trasformazioni. In relazione a Desplechin ne vanno citati almeno tre, che del resto sono i più rivoluzionariamente bergmaniani, in assoluto: Cassavetes, che installò l’idea di una totale aderenza al volto sul proprio sperimentalismo formale e produttivo nonché sulla propria ineguagliabile capacità di direzione attoriale; Woody Allen, che ha messo in relazione l’esistenzialismo nordico con il proprio umorismo dissacrante di matrice ebraica, riuscendo a cancellare, in capolavori come Crimini e misfatti, i confini di entrambi; e infine, senza dubbio il più importante per il regista di Roubaix, Jean Eustache, che ha avvicinato Bergman alla nouvelle vague, rovesciando la leggerezza del cinema d’oltralpe nell’austera disperazione de La Mamain et la putain, film assolutamente imprescindibile per capire tanto cinema susccessivo, compreso ovviamente quello di Desplechin, per il quale è probabile che rappresenti un modello insuperato.

Anche da un punto di vista linguistico e narrativo il cinema di Desplechin si presenta in modo fortemente caratterizzato: se fino ad Esther Kahn lo stile del regista era improntato ad un’asciuttezza complessiva fondata sulle ellissi di montaggio, negli ultimi due film, la voce over ha dato vita a processi particolarmente sperimentali, sulla linea di quel cinema che, da Alain Resnais fino a Terrence Malick, vede nella descrizione della relazione tra pensiero, linguaggio e realtà la potenzialità fondamentale dell’audiovisivo. Già nei primi lavori, e soprattutto in Comment je me suis disputé, l’autore aveva sperimentato in questa direzione soprattutto attraverso l’utilizzo di un narratore esterno che interveniva in modo piuttosto singolare sull’immagine, salvo poi renderlo più puntuale nel minimalismo espressivo di Esther Kahn. Negli ultimi due film, invece, il meccanismo tra voce narrante esterna e voci over dei singoli personaggi appare assolutamente svincolato, trascinante, complesso e ulteriormente arricchito dall’associazione costante con sovrapposizioni sonore, con voci diegetiche e falsi raccordi che non interrompono il proseguimento del discorso, neanche quando a parlare non è la voce over ma quella rispetto alla quale il montaggio assume il ruolo straniante di chi viola e al tempo stesso ristabilisce il tempo reale, o meglio scardina il tempo della vita per  restituire il tempo del pensiero, le sue strutture, le sue accelerazioni, le sue ripetizioni e i suoi passaggi a vuoto. Tutto ciò contribuisce ad una strana commistione di realismo e narrazione antinaturalistica, ormai lontana dai registi che avevano in un certo senso teorizzato questa forma quasi ossimorica, come Bresson, o diversamente Pasolini, e indirizzata verso una libertà dell’immagine caratteristica del cinema del nuovo millennio, capace di riunire elementi espressivi molto eterogenei: movimenti di macchina, camera a spalla, ridottissima profondità di campo, falsi raccordi, dissolvenze, addirittura split screen.

Il cinema di Arnaud Desplechin potrebbe offrire un interessante punto di partenza per una ricognizione sulla questione dell’autore cinematografico, esageratamente dibattuta nei decenni ma in fondo mai risolta, forse perché continuamente messa in discussione dall’aggiornamento delle pratiche cinematografiche e della creatività tecnologica in genere, forse perché intimamente irrisolvibile. E in relazione a ciò colpisce la mancata ricezione del cinema di Desplechin in Italia: certo non può sorprendere che film di qualità restino esclusi dal circuito delle sale cinematografiche nostrane a causa delle enormi difficoltà legate alla distribuzione. Eppure la prolungata assenza di Desplechin è quantomeno singolare. Volendo presupporre che le problematiche dettate soltanto dalle contingenze distribuitive non bastino ad escludere un cineasta giovane e prolifico, osannato a pochi passi da casa nostra, è bene ipotizzare ragioni intrinseche. Potremmo esaminare velocemente alcuni aspetti che solitamente precludono ad un film la possibilità di arrivare al pubblico italiano, salvo accorgerci che il cinema di Desplechin non risponde a tali prerogative. In primo luogo non si tratta di un cinema politico: intendiamo con questa espressione non tanto un cinema che tratti di argomenti più o meno inerenti alla politica, che nella maggior parte dei casi non ha difficoltà a trovare la sua visibilità piccola o grande che sia, in relazione ai target della produzione. Parliamo invece di un cinema che assuma l’impegno politico e la contestazione all’interno del processo cinematografico stesso, rimettendo costantemente in discussione le forme istituzionali della rappresentazione cinematografica, resistendo esteticamente ed eticamente all’industria. Si tratta ovviamente di un insieme che non ha confini ben delineati, ma al massimo caratteristiche peculiari, come lo stretto dialogo con il campo del documentario, che tuttavia non bastano ad identificarlo. Negli ultimi anni la chiusura pressoché totale verso gli autori che si muovono in questi territori, e che trovavano una visibilità italiana soltanto all’interno di festival, sembra essersi incrinata. Ma può bastare un nome, o meglio due, per rendere l’idea del fenomeno: Jean Marie Straub e Danielle Huillet. Un fenomeno che non può essere imputato esclusivamente al capriccio o all’ignoranza degli operatori della distribuzione, a ragioni commerciali, o meglio meramente commerciali, nel senso che tali ragioni risultano indirettamente coinvolte in un progetto estetico e politico che non ha niente di casuale, per quanto non sia deciso a tavolino da qualcuno in particolare. Nonostante i due cineasti francesi abbiano scelto l’italia come paese in cui vivere e lavorare, nonostante si siano dedicati in modo appassionato alla trasposizione cinematografica di grandi romanzieri italiani, sono stati esclusi totalmente dal circuito, e le poche persone che hanno visto i loro ultimi film lo hanno fatto nei piccoli cinema d’essai. Neanche la morte della Huillet è valsa a determinare un clima di interesse, malgrado in tale occasione la Mostra Cinematografica di Venezia avesse conferito ai due cineasti un premio speciale. È vero che l’incomunicabilità è parte integrante e voluta dell’opera di Straub-Huillet, che certo hanno operato le proprie scelte registiche in modo consapevole, ma è anche vero che altrove, in paesi assai differenti tra loro, in Francia, negli Stati Uniti o in Giappone, non hanno incontrato la stessa rozza indifferenza. È anche vero, per rubare le parole con cui sembra che Adriano Aprà abbia concluso il suo intervento alla commemorazione, che questo è un paese di merda.

Straub-Huillet rappresentano nel loro estremismo una tipologia di autore cinematografico che è forse la più nobile, se non altro per il coraggio e l’impegno, oltre che per l’innovazione in campo cinematografico: autori di questo tipo hanno avuto poco spazio nelle nostre sale. Ma Arnaud Desplechin non è affatto un autore di questo tipo, pur avendo realizzato alcuni documentari che lo avvicinano non poco a questo cinema. Ma in questa sede non ci chiediamo perché L’Aimée non sia arrivato in Italia. I grandi film di finzione di Desplechin, pur nella loro tendenza variamente sperimentale, non si pongono in modo anticomunicativo con il pubblico, né in contestazione formale con l’industria cinematografica, accogliendone invece gran parte della struttura estetica come fanno del resto la maggior parte dei registi. Non si può dire che il cinema di Desplechin poggi su una struttura produttiva leggera o tantomeno povera. Da ogni punto punto di vista la messa in scena dimostra una straordinaria ricchezza nella cura dei particolari stilistici e scenografici. È vero che spesso il regista, nelle luci o nell’utilizzo della macchina da presa, si affida alla semplicità, ma ciò non si traduce mai in applicazioni cinematografiche ossessive. Per restare in ambito francofono, il suo cinema somiglia poco a quello dei fratelli Dardenne, pur condividendone talvolta certi stilemi tipici. I due cineasti belgi hanno trovato negli anni uno spazio e un consenso diffuso anche in Italia, sulla scia dei successi a Cannes, che ha permesso ai loro ultimi lavori di avere una distribuzione quasi degna, nonostante i loro film presentino storie e forme di narrazione in un certo senso ostiche. Un successo meritato si dirà, ma è bene ricordare che in questo discorso il merito non è il deterrente ultimo, come ci si potrebbe giustamente aspettare.

Dunque Desplechin non appartiene né ad un cinema rivoluzionario, né ad un cinema povero (etichette peraltro insignificanti). D’altro canto non si potrebbe neanche imputare al regista un particolare provincialismo, tale per cui le sue tematiche sarebbero prive di interesse per il pubblico non francese. I suoi film trattano sempre e in modo assolutamente dichiarato temi universali come la morte, il dolore, la malattia, l’identità, e sebbene questa pretesa di universalismo possa a volte sembrare esagerata è giusto riconoscere che pochi tra i giovani registi si sono dedicati con tale insistenza e, a tratti, profondità a questioni di così ampio respiro. Sarebbe stato quasi comprensibile, ancorchè deleterio, che alcuni operatori avessero avuto tali perplessità sul cinema di Laurent Cantet. Se infatti non consideriamo La classe, che ha goduto dei benefici della Palma d’Oro ben oltre ogni possibile previsione, notiamo che anche film come Risorse Umane hanno ottenuto una certa visibilità italiana, malgrado si riferissero a contesti e problematiche sociali più circoscritti (almeno sulla carta, dato che poi ogni buon film riesce a sconfinare dai propri territori). Evidentemente si è ritenuto che Cantet, sulla scorta di chi lo accomuna idealmente a Ken Loach, potesse in ogni caso attrarre un determinato pubblico, particolarmente attento a certe tematiche. Allora verrebbe da chiedersi quale potrebbe essere il pubblico di Desplechin. E i distributori interessati non avranno avuto difficoltà a fare delle ipotesi, con l’utilizzo dei consueti luoghi comuni: film francese, psicologia, rapporti di coppia, un po’ di sesso… Anche volendo restare in ambito di pianificazione commerciale, il pubblico correttamente stimato non dovrebbe mancare, per di più se consideriamo la grande presenza di attori noti e molto noti, un punto di forza per molte operazioni distributive. Con Desplechin hanno lavorato, tanto per elencare alcuni nomi: Ian Holm, Emmanuelle Devos, Catherine Deneuve, Chiara Mastroianni, Summer Phoenix, Mathieu Almaric, Emanuel Salinger, Maurice Garrel, Marion Cotillard, Jeanne Balibar. Non tutti saranno ugualmente noti in Italia, ma bastano ad escludere il problema.

Si potrebbe concludere che non esiste una ragione specifica tale per cui il cinema di Arnaud Desplechin abbia faticato così tanto per arrivare in Italia, riuscendoci soltanto al settimo tentativo (in quasi venti anni…). Restando sulla lunghezza d’onda dei distributori potremmo pensare che la durata sostanziosa dei suoi film (quasi tutti sopra le due ore e mezza) non abbia giocato a suo favore, ma di per sé sembra assai poco per scoraggiare anche gli investitori più timorosi. Tutto ciò conferma la singolarità del caso Desplechin. Esistono altri autori francesi che hanno incontrato grandi difficoltà in Italia, ad esempio Robert Guediguian, ma in tempi recenti l’assenza da ogni tipo di circuito del cineasta di Roubaix ha pochi eguali, e sembra condurre ad un paradosso: ciò che ha impedito a questo autore di ottenere una visibilità adeguata è proprio il suo essere, dichiaratamente e prepotentemente, un autore. Molti critici hanno storto il naso di fronte alla volontà consapevolmente autoriale di Desplechin, al suo porsi come identità specifica, vedendo in questo un tentativo di nascondere la propria vacuità di fondo. A volte, effettivamente, si ha la sensazione che i film del regista non abbiano nulla da dire, poco da raccontare. Non è una sensazione erronea, ma va colta in modo positivo. L’atteggiamento del regista di fronte alla vita va di pari passo con il suo rapporto con la tradizione cinematografica: si tratta in un certo senso di un lavoro di costante e appassionata raccolta, sintesi, ripetizione, accostamento. Se ciò che ne esce fuori, almeno in prima battuta, è una sorta di girotondo ossessivo e apparentemente privo di senso è perché Desplechin ha acutamente visto in tutto ciò lo statuto della contemporaneità. Il suo esagerato sforzo di distinguersi in quanto autore non è così diverso da quanto non facessero i maestri della nouvelle vague, ma sembra rispondere ad una maggiore disperazione, quasi a riconoscere un'impossibilità odierna dell’artista cinematografico teso completamente all’espressione del sé, come diceva Cassavetes, un suo essere irreparabilmente inattuale. A tratti sembra che Desplechin voglia dispiegare nel suo cinema una sorta di canto del cigno dell’autore francese, ereditando la tradizione ma anche sintetizzando nella sua opera il lavoro dei suoi contemporanei. In questo modo si pone in una particolare posizione di intermediario, intrattenendo relazioni formali con registi assai diversi (evidentissime nel doppio registro tematico e formale de I Re e la Regina). Da un lato i grandi superstiti della nouvelle vague, Rohmer e soprattutto il Rivette di Storia di Marie e Julien, dall’altro Patrice Leconte e il cinema francese più commerciale, le cui insistenti pretese autoriali sfociano spesso nel ridicolo. Ma anche il cinema più impegnato: Assayas, Cantet, se non addirittura i Dardenne. D’altro canto ogni cosa che proviene d’oltralpe sembra assomigliare un po’ a lui, non da ultimo lo strepitoso film di Julian Schnabel, Lo scafandro e la farfalla, quasi fosse passata l’impronta stilistica di Desplechin attraverso Mathieu Almaric, vero attore feticcio del regista di Roubaix.

Ecco dunque perché questo regista così smaccatamente autore e così smaccatamente francese, il cui successo in patria appare quantomeno scontato, potrebbe essersi guadaganto antipatie e diffidenze nel nostro paese. Ma questa sintesi complessiva, affascinante, e anche un po’ snob, del cinema francese non deve essere liquidata come un gioco autoreferenziale: intanto perchè la relazione con la vita e la passione per essa è testimoniata a tal punto che ogni film è in grado di comunicare intensamente per suo conto; in secondo luogo perché il cinema di Desplechin sottolinea dall’interno la crisi dello statuto autoriale tradizionale, l’esaurimento del paradigma del regista demiurgo, creatore del mondo narrativo. I suoi straordinari film, a tratti incontrollabili, estenuanti, confusi, eppure sotto certi aspetti profondamente classici indicano ciò che il cinema non è più in grado di essere, e nello sforzo di dipanare un racconto si affidano ad un utilizzo ampio ma mai banale degli elementi letterari. La forza e il fascino di questi film sono, almeno nei casi migliori, innegabili. Tuttavia, si potrebbe dire che sembrano, fin dal momento della loro uscita o della loro concezione, già superati. Ma questo difetto consapevole conduce ad una qualità, ad un valore prezioso: è l’invito ad andare oltre questo cinema, oltre l’autore stesso.

 


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