Il vecchio e il nuovo: Stephen Frears PDF 
Aldo Spiniello   

Una sola immagine di Frears. O meglio un solo suono: l’agghiacciante sibilo, seguito dal silenzio nel finale di A prova di errore, versione televisiva del romanzo “antinucleare” di Eugene Burdick e Harvey Wheeler, sceneggiato da Walter Bernestein (già messo in scena da Sidney Lumet). Uno dei finali più cupi e disperati degli ultimi dieci anni. E che lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di un regista profondamente pessimista, nonostante la sua manifesta fede in magnifiche sorti progressive. Tema centrale del cinema di Frears, che scorre, sotterraneo, anche in quei film che ne sembrano immuni, è lo scontro tra il vecchio e il nuovo. Cinema empirico, quasi, che nasce dall’introduzione e osservazione di un reagente, di un principio di cambiamento che comincia a smuovere e a mandare in subbuglio l’ordine costituito, sia esso politico, familiare, sociale. Certo ogni storia chiede una crisi, ma in Frears è proprio la crisi l’oggetto del discorso, non solo e non tanto a un livello individuale, interiore, psicologico, quanto a un più ampio livello, sociologico, o meglio ancora strutturale.

Un cinema, dunque, essenzialmente politico, almeno in prima istanza. D’intervento ancor più che di studio, in linea, apparentemente, con una certa tendenza del cinema inglese, sempre anti-istituzionale (Loach, Leigh). In My Beautiful Laundrette (1985), primo vero successo di Frears, terzo lungometraggio dopo una lunga esperienza televisiva, è la relazione tra Omar e Johnny a scatenare una reazione sistemica, tanto da parte della famiglia pakistana di Omar quanto degli amici razzisti di Johnny. È il contatto stesso tra i due a provocare la scintilla fatale e sconvolgere l’assetto, prima ancora del carattere “proibito” di un amore omosessuale ancora impossibile per il puritanesimo britannico. E fa parte del gioco “ribelle” e progressista, che gli attori del cambiamento siano proprio le giovani generazioni. Naturalmente. Ma, a lungo andare, appare evidente come la crisi sia senza padroni, impersonale, inevitabile come ogni trasformazione storica. E per questo non è un’eccezione un film apparentemente fuori tempo come Le relazioni pericolose, gioco di seduzioni e inganni a scatola chiusa, ma anche ritratto di un mondo in dissoluzione e quindi di un’inarrestabile modifica nel tessuto sociale, nell’organismo stesso dei personaggi. All’alba di una nuova epoca, del trionfo ancora intramontabile della borghesia.

E in questo senso, il film che più assomiglia a Le relazioni pericolose, non a caso, è un altro dramma in costume, solo all’apparenza più libero e liberato: Cheri (2009), ritorno di Michelle Pfeiffer nel cinema di Frears. Nel racconto dell’irrisolta storia d’amore tra la matura cortigiana Leah e il giovane e smidollato Cheri, ai tempi della Belle Époque, Frears mette in gioco tutta una serie di segni che convergono verso l’idea di una trasformazione inesorabile e della fine di un/del mondo. La nostalgia, la mancanza (dei corpi) che è l’ossessione del desiderio, il rimpianto per la giovinezza perduta. Spettri di un altro mondo alla fine del mondo, che si agitano però in maniera assolutamente problematica. Leah, la donna di mondo, smaliziata, arrampicatrice, padrona della propria vita e “carriera”, è messa in crisi dal ben più inconsapevole Cheri. La vittoria della gioventù, se di vittoria si può parlare nel dramma di cuori umani che si cercano, s’incontrano, si sfiorano e si perdono, in una  specie di “ronde ophulsiana” priva di qualsiasi gioia (com’è giusto che sia). Ma Cheri è davvero inconsapevole, appare più che altro strumento, detonatore di una reazione chimico-biologica inevitabile, come mostra perfettamente la scelta finale di Leah di rinunciare al suo amore e prendere atto del tempo andato. Vittoria improbabile, dunque, proprio perché giocata sull’infelicità di una perdita inesorabile. Si coglie, fra le righe, il segno di una frattura. Come se Frears, pur continuando a essere strenuo assertore delle ragioni del cambiamento, ne avvertisse sempre più i limiti ciechi e l’amarezza delle conseguenze.

Un apparente paradosso che nasconde una visione che, film dopo film, viene a farsi più problematica. E che sembra trovare la sua espressione più complessa in The Queen, film centrale dell’opera di Frears, almeno dell’ultimo periodo, coraggiosa e osteggiata incursione nelle stanze “imbalsamate” dell’istituzione monarchica inglese. Qui il reagente, il principio di mutazione che irrompe nell’immobilità dell’ordine di cose esistente, è la morte tragica di Lady Diana, che da un lato suscita un’ondata di commozione collettiva senza precedenti, dall’altro  innesca un sostanziale gioco di potere tra la corona, legata a un’interpretazione tradizionale del rapporto tra istituzione e popolo, e il neo primo ministro laburista Tony Blair, che, al contrario, si mostra un perfetto interprete della nuova dimensione spettacolare della politica, della rivoluzione mediatica di un privato che si fa sempre più pubblico. Lo sguardo di Frears sembra dapprima tutto sbilanciato dalla parte di Blair, figura positiva (prima della guerra in Iraq), solare e sorridente, incarnazione del nuovo che avanza, delle nuove sfide della politica alle soglie del XXI secolo. Ma, a poco a poco, al di sotto della freddezza glaciale e mortifera dell’istituzione monarchica, si fanno strada con sempre maggiore forza le ragioni della regina Elisabetta, depositaria convinta e sincera di un sistema di valori ed espressioni profondamente radicati nella tradizione. Progressivo slittamento di senso, che è merito, ovviamente, della perfetta  orchestrazione della sceneggiatura di Peter Morgan (già prima di Hereafter, lucidissimo esploratore del nuovo immaginario della morte), ma anche della coraggiosa intransigenza di Frears. Il vecchio, allora, diventa sobrietà e dignità, intimità del lutto contro la voracità dei media, l’oscenità di una società che rincorre la manifestazione nuda e senza difese delle proprie debolezze e passioni. La regina non manifesta un reale dolore per la scomparsa della “regina mancata”, ma è pur vero che appare sincero, necessario all’esistenza stessa di tutto ciò che rappresentanza, il desiderio di essere in sintonia con il cuore e la mente del popolo. Blair, invece, come è stato giustamente scritto da Federico Chiacchiari su Sentieri Selvaggi, “mostra la sua natura di grande comunicatore del vuoto, di pura immagine, in crisi quando si tratta di fare gesti che siano parte di un vero programma di rinnovamento politico ed economico del paese, del tutto a suo agio quando si tratti di agire sulla superficie del sogno britannico, abile manovratore dell'affetto popolare per la principessa del popolo”. Una sorta di rovesciamento che raggiunge dei momenti di emozione vertiginosa. Come nella disarmante e magnifica scena in cui i reali si presentano in pubblico e leggono i biglietti carichi di odio tra i fiori deposti all’ingresso di Buckingham Palace. Queen Elizabeth avverte tutta la distanza che la separa dall’oggi, ma probabilmente ritrova il senso di un legame più profondo, col passato e con il futuro, nell’attimo in cui una bambina le offre un mazzo di fiori. O come nell’incontro tra la regina e il cervo. Epifania ciminiana, in cui la bellezza regale e la meraviglia “divina” sono oppresse dall’ombra della fine. Ogni cambiamento vuole una morte. E ogni progresso si costruisce su un crollo, come nell’esplosione atomica di A prova di errore, parabola disperata sulla sostanziale impossibilità di un’umanità liberata dall’errore e dalla caduta. Altra faccia della medaglia. Lutto necessario e insostenibile. In ogni caso, non più gioia e rivoluzione, come sognavano e cantavano gli Area e Demetrio Stratos.

Frears, nell’attimo stesso in cui corre avanti, guarda indietro, alle Lady Handerson che sognano ancora un legame con la terra e la carne, nonostante tutto. E la stessa scelta di girare un prodotto televisivo (come alle origini), ma assolutamente ripreso in diretta, come ai bei tempi andati, rappresenta un giro di vite verso il passato. È come se la carica innovativa di linguaggio degli esordi, di My Beautiful Laundrette (già però fin troppo palesemente “teatrale”, quindi declinato più al passato che al futuro), si fosse pacificata, nella progressione narrativa, nel linguaggio, stile, messa in scena, delineazione dei personaggi. Il figlio del Free Cinema, l’ultimo giovane arrabbiato si scopre, a conti fatti, un classico, sempre più fedele a determinati codici di linguaggio e di discorso. Non rinuncia all’ironia corrosiva, irriverente nei confronti di tutto ciò che è istituzionale, ma la carica distruttiva sembra sempre più cedere il passo a una maggiore complessità nel racconto delle motivazioni e dei rapporti. E a una sempre più spiccata predilezione per l’interno, mai dimenticato del resto. Basti pensare solo a Piccoli affari sporchi, ennesima incursione nell’universo multirazziale dell’Inghilterra contemporanea (dopo My Beautiful Laundrette e Sammy e Roise vanno a letto), ma ormai depurata dalla carica di critica sociale” della scrittura di Kureishi. Più che altro, un cinema di corpi martoriati e desideranti, smarriti nell’insostenibile indifferenza di una società sostanzialmente immobile nei suoi rapporti di forze, eppure ancora capaci di amare e di “incidere” (letteralmente) nelle carni malate del mondo.

Frears, rovesciando la prospettiva iniziale, è regista di individui, di corpi e anime frementi, prima ancora che di tessuti sociali lacerati e in deperimento. Come mostra la grande carica sensuale di Tamara Drewe, della debordante Gemma Arterton, oggetto del desiderio in shorts ben attillati e gambe lunghissime, che mandano in subbuglio la placida e immobile campagna inglese. È il desiderio, cioè il fremito di passioni, umori e saliva, il vero agente del cambiamento. E la rivoluzione è fatto intimo, che segna e ferisce i cuori e, d’altro canto, getta scompiglio nelle relazioni sociali, ma non ne intacca la sostanza, se non nella superficie spettacolare. È in questa contraddizione tra la mobilità sfuggente dell’anima e dei sentimenti e la marmorea impassibilità del mondo il cuore emotivo e splendido del cinema di Frears, che compie la sua rivoluzione, riattraversando tutt’intero lo spettro dello sue ossessioni. Dal politico all’intimo e da qui, di nuovo, al politico. Tamara Drewe è la rivoluzione, perché ha innanzitutto vissuto sulla propria pelle la metamorfosi. Ma il suo naso rifatto è semplicemente la superficie, la riaffermazione di un ordine costituito, spettacolare”, che ella si trova a difendere nel suo stesso lavoro di giornalista di successo. Svela e mostra la menzogna di una società che si crede ancora saldamente tradizionale, immobile e maschilista, ma non è mai l’angelo di un altro mondo e di un'altra vita, semmai soltanto di un’altra forma di manifestazione del nuovo dominio spettacolare dell’immagine.

Perché è l’immagine che crea eroi, come mostra il capolavoro assoluto Eroe per caso (altra commedia fondamentalmente, meravigliosamente classica). Li genera e li manipola a proprio piacimento. Gli eroi veri vivono nell’ombra di una quotidianità misera e meschina. Salvano, ma non sempre arrivano a salvare se stessi dall’eterno ciclo di menzogne e falsità che domina la giostra del mondo. Forse, alla fine dei conti, ha ragione il protagonista di Alta fedeltà. Non occorre cambiare. Semplicemente perché la crisi accade, ma non tramuta. Perché nel teatro d’ombre del mondo, si muovono le apparenze, ma non l’essenza delle cose, immutabile, nei secoli dei secoli.

 


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