Le tematiche di un’attualità che ancora scotta, unite ad una produzione e una distribuzione italiana ai limiti della clandestinità (in barba al nome altisonante di chi dirige!) hanno contribuito a fare di Redacted una vera pellicola di culto a soli due anni dall’uscita e, nondimeno, un caso assolutamente peculiare nella filmografia di Brian De Palma. Chi lo aveva lasciato alle prese con il controverso ma maestoso Black Dahlia stenterà a riconoscere l’autore di Scarface dietro questo progetto a “bassa fedeltà”. Lo anticipa il soldato Salazar, per molti aspetti il portavoce del regista: “Non aspettatevi un film d’azione hollywoodiano, niente tagli veloci, niente colonna sonora adrenalinica, niente trama logica che ci aiuti a trovare un senso: in pratica, qui siamo nella merda”.

Sotto il profilo estetico, il film si presenta come la negazione del concetto stesso di Autore: autore come garante della coerenza stilistica, ma anche come mero narratore cinematografico. Redacted (letteralmente “preparato per la pubblicazione”) si autodenuncia nelle didascalie iniziali come un’opera di fiction basata su fatti reali, ma subito dopo pretende di documentare con le immagini “gli eventi avvenuti nel 2006 prima, durante e dopo lo stupro e l’omicidio di Samara”. Nel voler ripercorrere la vicenda, l’intera pellicola camminerà sul bilico dell’ambiguità fra finzione cinematografica ed un efficace effetto-realtà: il compito di narrare, o meglio, di ricostruire le fila di un fatto di cronaca militare viene affidato in toto ad immagini e filmati realizzati senza mai ricorrere all’aiuto di apparecchiature professionali. "Ho letto di un episodio della guerra in Iraq in cui i membri di un plotone dell'esercito USA erano stati accusati di aver stuprato una ragazza di 14 anni e di aver massacrato la sua famiglia – dichiara De Palma - Ho letto blog di soldati e libri. Ho guardato i video di guerra artigianali realizzati dai militari, ho navigato nei loro siti e ho esaminato i loro post su YouTube. Era tutto a disposizione e tutto su video".

Quello che abbiamo qui è l’Autore (nella fattispecie, uno dei nomi più in rilievo dell’establishment hollywoodiano) che fa un passo indietro davanti alla potenza dei nuovi media e, messo in minoranza “numerica” dalla loro frammentaria vastità, li lascia raccontare la sua storia. La longa manus del demiurgo si avverte soltanto nel gesto di coordinare, di redarre l’eterogeneità di materiali e punti di vista in un discorso unitario: ma è un compito che anche un semplice lettore “multimediale” svolge nella propria quotidianità, captare pieces of information dai mezzi a propria disposizione e rammendarli fra loro, per farsi un’idea dei fatti. Il videodiario di un soldato, le camere di sorveglianza nell’accampamento, un documentario francese, i video sulla rete, il servizio giornalistico di una tv irakena o il report di un inviato al seguito delle truppe USA: sono tutti strumenti deputati, in un modo o nell’altro, a raccogliere la “verità ventiquattr’ore su ventiquattro”. Finiranno per spartirsela, litigarsela, strapparsela a vicenda, boccone dopo boccone, ma senza che nessuno di loro riesca mai davvero a portarla alla luce.

Doveva essere un’arringa contro la politica estera americana, “Redacted”. Contro l’ipocrisia e gli orrori nascosti di una guerra ancora in corso: diventa una riflessione critica sull’impossibilità da parte dei media (e del cinema) di raccogliere e la Verità e di saperla raccontare. “La guerra uccide ogni verità” sentenzia il soldato semplice Mc Coy. E le stesse controversie distributive incontrate dal film non fanno che dargli ragione.