Go Go Tales PDF 
Mario Bucci   

ImageAbel Ferrara è cresciuto, è invecchiato, è impazzito, è maturato, è cambiato. No, forse no. Perseguitato dal senso di colpa e dalla mancanza di un processo di redenzione, il regista newyorkese di origini italiane torna infatti sul grande schermo, dopo il delirio mistico di Mary, con quella che nella sua filmografia appare come una vera novità, o forse una anomalia: una commedia. Ray Ruby, gestore del night club Paradise, affollato di bellissime ed originali stripteasers, ha debiti con tutti coloro che a quel locale sono legati: l’anziana ed alcolizzata proprietaria, le ballerine, il fratello socio che investe sul locale senza trarre profitti, e tutti i dipendenti. È giorno di paga, notte anzi, e tutti attendono di ricevere il proprio compenso, mentre Ray Ruby prende tempo: ha in mano la giocata della vita ed è convinto che possa sollevare le sorti di tutti.

Girato interamente a Cinecittà, dove un po’ sciattamente sono stati ricostruiti anche gli esterni del locale, immaginato nella solita Manhattan tanto cara al regista (Paura su Manhattan, con Melanie Griffith, e sempre con un gruppo di donne gestite da un uomo), il film prende le mosse da un’idea interessante ma molto esile, che alla lunga non esalta mai le capacità empatiche dello spettatore. Ciò che affascina di questo lavoro, infatti, è il legame tra un pubblico davvero affezionato al regista (in sala eravamo in due) e il suo percorso biografico, ancora una volta portato sullo schermo tramite un alter ego (Ray Ruby/Willem Dafoe) che percepisce questo mondo notturno come il suo unico mondo, l’unica casa che egli possa immaginare, il Paradise appunto, e che egli vuole preservare a tutti i costi. La vita è una cosa meravigliosa (il Paradise, la notte, le donne, gli stanchi eccessi, l’alcool), ma per arrivare a questa conclusione bisogna avere lo sguardo e il sorriso malinconico di Willem Dafoe (icona del cinema di Ferrara), uomo al limite di un esaurimento nervoso, pronto a esplodere ma anche in grado di contenersi. Come Abel Ferrara. Go Go Tales allora è forse il film più biografico del regista, forse il terzo, forse il quarto più vicino al suo vissuto. Se in The Driller Killer, pellicola con la quale Ferrara aveva esordito, egli stesso interpretava un artista disperato e frustrato che finiva con l’uccidere barboni a colpi di trapano, se con Il cattivo tenente aveva messo in scena le ripetitive perversioni del potere, uccidendole poi in una stazione degli autobus, se con Blackout aveva ancora una volta raccontato il vuoto tanto creativo quanto di coscienza di un artista, con Go Go Tales si avvicina ancora di più a se stesso, raccontando (forse è questo il vero climax del film) l’affettuoso gesto di un direttore d’orchestra (Ray Ruby) che domanda scusa al proprio gruppo, perché non è riuscito a rendere famoso alcuno di loro, perché ha giocato con le loro esistenze, i loro problemi quotidiani, e perché tutto sommato è ancora disposto a giocarsi la sua vita e quella degli altri. In questo monologo (le inquadrature e i piani sono sempre meno frequenti nel cinema di Ferrara, tanto che una sequenza come quella di Willem Dafoe sul lettino e l’immagine della ballerina viene “lynchianamente” ripetuta) c’è il rapporto di Abel Ferrara con la sua troupe, con i suoi attori, con il suo cinema sempre personale, con il suo pubblico: c’è un’ammissione di colpa, ma anche un senso di responsabilità paterna che abbraccia tutti e che, alla fine, strappa un sorriso almeno per sincerità (il quadretto finale, tutti attorno all’assegno da 18 milioni di dollari). Abel Ferrara è maturato, forse. E deve chiedere scusa a qualcuno.

Niente cocaina allora, niente crack, nessun pregiudizio razziale o violenza o sesso violento, ma un ridicolo pianista (Matthew Modine, altra icona di Abel) e un cane che fa la lap dance, un’anziana proprietaria che seduta al bancone sbraita, commenta e alleggerisce ogni inquadratura, un barone (Bob Hoskins) che cerca di difendere uno stile perduto, una qualità sempre alta, un mercato che cambia, e un folto gruppo di donne che si esibisce per denaro, ma anche per affetto. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Ferrara, esalta il vuoto, si regge sulla sospensione di un risultato che tarda ad arrivare, e si snoda su plot point poco originali, forse davvero banali (la perdita del biglietto vincente, l’italiano Scamarcio geloso della moglie ballerina), forse anche irritanti, ma che si perdono nel monologo finale di Ruby, e che in questa ammissione di colpa ottengono una loro giustificazione. Il pubblico che ha sempre seguito Abel Ferrara può riconoscere in questo lavoro forse un nuovo percorso: Ferrara, infatti, ha spesso rappresentato sul grande schermo microcosmi nel loro momento di implosione (The Funeral, Il nostro natale, Blackout …) o percorsi mistici (Il cattivo tenente, Mary …), e anche questa volta parte da un microcosmo molto famigliare, la grande baracca del Paradise, anch’essa al limite del collasso. Ciò che però differisce dalle sue interpretazioni precedenti è quel senso di vittoria (malinconica nei segni di Dafoe), di completezza, che risolve questa commedia zoppa, claudicante. Il suo lieto fine sembra un barlume di speranza nel mondo visionario e disperato del regista. In questo senso, davvero una novità.

Se si vuole cercare invece un filo conduttore tra questa pellicola e quelle precedenti bisogna andare a trovarlo nella “corruzione”, quel verme che ognuno è in grado di crescere e far maturare dentro sé, e che si presenta con tutta la sua potenza nel momento del successo, quando l’ego è all’apice. Tutti i film di Abel Ferrara, e i loro protagonisti, portano con sé un proprio verme, che cresce in prossimità del successo (climax) ed esplode prima della catastrofe. In questo film il gioco è l’elemento che corrompe il protagonista (e il regista), il rischio di mandare tutti gambe all’aria pur di preservare ad ognuno il miglior posto sulla faccia della terra: il paradiso. La fotografia finale allora, tutti stretti attorno ad un assegno milionario nelle mani di Ray, diventa anche la fotografia dell’America del nuovo millennio. Un triste e disperato successo, senza capacità imprenditoriali vere, al limite del collasso. La vita concreta, con tutti i suoi problemi (la ragazza che rimane incinta, l’affitto da pagare, un mercato in evoluzione) sono coperti da un enorme assegno vinto alla lotteria. Un sorriso malinconico difende una presa di coscienza triste.

TITOLO ORIGINALE: Go Go Tales; REGIA: Abel Ferrara; SCENEGGIATURA: Abel Ferrara; FOTOGRAFIA: Fabio Cianchetti; MONTAGGIO: Fabio Nunziata; MUSICA: Francis Kuipers; PRODUZIONE: Usa/Italia; ANNO: 2007; DURATA: 96 min.

 


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