Berlinale 2013 PDF 
Elisa Cuter   

“C'è crisi dappertutto” recitava una canzone di ormai qualche anno fa del cantautore italiano Bugo. E c'era aria di crisi anche in questa 63esima edizione della Berlinale. Con questo non ci riferiamo al fatto, pur vero, che il programma, sia del concorso che delle altre sezioni del festival, scarseggiasse di grandi capolavori. Ma piuttosto al fatto che il tema della crisi è stato abbracciato consapevolmente da quella che, senza dubbio, è da sempre la kermesse cinematografica più attenta ai temi (socio-politici) delle opere che sceglie ogni anno di rappresentare. Nulla di nuovo all'orizzonte, il festival di Berlino si è sempre mostrato particolarmente attento a mantenere un contatto molto stretto con l'attualità, con il pubblico e i suoi interessi, più che con lo star system o con gli addetti ai lavori (sebbene il mercato collegato alla manifestazione sia in costante crescita). Ma forse mai prima d'ora la dichiarazione programmatica da parte dei direttori era stata tanto smaccatamente politica: “At a time when neoliberal propaganda has the whole world in its grip, its claims of financial crisis and austerity taking in First and Third World and everything in between, it is down to art to take stock of the current situation and set out its positions”, recita il comunicato di Christoph Terhechte, direttore di “Forum”, paradossalmente - ma non troppo se si pensa alla teoria estetica di Theodor Adorno... -, proprio la sezione più sperimentale, spesso sconfinante nella video arte. E sconfina difatti in questo senso l'unica rilevante presenza italiana (se escludiamo le proiezioni fuori concorso de La migliore offerta di Tornatore e la presentazione del “sequel” di Green Porno, Mammas! di Isabella Rossellini) al festival di quest'anno, dopo la vittoria dei Taviani dello scorso anno, presentata proprio in questa sezione. Si tratta di Materia oscura, documentario di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti sulle conseguenze delle sperimentazioni belliche effettuate per anni al Poligono del Salto di Quirra, base militare tra Cagliari e Nuoro. Essenziale ed inquietante, il documentario lascia parlare le penose immagini di due contadini, padre e figlio, che si prendono cura di un vitello nato deforme a causa delle contaminazioni del terreno, alternandole ad immagini di repertorio delle esplosioni e dei test di armi e missili. Il silenzio che accompagna il film, privo di qualsiasi commento, sembra rispecchiare quello che è ancora calato sulle responsabilità del disastro ambientale.

Un velo, quello dell'omertà e dell'impossibilità di parlare, che tanti film presenti nella manifestazione cercano di sollevare. Ma le speranze che emergono sono poche: la crisi è generalizzata, la causa è persa. Sembra questa, ad esempio, la morale di Promised Land, ultima fatica di Gus Van Sant, commissionatagli da Matt Damon, qui nei panni del protagonista Steve Butler, incaricato di convincere i poveri abitanti di una cittadina statunitense di provincia a dare il loro permesso alle operazioni di fracking (l'estrazione di gas naturali dal terreno che può avere conseguenze disastrose per via delle frequenti infiltrazioni nelle cause acquifere) promosse dalla compagnia per cui lavora. Accusato di essere un film retorico e didascalico, l'opera risente chiaramente dell'influenza di certa letteratura americana (si pensi ad esempio a Franzen, e non a caso il soggetto è di Dave Eggers), che più di altre si è fatta carico di tematiche analoghe, tuttavia secondo chi scrive è il film che meglio di tutti rappresenta la fase storica in cui ci troviamo e la filosofia rintracciabile in filigrana in tanti film presentati dalla rassegna. Più raffinato di quanto non sembri a un primo sguardo, la chiave del film sta nel suo protagonista anti-eroe: Butler non è uno spietato arrivista, né qualcuno capace di eludere la questione morale che soggiace al suo impiego (proprio come il suo antagonista ambientalista, è tutt'altro che mosso da grandi ideali). Butler è solo un uomo profondamente rassegnato a scendere a patti con la realtà, una realtà nella quale, anche se gli abitanti si rifiutano di collaborare, la compagnia non avrà scrupoli a comprare la cittadina intera e a disporne come preferisce. Le filosofie di vita che si scontrano sono entrambe disilluse e disperate, ad ogni scelta corrisponde un prezzo molto alto da pagare. Ma la decisione finale di chiamarsi fuori da parte di Butler ha i connotati della sconfitta peggiore. Il ritiro a curare, letteralmente, il proprio giardino di volteriana memoria, è segno della definitiva resa del singolo, che nulla può, ovviamente, contro il sistema.

Questa risoluzione solo privata dei conflitti, ma soprattutto la visione dicotomica dell'individuo pseudo-eroe che si trova a confrontarsi con un sistema corrotto, è rintracciabile in altre opere presenti in concorso: in Dolgaya Schastlivaya Zhizn - A Long and Happy Life, del regista russo Boris Khlebnikov, il giovane Sascha non se la sente di abbandonare i contadini della cooperativa agraria del villaggio dove abita, nonostante il comune gli abbia offerto del denaro per lasciare i terreni su cui ha messo gli occhi. In poco tempo, per paura e rassegnazione, anche i contadini gli voltano le spalle, lasciandolo da solo a difendere ciò in cui ha scoperto di credere, e le conseguenze saranno tragiche. Sono soli anche Nazif e la sua famiglia rom, protagonisti della storia vera e del film che ne è stato tratto, Epizoda u zivotu beraca zeljeza - An Episode in the Life of an Iron Picker, unico autentico capolavoro che si è visto sugli schermi berlinesi, firmato Danis Tanović. Il racconto di come un aborto spontaneo possa diventare per la madre Senada un incubo potenzialmente fatale per chi come loro è senza soldi e senza assicurazione sanitaria è narrato con uno stile che ricorda i Dardenne. Nessun preziosismo fine a se stesso, nessuna inquadratura superflua, tutto è necessario a narrare il dramma disturbante e necessario del buon selvaggio Nazif Mujíc, vincitore del premio per la migliore interpretazione maschile. Il ritorno del regista premio Oscar nel 2002 è l'unico degno di nota in una rassegna in cui un grande nome come Steven Soderbergh presenta un thriller ben confezionato ma in fondo banale (Side Effects, con Jude Law e Rooney Mara), e Wong Kar Wai (fuori concorso perché anche direttore della giuria) fa un buco nell'acqua con The Grandmaster, che non convince né come melodramma storico né come martial arts movie.

Ma la crisi non è solo politica. È anche esistenziale. Dalla Francia ci arrivano tre ritratti di donne profondamente sole. Bruno Dumont, con Camille Claudel, 1915, prosegue il suo lavoro sul corpo rimettendo in scena nei panni - non azzeccatissimi, nonostante gli sforzi lodevoli - di Juliette Binoche la scultrice amante di Rodin nell'anno che fu costretta a passare in un ospedale psichiatrico. L'impotenza e la claustrofobia del manicomio ricordano quella provata in convento da Suzanne Simonin, protagonista di La religieuse di Guillaume Nicloux, che eleva l'omonimo romanzo di Diderot a parabola sul coraggio di opporsi a quello che sembra un destino segnato senza indugiare troppo sulla morbosità di alcune vicende narrate nell'opera, come l'incontro con la madre superiora lesbica interpretata da una Isabelle Huppert insolitamente comica. E sola è anche la sempre splendida Catherine Deneuve nell'insolito road movie bretone sulla crisi di mezza età Elle s'en va, di Emmanuelle Bercot: una commedia apparentemente leggera e spesso esilarante che con delicatezza affronta il tema della disgregazione familiare e generazionale che caratterizza spesso il nostro quotidiano. Un tema, quello del “non è mai troppo tardi per fare ordine nella propria vita”, presente anche in Gloria del cileno Sebastián Lelio, la cui protagonista, Paulina García, si è aggiudicata il premio per la migliore attrice.

La solitudine e l'alienazione non risparmiano però neanche i giovani, come dimostra Ulrich Seidl nel suo Paradies: Hoffnung. Con l'ironia grottesca che lo contraddistingue, Seidl ambienta il terzo capitolo della sua trilogia nella clinica per preadolescenti sovrappeso in cui la figlia tredicenne di Teresa (protagonista di Paradies: Liebe) è costretta a recarsi mentre la madre è in Kenia. In un tripudio surreale di corpi abbondanti e allineati, si inserisce il tema del rapporto alternativamente tenero e morboso che si instaura tra la ragazzina e il medico della struttura di cui è innamorata. La solitudine in cui è destinata a risolversi anche questa storia, però, è rassicurante: è questo l'unico caso in cui la rinuncia al rapporto umano è, paradossalmente, “speranza”, appunto, e non sconfitta, dato lo squilibrio anagrafico tra i due. Anche Layla Fourie del film omonimo di Pia Marais è, come tutte le precedenti, una donna sola - e oltretutto di colore in un Sud Africa che decisamente non ha ancora superato l'apartheid - che deve confrontarsi con un problema più grande di lei (ha investito un uomo, bianco e benestante). E' lo stesso l'evento scatenante anche nel film vincitore del concorso di quest'anno, questo sì didascalico e fastidiosamente edificante: Pozitia Copilului - Child's Pose del rumeno Călin Peter Netzer: un uomo investe, uccidendolo, un bambino, e la sua madre-padrona fa di tutto per evitargli le conseguenze legali mettendo a nudo un intero sistema di corruzione e una forbice di diseguaglianza sociale all'interno del paese sempre più divaricata.

Ma la crisi, dicevamo, non riguarda solo la situazione politica che si contrappone al soggetto: l'individuo stesso è in crisi, disgregato, alienato, il suo stesso privato è a rischio. La coppia ne è, come spesso accade, l'esempio più evidente: i due protagonisti dei cult generazionali Prima dell'alba e Prima del tramonto di Richard Linklater ricompaiono in Before Midnight. Finalmente si sono ritrovati una volta per tutte e sono ormai una coppia stabile. “Stabile”, nei limiti: il litigio che li vede protagonisti per tutta la seconda parte del film è pesante e profondo, la finale riappacificazione sembra un contentino basato più su una flebile tenerezza e un obbligato romanticismo che su una reale convinzione. Così come l'incontro tra diverse frustrazioni e solitudini di Dark Blood (esperimento di George Suizer di assemblare il footage del film rimasto incompiuto per la morte prematura di River Phoenix) sembra non far esplodere la coppia soltanto per mancanza di alternative migliori. Ma il film che rappresenta meglio questo sentimento diffuso di atomizzazione e smarrimento individuale è Nugu-ui Ttal-do Anin Haewon - Nobody's Daughter Haewoon, di Hong Sangsoo, ormai presenza fissa in tutti i festival di rilievo. In un tipico recupero di tematiche e stilemi che strizzano l'occhio alla nouvelle vague, per la prima volta vediamo il mondo attraverso gli occhi di un personaggio femminile, qualcosa di inconsueto per il regista coreano. Ma la sostanza non cambia: sullo schermo vediamo di nuovo l'abuso di alcol e l'inettitudine di sempre. Permane il dramma dell'incomunicabilità, mostrata con delicatezza e accentuato dagli zoom che sembrano tentare di avvicinarsi ai personaggi ma che al contrario evidenziano lo scarto che permane tra di essi, e tra questi e lo spettatore.

Non è un caso se questo cinema delle piccole cose, dei rapporti personali, chiuso nel privato, sembra essere il solo a funzionare, anche da un punto di vista stilistico: funzionano, e sono in alcuni casi ottimi, quei film che appartengono al filone indie americano, vale a dire ad esempio Prince Avalanche di David Gordon Green, miglior regia, un bromance che si regge tutto sulla recitazione complementare di Emile Hirsch e Paul Rudd, carico di tutta la tenerezza e il cinismo di una certa generazione. La stessa buffa malinconia si respira in Frances Ha di Noah Baumbach, debitore della serie Girls di Lena Dunham, e di Lola Darling di Spike Lee. Meno introflesso - anche nella forma all'apparenza più mainstream - è l'ottimo esordio alla regia di Joseph Gordon-Levitt, che in Don Jon's Addiction fa una parodia molto intelligente dell'ipersessualizzazione tutta esteriore e in realtà complessata (ossessionata - gli uomini - o terrorizzata - le donne - dal porno) di una certa (non-)cultura occidentale, mettendosi nei panni del tamarro che sembra uscito da Jersey Shore, riuscendo anche ad evitare la trappola della chiusa romantica con Julianne Moore, la hippy che gli apre gli occhi sul sesso come incontro con l'altro.

Nella stessa tradizione si inserisce anche l'esperimento esilarante di James Franco e Travis Mathews, making of del tentativo di rigirare il materiale censurato del cult di Friedkin Cruising, un tentativo, forse un po' ammiccante ma comunque interessante e godibile, da parte di Franco (presente in ben tre film al festival di quest'anno) di esplorare i pregiudizi e le possibilità eversive che si accompagnano a un certo modo di vivere l'omosessualità. La tematica omosessuale è stata come sempre abbondantemente rappresentata: se la lotta per l'affermazione e la conquista dei diritti è una costante soprattutto in culture extra-occidentali, come si vede nell'adorabile Born this Way sulla comunità omosessuale in Camerun, la rappresentazione occidentale mostra un universo ormai assimilato e conseguentemente normalizzato, con tutte le conseguenze di sorta: in Concussion, dell'americana Stacie Passon, la protagonista lesbica scopre di avere un tumore. Sarà questa la molla per iniziare a esplorare se stessa e il sesso prostituendosi, ovviamente all'insaputa della compagna e dei figli. E' l'ennesimo scacco, l'ennesima crisi, la dimostrazione che neanche rifugiarsi negli affetti è sufficiente, che il proprio giardino non basta più. Eppure, nessun film sembra seguire il consiglio della canzone citata in apertura: “urlate cazzo, urlate!”. Non c'è traccia di rivoluzioni, di svolte, di possibili cooperazioni per costruire un futuro. Rassegnazione, chiusura e isolamento sembrano l'unica direzione di questo festival ricco di diagnosi quanto privo di proposte di terapia. Forse l'unica speranza è rintracciabile nella retrospettiva, splendida, dedicata all'influenza dell'esperienza della Repubblica di Weimar sul cinema successivo. Nella speranza che anche per noi la crisi diventi foriera, come quegli anni che furono un'anomalia felice nel disastro del secolo breve, di un rinnovamento estetico e politico.

 


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