È devastante l’impatto emotivo di questo film di vecchi muscoli e tenerezza. Incominciamo dalla fine: è l’incontro che Randy “The Ram” Robinson non avrebbe dovuto fare, il suo cuore già lo aveva avvertito. Lui lo sa. La folla lo acclama e quelle urla di delirio sono da sempre la colonna sonora della sua vita, il ring è l’unico palcoscenico che gli sia mai stato concesso. Qui è considerato, osannato, rispettato. L’avversario è tramortito a terra, Ram, stremato, si arrampica sulle corde per il suo colpo finale, quello con cui in passato chiudeva tutti gli incontri, lo stesso che a distanza di vent’anni i suoi fan non dimenticano. L’inquadratura è ferma, dal basso. Ram salta e il campo resta vuoto. Fine dell’incontro, fine del film. Non poteva congedare il suo personaggio in maniera migliore il regista Darren Aronofsky. Dopo averlo seguito incessantemente per tutta la durata del film, finalmente nell’ultima inquadratura lo libera, gli toglie dalle spalle il peso della camera e lo lascia solo nell’ultimo suo volo. Quel campo lasciato vuoto da The Ram è l’esaltazione del suo personaggio, coerente fino all’ultima sua apparizione, un guerriero anche nell’assenza, ad una manciata di secondi dai titoli di coda e dalla sua fine non rappresentata ma supposta.
Con quest’ultima trovata Aronofsky mette la ciliegina su una regia coraggiosa e illuminante. Non rinuncia al suo caratteristico montaggio pur spettacolarizzandolo meno rispetto ai frenetici “Teorema del delirio” e “Requiem for a Dream”. Una tecnica precedentemente esasperata è qui trasformata in finezza: la sua accetta cade per interrompere e incollare insieme lunghi piani sequenza che spingono Randy da dietro, sfacciatamente ripetuti. L’intento è chiaro da subito: raccontare Randy con il ritmo del suo passo, il suo faticoso ansimare, in ogni sua azione. Ciascuna ripresa da dietro si carica di significato perché uguale a quelle che preludono l’entrata in scena di “The Ram” davanti alla folla urlante intorno al ring. E così Aronofsky riesce a far rivivere ad ogni passo percorso da Randy il ricordo per i corridoi che anticipavano i momenti indimenticabili della sua vita. Grazie alla coerenza stilistica di Aronofsky il ricordo diviene nostro, di chi guarda; ciò che vediamo richiama costantemente qualcosa di già noto e Randy non sa che ad ogni passo la sua dignità cresce a dismisura. Mickey Rourke interpreta magistralmente il personaggio della sua vita, un ex lottatore professionista con un corpo relitto che rappresenta ancora la sua fonte di guadagno. La sua umanità viaggia contromano rispetto a quella dei personaggi verso cui è rivolta e gli torna indietro sottoforma di inevitabile sofferenza. La ricerca di normalità è compromessa da un passato profondo e pesante: ogni piccolo tentativo di apertura crea un vuoto d’aria che causa una frana di recriminazioni e incompatibilità. Randy cerca con sincera dolcezza di recuperare il rapporto con la figlia adolescente ma la sua stessa natura lo porta a farla soffrire ancora di più. E Pam, spogliarellista, prigioniera di una vita scappata di mano e diventata fantasma, per seguire un suo codice personale allontana Randy. Non può amarlo, pur desiderandolo.
Su Randy ricade il buio. E quando il sentimento di Pam diviene slancio e coraggio è troppo tardi, Randy è tornato ad essere “The Ram”. La frana è già cascata, e non resta che versare lacrime e rimpianti sopra i detriti che si è portata dietro.
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