Ogni film, per essere considerato di culto, passa attraverso una fase di etichettatura, una sorta di bollatura che precede il suo ingresso in un olimpo stipato di feticci, foderato di sogni, incubi talvolta, dove riceve in dotazione un’aura splendente di intoccabilità. Il livello qualitativo non è un requisito fondamentale per assurgere a tanta grazia, qualsiasi connotazione si possa far assumere al termine qualità, dalla capacità di intrattenimento alla potenza icastica del racconto registico. Il cult movie si insinua tra le pieghe adipose, oltre il sangue e la carne della letteratura cinematografica, e colpisce direttamente, dolorosamente, la nervatura del discorso critico, lasciando a terra la teoria in preda a una crisi convulsiva. In un famoso saggio Umberto Eco cita, a tal proposito, Casablanca di Michael Curtiz, che se paragonato artisticamente - per quello che può significare - a pellicole di registi del calibro di Dreyer o Antonioni mostra tutto il manierismo della messa in scena, la scarsa credibilità e spessore dei caratteri e un intreccio poco plausibile; ciò nonostante Casablanca è considerato un capolavoro cinematografico, di più, è considerato un cult movie. Per raggiungere questo status, continua Eco, il film deve essere oggetto di una venerazione sacrale da parte dei fan, che ne citano le battute a memoria e ne accolgono le sequenze come se fossero le prodezze atletiche di qualche gloria dello sport. Un grado di adorazione simile è possibile solamente se il film si fa carico di rappresentare una memoria collettiva in modo che l’identificazione si possa spingere oltre la mimesi, riportando l’istanza narrativa all’archetipo.
Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro inocula la funzione narrativa al grado zero, la funzione che è propria della fiaba, del racconto di magia, all’interno del realismo nudo e crudo di un dramma di epoca franchista. Banalmente, l’effetto immediato è quello della fuga dalla realtà attraverso incursioni nel fantastico, nel surrealismo estremo, ma, proseguendo la visione, il gioco di rimandi da una cornice narrativa all’altra si fa più fitto, fino alla catarsi, punto finale di incontro tra due binari che per tutto il film viaggiano in parallelo. Dal culto dell’eroe di matrice fascista (il culto della morte senza paura, cha faceva urlare ai franchisti: viva la muerte), si passa senza soluzione di continuità al culto dell’eroe proppiano, dell’eroina per meglio dire, che si coniuga all’ideale cristiano (fondamentale in questo la formazione cattolica del regista) del doloroso trapasso come conditio sine qua non per il raggiungimento di una felicità soprannaturale. La piccola Ofelia segue il percorso più classico, passando dall’acquisizione del dono magico alla trasfigurazione, e giungendo infine all’incoronazione attraverso la punizione dell’antagonista. La sconfitta della becera ossessione repulsiva dei regimi totalitari per la cultura e il libero pensiero si concretizza attraverso la pratica fantastica. Nel frattempo, nel mondo reale, lo spirito partigiano eleva il cittadino, annichilito dal potere del leader, da sineddoche, pars pro toto del popolo in quanto monolitica entità di cui il duce di turno si autoproclama interprete e demiurgo, ad insieme di forze (e opinioni) congiunte nell’esercizio della democrazia.
L’annientamento dell’emotività demagogica, del populismo qualitativo proprio del fascismo, teso alla soddisfazione di una fasulla volontà comune, è frutto della riscoperta dell’importanza del particolare, dello sguardo attonito dinanzi alla maraviglia, verace espressione della multiculturalità. E in questo Guillermo del Toro è vicino alla poetica di Tim Burton, almeno negli episodi più riusciti di una carriera intermittente, e per certi versi di Steven Spielberg. L’incursione nel campo del fantasy e dell’orrore da freakshow, lungi dall’essere posticcia e fine a sa stessa, va oltre il bieco intento commerciale di riservarsi una nicchia tra gli affezionati del genere. Qui la storia nella Storia si presenta ancora una volta come terapia antalgica, antidoto al veleno di un ricordo marchiato a fuoco nella memoria che può essere almeno mitigato, addolcito da uno sguardo amorevolmente altro.
Titolo originale: El laberinto del fauno; Regia: Guillermo del Toro; Sceneggiatura: Guillermo del Toro; Fotografia: Guillermo Navarro; Montaggio: Bernat Vilaplana; Scenografia: Eugenio Caballero; Costumi: Lala Huete; Musiche: Javier Navarrete; Produzione: Estudios Picasso, Tequila Gang, Esperanto Filmoj, Sententia Entertainment, Telecinco; Distribuzione: Videa CDE; Durata: 118 min.; Origine: Spagna/Messico/USA, 2006
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