Non pensarci PDF 
Roberto Castrogiovanni   

ImageGettarsi nel vuoto. Alla scoperta dell’altro, del mondo che ci circonda. Per poi riuscire a conoscere magari anche un po’ chi siamo e da dove veniamo. Di questo parla Non pensarci, fresca sorpresa di Gianni Zanasi che ha rimestato le acque dello stagnante panorama veneziano alle scorse Giornate degli Autori. Nell’incipit del film, a lanciarsi verso una folla non proprio adorante, è un membro della band di Stefano (Valerio Mastandrea, qui nel suo ruolo più maturo, sommesso e crepuscolare), squattrinato musicista un tempo in auge, e adesso in crisi creativa. Il risultato è disastroso: il ragazzo tenta di fare uno stage diving tra lo sparuto gruppo di spettatori, ma casca rovinosamente a terra e rimedia un braccio rotto. Stefano allora prende e va via, fugge da una Roma che non sente più sua, dal gruppo musicale ormai “scordato”, dalla fidanzata che lo ha appena mollato per un altro chitarrista (il “virziniano” Edoardo Gabbriellini, quasi un sigillo di garanzia apposto per certificare il sapor genuino di commedia all’italiana). E torna nella casa di famiglia, immersa nella sonnacchiosa ma sottilmente inquieta provincia riminese.

Più o meno a metà del film è lo stesso Stefano che, esasperato da una lite col fratello Alberto (Giuseppe Battiston, uscito finalmente dalla prigionia del “carattere”), decide di saltare dal balcone del primo piano della villa famigliare. Anche in questo caso l’esito non è dei migliori: a rompersi un arto non è lui, ma il cagnolino meticcio (e un po’ punk) da poco adottato. Si vede che Stefano non è ancora pronto. Appena arrivato si lamenta con i suoi che “nessuno sa niente dell’altro”, che ognuno di loro vive nel proprio microcosmo ovattato, trincerato e protetto da ansiolitici, corsi new age, iperconsumi al centro commerciale e partite di golf. Ma in realtà anche Stefano è rinchiuso nel suo mondo, e la sua vita gira a vuoto come la macchina che fa sgommare nel parcheggio sotto casa (un piccolo passatempo inventato per divertire i nipotini e che gli costerà caro). Lui è il primo a non conoscere la propria famiglia: non sa nulla del fallimento dell’azienda portata avanti da Alberto, e ha sempre creduto, a torto, che la sorella (un’Anita Caprioli lunare e bellissima) fosse lesbica. Ci sarà ancora molta strada da fare, un avvicinamento progressivo che significa soprattutto ritrovare fiducia nell’altro. Un percorso costellato di piccole e grandi rivelazioni, di immersioni alla scoperta di una realtà esterna ampia e reticolata, che si estende all’intera cittadina. Grazie a Stefano, anche lo spettatore impara a familiarizzare con questa costellazione di volti, ciascuno con le proprie magagne e i propri segreti inconfessati, come in ogni racconto di provincia che si rispetti. C’è “Matrix”, vecchio amico d’infanzia precipitato in una crisi depressiva con tendenze suicide. C’è l’esagitato vigilantes interpretato da Dino Abbrescia. C’è Nadine, incantevole squillo per cui Alberto perde la testa (e come dargli torto, visto che ha le grazie di Caterina Murino). E c’è tutto un campionario socio-politico-territoriale, archetipo dell’Italia di oggi: dal direttore di banca che chiude un occhio su fidi e prestiti se si entra a far parte del suo “quartierino”, al giovane politico in carriera, figlio di cotanto padre, che è stato scelto dal partito per la sua bella faccia, ma in realtà “non conta un cazzo”. Gianni Zanasi ce li presenta tutti non come macchiette abbozzate, ma (caso più unico che raro nelle recenti produzioni italiane) come personaggi modellati e verosimili, lavorando di cesello sulla sceneggiatura e azzeccando tutte le facce (perfino quella di Natalino Balasso!). Il regista parte da situazioni e temi canonici (il contrasto tra metropoli e provincia, tra immaturità giovanile e responsabilità del mondo adulto), ma riesce a imprimervi accenti nuovi. Sfugge ai rischi del racconto ombelicale componendo un quadro dalle tinte più umaniste che socio-politiche. Tutto merito di una narrazione che, per una volta, abbandonate prolisse voci over di commento, si affida unicamente alla potenza delle immagini. Con un tocco impressionista che va dal particolare (l’accendino gettato nel fiume e poi raccolto, le bottiglie di amarene sotto spirito che si schiantano al suolo) per restituire con pochi schizzi un ritratto completo.

Alla fine del film Stefano riuscirà a completare questo percorso di (auto)conoscenza, portando a maturazione un processo di certo doloroso e innescato in gran parte perfino contro la sua volontà (“Ma perché improvvisamente tutti devono dire tutto a tutti? Non stavamo più felici quando ci dicevamo le bugie?”, confessa alla madre). Sarà pronto a ritornare di nuovo alla sua vita, quella di musicista bohemien, e a rischiare di gettarsi dal palco. Questa volta il balzo riuscirà? Il film non ce lo mostra, e si tratta forse del miglior pregio di Non pensarci. Non è detto, infatti, che le cose migliorino effettivamente (anche per quanto riguarda il resto delle vicende famigliari). Ma l’importante è lo slancio, non l’esito. Il movimento all’infuori come approccio filosofico all’esistenza.

TITOLO ORIGINALE: Non pensarci; REGIA: Gianni Zanasi; SCENEGGIATURA: Gianni Zanasi, Michele Pellegrini; FOTOGRAFIA: Giulio Pietromarchi; MONTAGGIO: Rita Rognoni; MUSICA: Merci Miss Monroe, Les Fauves, Atomik Dog; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2007; DURATA: 105 min.

 


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