1958-1960 Marco Ferreri: El joven director de cine (1a parte) PDF 
di Lorenzo De Nicola   

Non si può certo nascondere l'emozione derivante dalle ricerche sulla produzione spagnola di Marco Ferreri. Solo chi ha vissuto negli stessi luoghi dove egli lavorò per diversi anni, è in grado di assaporare alcune sfumature e comprendere passaggi che, altrimenti, non possono essere colti.
Ciò che immediatamente balza agli occhi è l'incredibile considerazione di cui il nostro regista gode in Spagna. Lo incontriamo "serenamente" inserito e citato in tutte le pubblicazioni inerenti al cinema di quel periodo, e a lui si fa riferimento quando si deve parlare del cambiamento e dell'evoluzione del cinema nazionale. è un'ammirazione totale e incondizionata che si produsse liberamente e naturalmente in quegli anni, per poi proseguire intatta fino ai giorni nostri.
Un rispetto giustificato dalla grandezza di quelle opere stesse. Sono lavori che preannunciano, in maniera fin troppo esplicita, le tendenze stilistiche e tematiche che troveranno una propria autonomia negli anni futuri, e senza i quali questi ultimi non potrebbero essere assimilati fino in fondo.
Infatti, solo percorrendo le tappe chiave dell'evoluzione del regista milanese - sintetizzate in questa ricerca con la formazione, l'incontro con Rafael Azcona e l'analisi di ciò che da esso viene partorito - si palesa la maestosa portata innovativa e, in parte, iconoclasta di questo personaggio scomodo e aggressivo.
Un Ferreri estremo che spesso ha spaccato a metà la nostra critica (che addirittura inizialmente aveva ignorato il suo lavoro in Spagna!), si è scontrato con la censura repressiva e ha affrontato, senza mai cercare compromessi, un pubblico che difficilmente lo comprendeva.

L'esperienza spagnola fu per Ferreri così fondamentale che sarebbe riduttivo non tentare di liberarla dalle contaminazioni politico-ideologiche che inevitabilmente subì negli anni sessanta e settanta, o dalle speculazioni teoriche stilate alla luce dell'opera completa.
Il ritratto che sorge spontaneamente è quello di un artista in progress alla ricerca di uno stile personale, gradualmente liberato dalla pesante eredità neorealista, che va maturando di opera in opera. Un regista perfettamente compreso - come abbiamo già detto - dalla critica iberica che mette in imbarazzo la nostrana affidandogli una completa fiducia. Un uomo che "scopre" e stabilisce un ineguagliabile rapporto di amicizia e lavoro con quello che sarà uno degli sceneggiatori più influenti del cinema europeo dell'ultimo cinquantennio.
Una figura a tutto tondo la cui genialità si manifesta sin dai primi esperimenti, e che non può far altro che affascinare e conquistare chiunque gli si avvicini per studiarlo.

FERRERI E LA SPAGNA

Quale fu la sua prima impressione, da un punto di vista culturale e sociologico, della Spagna che conobbe alla fine degli anni cinquanta? Arrivò in maniera casuale o scelse questa destinazione in maniera volontaria?
Fu una scelta, non so se volontaria o meno. Una scelta è comunque una scelta. Inoltre non mi ricordo perché proprio la Spagna come meta. Allora non avevo molto tempo per pensare a quello che facevo. Fu comunque importante quel periodo spagnolo perché fino a quel momento non facevo niente e lì iniziai a lavorare. Ogni giorno era un'avventura.

In campo cinematografico esisteva una certa corrispondenza tra intellettuali italiani e quelli spagnoli...
Sì, ma io non ero un intellettuale né italiano, né spagnolo. Non ero un intellettuale, ero un Marco Ferreri.
[...]

Senza dubbio, velocemente conobbe Azcona e Berlanga...
Sì, Azcona sì. Berlanga meno. Azcona lo conobbi quando ancora stava seduto davanti a una finestra e faceva disegni...

Come entró in contatto con Azcona?
Avevo letto "El pisito". Lui non aveva mai fatto niente per il cinema e neanche io avevo mai scritto nulla. Quando arrivai in Spagna era un momento in cui si doveva tirare avanti. Prima ero stato a Parigi e da lì mi spostai a Madrid benché non avessi alcuna intenzione di fare cinema e non so perché finii col farlo. Non avevo mai pensato di essere un regista e, infatti, prima di decidere di girare io stesso, lo chiesi a Berlanga.

Qualche tempo addietro chiesi ad Azcona qual era la differenza nel metodo di lavoro tra scrivere le sceneggiature con Berlanga e Ferreri. Mi rispose che mentre con il primo si lavorava nei caffè, con il secondo si lavorava negli hotel. Credo che il processo debba essere qualcosa di molto più complesso e mi piacerebbe me lo descrivesse dal suo punto di vista.
Lavorammo sempre insieme e apprendemmo parallelamente il mestiere, e si creò così una relazione derivata dal fatto che lui non aveva mai scritto un copione (come me del resto!). Così incominciammo a stendere sceneggiature e, comunque, Azcona funziona como uno stimolante con il quale devo sempre parlare di una maniera in più... Azcona! Con lui ho lavorato per circa quindici, venti anni. è stata una collaborazione meravigliosa fino al momento in cui cambiai il mio modo di concepire le cose in una direzione distinta dalla sua.

Quale relazione mantenne con Pere Portobella come produttore de
El cochecito? Lo dico perché i suoi film come realizzatore non assomigliano assolutamente a quelle di lei...

Esattamente. Mantenni la classica relazione tra direttore e produttore. Lui era un intellettuale che aveva deciso di fare cinema. Prima aveva prodotto Viridiana di Bunuel e non credo, comunque, che a Portabella interessasse fare cinema. Tutto quel periodo spagnolo era molto più complesso. Non era una questione di cinema. Certamente ci furono persone che mi aiutarono però mai mi lasciai coinvolgere con gli intellettuali nel cinama.

è vero che Yerma, un film che diresse per la RAI, fu precedentemente un progetto teatrale appartenente a questo periodo spagnolo?
Non avevo nessun progetto. Di solito vivevo alla giornata. Un giorno pensai di fare El pisito. Nessuno ancora lo aveva fatto e da solo lo portai a termine. Parlai con Isidoro Martinez Ferry, che aveva già lavorato come aiuto-regista, e così ci mettemmo a lavoro.
Yerma me lo propose più tardi, quando ero già tornato in Italia.

Qual è la sua opinione sugli attori e sui tecnici spagnoli?
Gli attori sono molto bravi e anche i tecnici, anche se parlano troppo di libertà, sindacati e tutto questo...

Che ne pensa del cinema di Pedro Almodovar che si è rivelato un vero fenomeno sociologico tanto in Spagna quanto in Italia?
Fa semplicemente la commedia all'italiana. è la commedia alla spagnola.

Però le piace?
Sì. Quando pensiamo che il cinema sia buono sempre ci riferiamo a un fenomeno sociologico. Quando nacque la commedia all'italiana, dopo dissero che si trattava di un fenomeno sociologico.

(Intervista a Marco Ferreri di Esteve Riambau a Roma il 17-05-1990)

LA FORMAZIONE DEL REGISTA

All'età di ventun anni, dopo l'abbandono della Facoltà di Veterinaria, Marco Ferreri si avvicina al mondo dello spettacolo realizzando alcuni spot pubblicitari per il maraschino Luxardo, del quale era anche rappresentante. Ma già dall'inizio degli anni cinquanta lo incontriamo inserito nella corrente politico/artistica che agitava il mondo intellettuale di quel periodo.

Infatti, se da una parte alternava l'attività di produttore con quella di critico, dall'altra militava nella sinistra senza comunque appartenervi completamente. La volontà di Ferreri di non lasciarsi incasellare in nessuna tipologia e, inoltre, di dirigersi verso la provocazione anarchica, è uno dei tratti distintivi più concreti della sua figura.

Per quanto riguarda la sua attività, lo incontriamo impegnato a seguire la concezione di Cesare Zavattini, scatenato esponente del Neorealismo Italiano. Soprattutto negli anni cinquanta - quando Rossellini si allontana dalle pratiche formali del movimento nato dopo la Seconda Guerra Mondiale, per aprirsi al cinema europeo - Zavattini accresce la propria importanza diventando uno degli ultimi portavoce della delicata battaglia tra cinema e realtà, teoria e pratica, verità e finzione.
Durante la sua ricerca infinita di una realtà sempre più vicina, incontra Marco Ferreri che nel 1950, insieme con Riccardo Ghione, presenta la rivista cinematografica chiamata Documento Mensile. Quest'ultima avrebbe dovuto essere un notiziario cinematografico alternativo al più famoso di quel periodo: La settimana Incom. Inoltre bisogna menzionare i collaboratori che vi parteciparono come Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Carlo Lizzani, Alberto Moravia e Renato Guttuso. Nomi famosi che, uniti chiaramente a quello immancabile di Zavattini, si proponevano - attraverso un semplice notiziario di mezz'ora - di riscrivere la realtà con l'occhio dell'obiettivo. Di quest'esperimento si realizzarono solo tre notiziari ed il progetto venne successivamente abbandonato per motivi finanziari.

Nello stesso anno Ferreri organizza, con l'aiuto di Luigi Malerba e Antonio Rocchi, una convention sul neorealismo, con la chiara volontà di intendere fino a che punto si fosse sviluppata questa corrente e in quale direzione, di conseguenza, si dovesse agire.
Parallelamente prosegue la sua attività di produttore in pellicole come Il cappotto (1952) di Alberto Lattuada e Amore in città (1953) di Risi, Fellini, Antonioni, Lattuada e Lizzani. Quest'ultimo era il risultato di un ennesimo "tentativo" zavattiniano che prendeva il nome de Lo spettatore.
Il progetto consisteva nella "pubblicazione" di una rivista cinematografica semestrale diretta dallo stesso Zavattini, affiancato da Ghione e Ferreri, e che vantava come collaboratori gli setssi elementi del già citato Documento Mensile, con l'aggiunta di Federico Fellini e Franco Maselli. Gli sceneggiatori erano Luigi Chiarini, Luigi Malerba, Tullio Pinelli e Aldo Buzzi.
Amore in città fu uno degli esperimenti più riusciti di Zavattini: realtà e finzione sembrano mescolarsi in maniera lineare e limpida, tanto da poter considerare il film come il precursore del cine-veritá degli anni '60. L'insuccesso economico che ottenne la pellicola può trovare le motivazioni nella sua caratteristica di avanguardia, non compresa dall'Italia di allora. Non ci fu un seguito.

Nel 1954 lo incontriamo nuovamente nelle vesti di produttore esecutivo de La spiaggia (1954) di Lattuada (ennesima pellicola a episodi, modalità produttiva che avrà molta fortuna nei '60 e '70), dove interpreta anche un piccolo ruolo che scrisse lui stesso. Non é la prima volta che il regista milanese appare nei film come attore (per esempio Gli italiani si voltano, sempre di Lattuada), né tantomeno sarà l'ultima, come nel caso de Il seme dell'uomo (1969) dove interpreterà simbolicamente un uomo morto. E ancora nei panni dell'attore lo troviamo in Donne e soldati (1955) di Malerba e Marchi, del quale scrisse anche la sceneggiatura seguendone la realizzazione.
La sua attivitá di produttore esecutivo sará uno dei motivi che condurranno Ferreri in Spagna. Infatti arriva a Madrid nel 1956 in questi panni per la pellicola Fiesta Brava di Vittorio Cottafavi, e qui si fermerà, salvo alcune interruzioni, fino al 1963. E proprio in Spagna girò le sue tre prime opere: El pisito (1958), Los chicos (1959) e El cochecito (1960).

A questo punto risulta scontato domandarsi quale influenza esercitò su di lui il lungo periodo di apprendistato, totalmente "imbevuto" nell'atmosfera agitata e confusa della tappa più avanzata del neorealismo e, conseguentemente, sulla sua opera spagnola.
Grazie al suo spirito prettamente anarchizzante, alla continua ricerca di una libertà personale, non si avvicinò mai più di tanto alle tematiche e alle tecniche del Neorealismo. La realtà gli servì soprattutto come materiale da plasmare in funzione delle sue tematiche, del suo pensiero, dei suoi attacchi... è una realtà che se nelle opere spagnole è ancora presente, nelle successive perderà gradualmente importanza tanto che, sempre più spesso, verrà meno la contestualizzazione spaziale in cui si muovono i personaggi delle sue storie. É una realtà totalmente spogliata, messa a nudo, vivisezionata tanto da diventare metafisica.
In questo modo Ferreri prende le distanze da quella corrente che lo vide crescere (paradossalmente spingendone agli estremi i suoi fondamenti teorici), mantenendo di questa soltanto un'incredibile semplicità di ripresa. Una caratteristica che mai lo abbandonerà e che connota in maniera evidente le sue opere. Una semplicità che lentamente si confonde con una "primitività" sempre più provocatoria, soprattutto se comparata con lo sviluppo strepitoso delle due ultime decadi della produzione cinematografica.
Pertanto risulta palese il desiderio di condurre e focalizzare l'attenzione dello spettatore soprattutto sul contenuto, sui dialoghi simbolici, sulle stravaganti e grottesche situazioni, sui suoi personaggi (di cui probabilmente il marito-mostro del sopracitato La spiaggia era una eloquente anticipazione); è altrettanto palese quale sia l'appendice più evidente che lo lega alla sua formazione. A questo proposito risultano incredibilmente illuminanti le parole del regista milanese stesso in una intervista, riguardante El cochecito, concessa a Maurizio Ponzi e pubblicata in Filmcritica nel 1961: "Non voglio fare da cronista; Sadoul e gli altri si equivocano quando parlano di neorealismo, Il neorealismo è l'inganno dei miei film. L'aspetto è neorealista, però non la sostanza!''

L'INCONTRO CON RAFAEL AZCONA

Alla fine del 1955 Marco Ferreri, quasi senza denaro, arriva a Madrid e prende una stanza all'hotel Menphis. Da subito cerca di entrare in contatto con i personaggi rilevanti dell'industria cinematografica spagnola, con lo scopo di aprire il mercato alle lenti totalscope delle quali era rappresentante: è questo l'inizio di un cammino che lo porterà a conoscere gli addetti ai lavori del mondo del cinema e a creare molte amicizie. Tra queste bisogna menzionare quella con Miguel Angel Proharan che fu suo socio nella fondazione di una piccola casa di produzione: la Albatros Films. Attraverso questa produce, dopo poco tempo, il film Quince bajo la lona (1956) di Augustin Navarro.

Il primo contatto tra lo scrittore spagnolo e il regista milanese avvenne attraverso la lettura di un libro, da parte di quest'ultimo, che lo entusiasmò particolarmente. Si trattava de Los muertos no se tocan, nene, pubblicato nella collana El club de la sonrisa e scritto da un umorista poco conosciuto che lavorava nella rivista La Codorniz. Quell'umorista era proprio Rafael Azcona.
Ferreri lo contatta prontamente e gli dà un appuntamento al caffè del Correos. Qui, mentre "mangiavano tutte le sardine alla piastra del bar", propone al giovane scrittore - che non aveva mai lavorato nel mondo del cinema e, tantomeno, conosceva il cinema stesso [ "Non mi piace esagerare, però credo che fino a quel momento avessi visto solo tre film: El signo de la cruz (Cecil DeMille, 1932), al quale mi portò mia madre approfittando della mia indifesa infantile; Ora ponciano! (Gabriel Soria, 1936), che accese in me e in mio padre la passione per i tori; e Casablanca (Michael Curtiz, 1942) nella cui proiezione finì una domenica seguendo la ragazza che amavo segretamente." (AA.VV., Antes del apocalipsis, El cinema de Marco Ferreri, Càtedra, Madrid, 1990, pag.33)] - di stendere a quattro mani una sceneggiatura dal suo libro.
Così incominciano a scrivere insieme il copione per quel film che non si realizzerà mai sia a causa della censura, sia perché Berlanga - al quale venne offerta la direzione dell'opera - stava già girando un'altra pellicola, Los jueves, milagro (1957), e poco si fidava dello strambo duo in quel periodo ancora praticamente sconosciuto.

Dopo questo insuccesso Ferreri non si scoraggia e cerca di realizzare, un'altra volta senza esito, Un rincòn para querernos. La sinossi era abbastanza semplice. Una giovane coppia in viaggio di nozze, non trovando nessuna pensione durante la festa del Pilar di Saragoza, viene spiata, infastidita e addirittura multata ogni volta che cerca di soddisfare il loro desiderio di sposi novelli. Anche questo nuovo tentativo non viene apprezzato dalla censura e, nonostante il temerario sopralluogo con un paio di cineprese per girare qualche inquadratura, tutto rimase inconcluso. Solo qualche anno più tardi, nel 1965, venne comprato dal regista-produttore Ignacio Iquino, che utilizzò l'argomento per realizzare l'omonimo film (l'azione venne comunque spostata a Pamplona, durante la festa di S. Firmino, evitando così di implicare la Santa patrona in avventure tanto immorali e strampalate).

In seguito a questo secondo fiasco, Ferreri e Azcona si separano per un lungo periodo.
Ma il regista milanese torna alla carica dopo pochi mesi con un altro sensazionale progetto: un documentario alle Canarie. A questo proposito è sempre suggestiva la testimonianza di Azcona: "Un giorno mi telefonò [...] per convocarmi alle sette di mattina del giorno successivo al Castellana Hilton: dovevamo firmare un contratto per un documentario alle Canarie, e l'aereo partiva alle otto. Cercai di difendermi dicendo che non avevo mai volato e che l'aereo mi spaventava, e dato che andavo a letto molto tardi e non avevo la sveglia, era impossibile che fossi in qualsiasi posto che non fosse il mio letto. Marco liquidò immediatamente la questione:
- Non fare il provinciano... Prende la tua valigia y ven a dormire al Castellana!
Quando [...] arrivai alla suite dell'albergo il salone, le camere e il bagno erano occupate da allegre signorine invitate a cena, e da un sacerdote che benedisse la tavola, benedisse le signorine e, già che si era messo a benedire, benedisse anche me!" (AA.VV., Antes del apocalipsis, El cinema de Marco Ferreri, Càtedra, Madrid, 1990, pag. 35).
Questo avrebbe dovuto essere prodotto da un italiano che aveva costruito degli studi proprio in quelle isole. Però, nuovamente, l'avventura si conclude in poche settimane per il fallimento del produttore stesso. Così, mentre Ferreri era impegnato a smontare e rivendere i mobili e i sanitari degli studi, lo scrittore ritornava a Madrid (questa volta in nave) ormai completamente disilluso e senza speranza.

La perseveranza di Ferreri venne infine premiata.
Infatti, utilizzando un fatto di cronaca realmente accaduto a Barcellona come base per il suo romanzo, lo scrittore pubblicò El pisito. Il futuro regista suggerisce prontamente di trasformare il libro in un copione.
Azcona aveva abbandonato La Codorniz e la sua condizione economica non era certo delle più rosee cosicché accettò, non senza dubbi, la proposta del suo compagno di sventure. Comunque, questa volta, lo convinse ad abbandonare le sue velleità di produttore e a concentrarsi da un lato sulla ricerca del denaro necessario, dall'altro di incaricarsi personalmente della regia.
In qualche mese i due terminano il lavoro di stesura e iniziano a cercare il denaro per la produzione dello stesso. E lo trovano attraverso la Documento Films.

Così El pisito fu l'inizio di una collaborazione evidentemente fertile e duratura che, muovendo i primi passi in Spagna, avrebbe dovuto continuare in Italia e in Francia. Su trentuno lavori realizzati dal nostro regista, tra lungometraggi e cortometraggi per film a episodi, ben diciassette (più della metà!) vantano la collaborazione dello scrittore spagnolo (per precisione cronologica fino al 1987, con il film Come sono buoni i bianchi!).
Inoltre risulta curioso il constatare che, quando Ferreri cerca di cambiare il tipo di cinema in un'evoluzione personale che lo porta sempre più chiaramente verso l'astrazione, fa a meno della collaborazione dello scrittore castigliano come per Dillinger è morto (1969), Il seme dell'uomo (1969), L'udienza (1971) e La cagna (1972). Una scelta dovuta all'eccessivo gusto per il dettaglio, così palese in Azcona, in contrasto con il carattere di parabola che il regista italiano pretendeva dare ai suoi film. L'esempio più significativo è sicuramente L'udienza basato su un'idea di Ferreri e Azcona, mentre la sceneggiatura è firmata insieme a Dante Matelli.
Inoltre, Ferreri spostò la sua attenzione sulla problematica del rapporto uomo donna come conflitto di potere. Il regista intendeva allontanarsi dalla tematica bergmaniana del conflitto tra sessi opposti che proponeva, seguendo la falsariga di Strindberg, una inconscia guerra dovuta ad una personale mancanza di comunicazione imposta dalla diversa sessualità stessa (Scene da un matrimonio). Ferreri, al contrario, propone, indubbiamente sulla scia dei movimenti femministi degli anni settanta, una decadenza inarrestabile della figura dell'uomo a vantaggio di quella femminile. A questo proposito sono emblematiche sia l'auto-evirazione presente nel finale de L'ultima donna (1976), sia alcune sequenze di Ciao maschio! (1972), come quando Gerard spruzza scherzosamente con una bottiglia la protagonista, che prontamente se ne impossessa per spaccargliela in testa. La donna non accetta più né la sua schiavitù sessuale nei confronti dell'uomo, né il suo ruolo ancestrale di madre.
Quella del milanese era una scelta che privilegiava i personaggi femminili, cosa che (come ha sempre egli stesso onestamente affermato) non erano il pezzo forte dello scrittore castigliano.
Malgrado questo, l'amicizia tra i due si protrasse fino alla morte del regista milanese. Un binomio fecondo che non può non richiamare alla mente quello altrettanto illuminante tra Federico Fellini e Ennio Flaiano (quest'ultimo incrociò anche l'opera di Ferreri fornendo l'argomento per La cagna), dalla quale nacquero altre pagine della storia del cinema ugualmente felici e inspirate.

E ancora non si può omettere quanto Azcona debba all'indemoniato regista italiano. Quell'incontro improvviso e fortuito segnò una radicale svolta nella sua carriera e, sicuramente, anche nella sua vita. Viaggiando frequentemente tra l'Italia e la Spagna, Azcona firmerà sceneggiature con le quali vincerà anche dei premi. Ferreri, Berlanga, Lattuada, Saura, Forquè, Gomez, Sanchez sono solo alcuni dei registi più importanti con i quali lavorò, aumentando sempre di più il suo prestigio e la sua fama di sceneggiatore.
Ora Rafael Azcona ha settantasei anni e ancora non ha smesso di scrivere.

clicca qui per leggere la 2a parte di 1958-1960 Marco Ferreri: El joven director de cine

 


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