Baz Luhrmann: il cinema che non crede ai propri occhi PDF 
Aldo Spiniello   

A life lived in fear is a life half lived. Una vita vissuta nella paura è una vita vissuta a metà. Questo insegna la bruttina e timida Fran all’affascinante e talentuoso Scott in Strictly Ballroom (Ballroom – Gara di ballo, 1992). E così  è scritto nel simbolo della Bazmark Inq, la casa di produzione fondata da Mark Anthony, in arte Baz Luhrmann, il regista australiano capace in soli quattro film di assurgere al rango di fenomeno e di ridisegnare i confini dell’immaginario. Una sorta di epigrafe posta a guida, una frase che racchiude un universo "poetico", reclamando la necessità di un’adesione totale alle proprie vocazioni e di un’espressione compiuta delle passioni, nonostante gli ostacoli di un mondo anaffettivo e ostile. Luhrmann racconta sempre la stessa storia, in fondo: Giulietta e Romeo costretti a difendere la verità del loro amore contro la brutalità e il caos che li circonda. Ci troviamo di fronte a un regista adolescenziale. Non perché si rivolga a un pubblico di ragazzi. Ma perché, piuttosto, sembra guardar sempre a uno stato adolescenziale, a quell’epifania della passione che si insinua nei cuori e a cui non si sa dare una forma definita, un controllo, un senso. A stento gli si può dare un nome: amore.

Quello di Luhrmann è un cinema della linea d’ombra, di un passaggio, in cui dall’inesprimibile si arriva alla consapevolezza e da lì alla necessaria assunzione di responsabilità. Dall’inconsapevolezza alla maturazione. Come Gus Van Sant vede nei suoi adolescenti lo specchio magnifico e terribile di un’implosione sociale e collettiva, Luhrmann coglie i suoi protagonisti sulla soglia di un’esplosione individuale, che è la promessa di una rivoluzione (im)possibile. E non c’è differenza se si narra di adulti, come in Moulin Rouge! e Australia. Ciò che importa è quell’energia che tenta di abbattere le resistenze della realtà. Ciò su cui val la pena concentrarsi è quel trasalimento minimo, l’affiorare di un brivido che scuote il corpo, il soffio del cuore, la paura a stento trattenuta. Nonostante la sovraesposizione dello stile, il cinema di Luhrmann vive di sospensioni, di momenti che cercano di catturare con gli occhi l’invisibile per raggiungere la percezione dell’ineffabile. Il primo incontro tra Romeo e Giulietta, che si guardano e si scoprono attraverso la magia di un acquario, il primo bacio tra Lady Ashley e Drover, in quel gioco eterno di paura e desiderio. Affiora in superficie, a mostrarsi, l’anima segreta. Il cinema diviene l’arte delle superfici, come in Michael Mann: la fede in un occhio che, guardando la semplice forma delle cose, la loro pelle, arriva a scoprirne la sostanza. Nei film di Luhrmann l’immagine cresce e si espande, verso l’interno (la proliferazione dell’elemento profilmico, il decorativismo impazzito di Romeo + Juliet e Moulin Rouge!) e verso l’esterno (Australia), per poi ritrarsi, ogni volta, in dieci, cento contrazioni, come se si trattasse di un piccolo cuore che batte al ritmo dei sentimenti.

Ma se ci si concentra un istante sulle strutture narrative, allora ogni storia è un viaggio in cui gli eroi sono costretti a lasciare il proprio mondo ordinario e ad affrontare ostacoli per raggiungere gli obiettivi. La fabula risponde alle sue regole. E Luhrmann non fa eccezioni. Anzi, in ogni suo film accentua la dimensione "favolistica" (il brutto anatroccolo di Ballroom, Il mago di Oz in Australia), o denuncia l’adesione a una tradizione letteraria (Giulietta e Romeo). Si muove, con evidenza assoluta, sul piano dell’immaginario, gira le spalle alla realtà per guardare al suo riflesso. Il suo è un cinema di "secondo grado", che rende palesi gli influssi, grida a gran voce la propria genesi teatrale (i sipari che si aprono e chiudono, l’idea della messa in scena come allestimento del set), la fascinazione irresistibile del musical. Il postmoderno insomma. Una tensione inesauribile, che però non è mai guidata da una volontà critica, quanto dall’illusione naïf di creare un nuovo mondo che risponda alle sole regole dello spettacolo, un universo parallelo e alieno. È il cinema del fantastico che rifà la vita a immagine e somiglianza della (propria) favola. Luhrmann abbraccia l’arte dell’irreale senza paura, secondo il suo motto. Sfidando il kitsch e il ridicolo, a tratti. Spingendo la situazione tipica sino al limite in cui l’incredulità prende il sopravvento. Sottraendo il montaggio alle regole dell’invisibilità. Riorganizzando gli spazi (e fondamentale, in tale senso, è l’apporto delle scenografie della fidata Catherine Martin) per contraddire la percezione reale (Verona diventa una sorta di città di frontiera percorsa dagli slang di periferia, Mantova una terra di nessuno, un deserto abitato da nomadi) in nome dell’immaginario (la Parigi bohemien, il can can e Toulouse-Lautrec). Che si tratti di impressionismo o espressionismo, poco importa. Ciò che conta è la sfida al reale e all’orizzonte dello sguardo. Voglio che voi non crediate ai vostri occhi, sembra dirci Luhrmann. Il cinema è abbandonarsi alla meraviglia. Fino al punto di rottura. Perché se la ricerca della meraviglia porta il cinema non già a rifare il mondo (come Cimino), ma un altro mondo "ideale", arriva l’attimo in cui si percepisce che la realtà contiene in sé tutto il fantastico mistero possibile.

Ed è di fronte alla terribile e arcana bellezza dell’Australia che lo sguardo di Luhrmann sfiora il lato oscuro della Natura. Prova ancora una volta a inseguire l’immaginario per rifare il cinema, percorrendo sentieri che viaggiano lungo le coordinate del classico, guardando al western di Hawks e Ford, a Victor Fleming (il furore kolossal di Via col vento, Somewhere over the rainbow e Judy Garland) al war movie. Ma sembra fermarsi senza fiato di fronte all’irriducibile vastità dell’outback, ultima frontiera non ancora colonizzata dal nostro occhio di spettatori. Senza parole resta ad ascoltare il canto notturno e sciamanico dei nativi, quella voce che sembra partire dalle viscere della terra e che risuona al ritmo segreto della genesi. Il cinema, inseguendo la meraviglia, si ferma per la prima volta a guardare il mondo. Prova a carpirne il senso, puntando lo sguardo verso l’orizzonte, soffermandosi su un controluce. Invano forse. Ora è il cinema a non credere ai propri occhi.

 


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