Alla ricerca dell'utopia: il cinema di Laurent Cantet PDF 
Aldo Spiniello   

E allora? Che farai adesso?
Prendo il treno domani…torno a Parigi.
Fai bene, hai di meglio da fare…Non puoi ammuffire qui. Il tuo posto non è in questo buco.
E tu quand’è che parti? Dov’è il tuo posto?
(da Risorse umane)

In Risorse umane si affronta il tema della riduzione della settimana lavorativa a trentacinque ore. Con L’emploi du temps già nel titolo si parla di “impiego del tempo” e orario di lavoro. Cantet sembra ossessionato dal tempo, ed è la conseguenza di una riflessione sistematica su come le dinamiche lavorative della contemporaneità si riflettano sulla sfera privata dell’individuo. Il tempo del lavoro (lavoro salariato, subordinato, spiega lo stesso Cantet) è un tempo strutturato, imposto da esigenze produttive che si disinteressano dei desideri e dei bisogni del singolo. È uno schema astratto che ha però riflessi terribilmente concreti, traducendosi in un limite alla libera espressione delle persone, che si ritrovano “costrette” in un’organizzazione che non hanno voluto. Non si tratta di una requisitoria, di un’invettiva contro i drammi della modernità: il cinema di Cantet non è mai di denuncia. Il suo punto di vista sembra sempre privilegiare un’osservazione sistemica, che non è mai fredda, ma, a mano a mano che avanza, lascia intravedere lacerazioni profonde ed esplodere contraddizioni. L’alienazione, intesa come esproprio del tempo, è un dato acquisito da cui partire. Il problema (suo, nostro) semmai è un altro: come scoprire e difendere, all’interno di una struttura imposta, lo spazio della propria libertà e autonomia. È questo il posto di cui parla Franck nel finale di Risorse umane. La macchina da presa gli si avvicina, nascondendo alla vista Alain, il giovane operaio con cui sta parlando. Ciò che è ancora in campo è già fuoricampo, oltre il nostro sguardo e ormai al di fuori dal reale orizzonte di senso dell’immagine. La domanda di Franck non è rivolta più a chi gli sta accanto. È rivolta a se stesso e a noi. È l’interrogativo fondamentale a cui siamo chiamati a dare una risposta concreta. Ed ecco che in A tempo pieno Vincent si mette all’affannosa ricerca di una soluzione. Vincent è l’uomo che reinventa la propria vita, scrive e mette in scena la sua “sceneggiatura” per riaffermare il proprio irrinunciabile diritto di individuo libero. Il tentativo, però, si rivela vano. Perché una sceneggiatura è pur sempre un’altra struttura, una griglia concettuale che ambisce a esaurire l’intero spettro di significati, destinati a essere espressi in altra forma. La vita concreta fatica ad adeguarsi a significati già scritti altrove. Vincent, per sfuggire al peso della gabbia che l’opprime, si crea un’altra trappola ancor più asfissiante, perché solitaria ed esclusiva, non condivisa e non condivisibile dagli altri. Ogni sua mossa avanza in direzione di uno scollamento che porta ai limiti della schizofrenia e della follia. A tempo pieno è davvero un potenziale noir, in cui è continuamente suggerito, sfiorato, quest’irrompere dell’irrazionale (nel) quotidiano. A ogni minuto che passa si avverte sempre più il rischio che gli eventi precipitino irreparabilmente e che il desiderio di libertà naufraghi, per ritrovarsi davanti all’abisso della caduta.

Se reinventarsi una nuova vita al posto di quella ordinaria si rivela un fallimento, allora forse la soluzione è cercare un’altra vita al di fuori del quotidiano. Verso il sud introduce sin dal titolo, con quel “verso”, un’idea di viaggio, di fuga. Non si tratta di quel turismo sessuale che fa scalpore. Cantet non parla mai di un mondo a una direzione, in cui, da un lato, stanno i ricchi sfruttatori e, dall’altro, i poveri sfruttati. "I meriti non c’entrano in queste storie", diceva William Munny. Le signore benestanti vedono nelle spiagge assolate di Haiti una via di uscita alla loro frustrazione, alla vecchiaia incombente, rivendicano il diritto alla piena e libera espressione del desiderio, vivendo il rapporto con un corpo giovane come l’illusorio rimedio alla solitudine. Dal canto loro, i giovani haitiani cercano un benessere economico che li tiri fuori dalla precarietà di un situazione politica ed economica che devasta le loro vite. È uno scambio reciproco, uno spettro di felicità che pare materializzarsi in una spiaggia meravigliosa, al riparo dagli sguardi del mondo. Il luogo utopico dell’amore. Ma l’utopia, si sa, è un luogo inesistente. Tutti i personaggi di Cantet la inseguono invano. "Tutti i miei personaggi sono, a loro modo, degli idealisti", alla ricerca di quel posto in cui ritrovare ed esprimere la propria autenticità. Quel posto che non può essere la spiaggia. Perché, svanita l’illusione, si riproduce l’insanabile frattura tra due mondi assolutamente non comunicanti. Legba non può avere la protezione che le promette Ellen, perché è condannato dalle leggi della sua società, quella società da cui la stessa Ellen è tagliata irrimediabilmente fuori. Perché “i turisti non muoiono mai”, appartengono a un aldilà che risponde ad  altre regole. Nel finale, Brenda viaggia in direzione di altri paradisi, ormai completamente immersa nel suo sogno. Il suo volto è in primo piano, occupa metà dello schermo: il mare alle sue spalle si restringe, è costretto tra il suo viso e i limiti del quadro. Dov’è la libertà? Se non è più possibile trovarla nella vastità del mare aperto, allora tanto vale tornare a combattere la propria battaglia in uno spazio limitato, Entre les murs.

“Circoscrivere per guardare meglio”, afferma Cantet. Nel chiuso di una scuola, di una classe, professori e allievi provano nuovamente a dar vita all’utopia, a costruire il luogo in cui si possano davvero rimettere in gioco libertà di espressione, desideri, emozioni. Per qualche istante l’incanto riesce, ma alla fine i caduti sul campo sono troppi. C’è chi non ha imparato nulla, chi è stato mandato via, chi non ha detto una parola per tutto l’anno. Il professore ha invitato alla spontaneità, si è messo alla pari dei suoi allievi, ma non è riuscito a gestire la situazione. Altro che L’attimo fuggente. Sbaglia chi vede ne La classe solo un film sulla dialettica insegnante/allievo, sulle difficoltà dei rapporti tra generazioni, sulla tormentata e sempre più intricata trasmissione del sapere, sull’integrazione razziale. C’è molto di più. Ogni scena, ogni immagine sembra una bomba che apre un varco verso un’ulteriore direzione di senso. Ritorna, così, l’idea del riscrivere e recitare la propria vita. La meravigliosa scena in cui François vuole costringere Khoumba a far atto di pentimento, altro non è che un estenuante prova teatrale. Nel film ognuno rivendica la propria individualità e autonomia, ritagliandosi un ruolo e sforzandosi d’interpretarlo: c’è il duro, il simpatico, il dark, la bella, la chiacchierona, la polemica, il secchione solitario. Ci s’identifica in una singola caratteristica, perché il mondo ci possa riconoscere a primo impatto. Ma si tratta, dicevamo, di una trappola destinata a rivelare ben presto le sue contraddizioni. La vita è estremamente più fluida, più inafferrabile di qualsiasi schema caratteriale. Ma, soprattutto, La classe è un film che porta alle estreme conseguenze una traccia che percorre tutto il cinema di Cantet. Le contraddizioni del sistema scolastico sono lo specchio del fallimento di tutta una società e dell’incapacità delle sue istituzioni di comprendere e intervenire. E il riflesso esatto di quest’incapacità è una tragica crisi del linguaggio. Entre les murs è il film più parlato di Cantet. Non c’è un attimo di respiro, dialoghi a seguire, battute su battute, duelli verbali. Ma, paradossalmente, il linguaggio fallisce clamorosamente la sua funzione. Ogni tensione, ogni scontro, parte da una frizione nei processi di comunicazione verbale. Lo scatto di rabbia di Souleymane nasce da una frase detta in consiglio di classe e mal riportata, l’uso improprio del termine “sgallettate” è causa di un conflitto sfiancante. E, poi, l’infinita polemica sui nomi da ricchi, sull’uso del congiuntivo ("è roba da medioevo"), la solitudine dell’’immigrato cinese Wei che non riesce a esprimersi in francese, il “lei” che diviene “tu” e fa perdere la pazienza (perché?) a François…La crisi del linguaggio è orizzontale e verticale. I ragazzi non parlano più tra loro, l’insegnante non riesce più a tenere in piedi uno spazio condiviso, le istituzioni, con la loro ossessione burocratica delle definizioni (cosa scrivere sulla pagella?), non parlano più a nessuno (la magnifica scena del processo disciplinare  con la madre di Souleymane che non riesce a dire una parola in francese). I codici linguistici sono saltati. La scuola è una torre di babele dove l’ipertrofia verbale si traduce nel suo esatto opposto, in un’afasia forzata. E se il linguaggio perde la sua funzione, viene a cadere anche la possibilità di un rapporto con l’altro, di una linea di comunicazione che stabilisca una sintonia emotiva tra l’io e il tu. L’utopia resta un sogno irrealizzabile. Per ora.

Meraviglia di esplosiva complessità, Entre les murs vince una sacrosanta Palma d’oro a Cannes, ma sembra dar ancor adito a polemiche e distinguo. Perché probabilmente sconta la colpa di lasciare insoddisfatti i troppi maestri di pensiero che hanno la sicurezza e la presunzione di tracciare sentieri, dettare istruzioni per l’uso. I film di Cantet sono realistici, ma non hanno la pretesa dell’oggettività. Affrontano tematiche concrete, attuali, ma riescono a smuovere sogni, paure e desideri universali. È un cinema appassionato, ma non ideologico. È politico, ma non vuole sovvertire l’ordine. Semmai resistere. Sin dai primi corti, Tous à la manif e Jeux de plage, e da Les Sanguinaires, ogni film sembra sottoposto a una continua spinta centrifuga, in cui lo sguardo si libera a cogliere quel labile attimo in cui il caso fa esplodere ogni struttura predeterminata, ogni sceneggiatura possibile. È un cinema vivo, che nasce e cresce con la libertà delle immagini, perciò lontano anni luce dall’autorialità sbandierata e a priori. È fuori luogo il paragone con Gomorra e la gelida anestesia di Garrone, quel cinema da sala operatoria, fatto con le cavie da laboratorio e i guanti bianchi del chirurgo, quel cinema che pratica la sua asettica autopsia su un corpo già morto. Cantet, al contrario, sembra alla ricerca della sua dolorosa e tormentata autenticità. È forse nel cinema che si nasconde la strada che porta all’utopia.

 


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